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“Come scrivere un romanzo”. Dialogo tra Emanuele Trevi e Marco Vallora, a cura di Tiziano Toracca e Giulia Falistocco

Marco Vallora (Torino 1953) è critico d’arte per La Stampa e Lo Specchio. Insegna Estetica al Politecnico di Milano. Ha insegnato Storia dell’arte all’Università di Urbino e di Parma. Tiene abitualmente conferenze sulla storia dell’arte per l’ACI o sulla storia dell’opera lirica per vari enti musicali tra cui La Scala, il Regio di Torino, la Fenice, l’opera di Roma, il Maggio Musicale di Firenze o il Massimo di Palermo. Si è occupato a lungo di pittura, musica, cinema, letteratura, architettura, di fenomenologia degli stili e del rapporto tra le varie arti. Ha curato mostre o presentato, in catalogo, numerosi artisti. Ha collaborato con numerosi quotidiani, settimanali e inserti culturali. Suoi saggi sono apparsi sulle maggiori riviste culturali.

Emanuele Trevi (Roma 1964) è un critico letterario e uno scrittore italiano. Autore di saggi e romanzi, ha debuttato nella narrativa nel 2003 con I cani del nulla, uscito per Einaudi. È stato direttore (con Arnaldo Colasanti) della Fazi editore, ha curato una collana presso Quiritta editore e, con Marco Lodoli, l’antologia scolastica Storie della vita edita da Zanichelli. Con il reportage sul poeta Pietro Tripodo, Senza verso. Un’estate a Roma edito da Laterza ha vinto il Premio Sandro Onofri. Collabora con Radio 3, ha pubblicato saggi e articoli su diverse riviste letterarie e collabora all’inserto culturale di vari quotidiani. Tra i suoi ultimi libri: Qualcosa di scritto, Ponte alle grazie 2012; Il viaggio iniziatico, Einaudi 2013; Il popolo di legno, Einaudi, 2015.

Circa un anno fa, nell’ottobre del 2014, l’associazione culturale Mixart-KolloK ha ospitato un festival letterario e teatrale all”interno del quale si è svolto questo dialogo sul romanzo tra lo scrittore Emanuele Trevi e il critico d’arte Marco Vallora. In vista di questo incontro, Trevi aveva gentilmente inviato a Vallora degli stralci del romanzo che stava allora scrivendo (Il topo, ora uscito con il titolo Il popolo di legno, Torino, Einaudi, 2015).

Toracca. Mi spiace ci sia poco pubblico ma non fatevi condizionare o innervosire.

Trevi: Mi capita da tanti anni di andare spesso in giro e a me fa molto piacere parlare davanti a tanta gente come davanti a poca gente, anche perché poi si crea un clima familiare. Una volta ad esempio mi è capitato questo con Sandro Veronesi (che ha all’incirca la mia età e all’epoca avevamo pubblicato il nostro primo libro): ci invitò a Livorno una persona che poi allagò la libreria dove doveva esserci questo incontro (e io ero anche molto emozionato) per avere i soldi dell’assicurazione. Io vedevo i nostri libri galleggiare in questa libreria fintamente allagata e alluvionata e però pensavo che questa era una persona anche molto simpatica che poi infatti ci portò a pranzo e poi voleva portarci in un bordello etc. Poi quando ho visto che c’era un pubblico, la seconda volta e poi in seguito altre volte, per me è stata una scoperta, mi sono tranquillizzato e ho pensato: allora non si fanno le presentazioni per rubare i soldi alle assicurazioni. La letteratura è una cosa che si svolge da soli e già questa è una folla.

Vallora: Non siamo innervositi dal pubblico per carità.

Trevi: Siamo innervositi da Tiziano perché ha delle idee pazzesche: voleva portarci in un’altra sala in mezzo allo spettacolo di Shakespeare…

Toracca: Però, per lo meno, il bordello non ve l’ho proposto.

Vallora: La vita moderna ha ormai degli orari logoranti. Avrei voluto seguire volentieri anche le altre cose (tipo Romeo e Giulietta). Vagavamo insieme dentro il KolloK (succede sempre quando si vuole fare delle interviste) e già avevamo cominciato a parlare dei suoi romanzi. Ma veniamo al dunque. Io sono in crisi, felicemente in crisi perché ho letto delle cose molto belle, difficili però da riassumere. Io ho lavorato su libri così detti minori ma per me anche molto stimolanti: ad esempio ho letto un libro molto interessante che non conoscevo, un libro interessantissimo in cui Raffaele La Capria (che amo molto) e Emanuele Trevi parlava di letteratura e libertà. Ma ho come l’impressione (Tiziano è meravigliosamente gaffeur) che quello che ti ha detto Tiziano poco fa, sulla porta, e cioè che tu non sei uno scrittore (scrittore-scrittore), possa essere ripreso ed espresso meglio: Trevi non è un romanziere tradizionale, e non tanto perché inventi il vero, ma perché è uno scrittore del meticciato. Penso ad esempio al libro più complesso e completo che ho letto di lui, quello dedicato a Pasolini e Laura Betti: è difficilissimo dire se è un romanzo, se è un romanzo di iniziazione, se è un saggio su Petrolio di Pasolini. Un libro, questo di Emanuele, che ha un titolo azzeccatissimo. E’ proprio quello che a me piace, un coacervo di generi (ad esempio, come Arbasino in Certi romanzi di cui ho sentito parlare poco fa). Oggi mi soffermerò su un libro in particolare (ne volevo parlare nel mio corso di estetica, di architettura, a Milano anche se alcuni colleghi si sorprendono quando faccio leggere una poesia di Rimbaud o di Pound o ascoltare della musica). Il libro si chiama Istruzioni per l’uso del lupo in cui c’è una idiosincrasia per il sapere universitario che io apprezzo moltissimo. Trevi mi ha mandato anche un testo esilarante alle quattro di notte (io ridevo da solo) che è questo “concione” la storia di una zanzara tigre che parla in modo meraviglioso, in romanesco, sulla scia di Trilussa anche se ci sono dentro moltissime altre cose. Un altro testo che ho tenuto presente è questo che sta scrivendo (ed è stato generosissimo a inviarmene delle parti contraddicendo quella classica gelosia tipica degli scrittori e che dimostra la sua singolarità) e che si chiama: Il topo.

Trevi: Il topo come titolo mi piacerebbe moltissimo ma visto il film di Jodorowsky non so se sarà il caso.

Vallora: Abbiamo il lupo, il topo, la zanzara tigre, la Betti, la pazza che è una bestia non da poco. Facciamo allora una domanda stupida, proprio da intervistatore: gli animali, perché questa ricorrenza dell’elemento animale nei titoli?

Trevi: Potrei citare anche I cani del nulla… Il modo animale è un mondo facilmente metaforizzabile. Io adoro le favole di Jean de La Fontaine, o i fumetti che hanno come protagonisti degli animali, o anche i paperi di Walt Disney, e quindi sono sempre attratto anche come lettore da questa cosa che è sempre “finta”. Il più grande libro su un comportamento animale è forse Il richiamo della foresta di London. C’è una situazione in cui questo cane privilegiato, il cane di un ricco avvocato di San Francisco, viene rubato e si trova prigioniero di cercatori d’oro in Alaska e quindi deve riprendere un carattere selvaggio per non essere ucciso dal branco. Fin dalla prima notte per non morire di freddo deve fare una cosa a cui non è abituato, perché solitamente dorme vicino al camino, ovvero scavare una buca dentro la neve e poi affrontare il capo branco per dimostrare che lui vale. Mi ha sempre colpito molto una polemica, a quei tempi in cui il rapporto tra politici e scrittori era forse più illuminato di oggi, in cui il presidente degli Stati Uniti fa una stroncatura molto bella del libro dicendo che con i suoi i cani lui andava a caccia di orsi. Lì viene fuori che ha ragione il presidente, nel senso che l’animale è affascinante perché è l’alterità assoluta. Quando però noi scriviamo facciamo il contrario, noi proiettiamo dei contenuti psicologici molto umani sull’animale, come la memoria, un vocabolario molto esteso, troppo esteso e soprattutto attribuiamo agli animali dei sentimenti. Questo è per me il paradigma di quello che scriviamo: perché insomma scriviamo o perché si dipinge? Lo facciamo affinché il mondo esterno acquisti una possibilità di interiorizzazione. Il movimento fondamentale dell’opera d’arte è che fa diventare umano qualunque cosa, non perché quella cosa sia umana in sé ma perché viene pensata “a misura umana”. E dunque se torno spesso sugli animali è perché ho la sensazione che l’interiorizzazione dell’estraneo, il passaggio dall’esteriore all’interiore sia un po’ lo scopo di tutto quello che faccio e un po’ anche il limite nel senso che non c’è nulla di cui io riesco a parlare che non sia diventato un mio oggetto interno… Tant’è che per esempio ho molti dubbi come scrittore sulla documentazione, nel senso che io non sono mai troppo interessato a capire come va esattamente una cosa. Le costruzioni critiche (come ad esempio il ritorno del realismo o le nuove forme di denuncia) possono essere più o meno azzeccate ma dal punto di vista dello scrittore tutto quello che crea un’etichetta gli sottrae qualcosa. Più che una confusione ideologica, secondo me il rischio è che si crei una confusione pragmatica, tecnica. Mi chiedo: come si fa oggi a lodare un romanzo per un contenuto di verità che a mio parere è sempre più a portata di mano in altri ordini di senso, altrove. Adesso per esempio ho fatto la recensione a un romanzo molto bello di una persona che so che è stata qui in questo luogo: mi riferisco a Nicola Lagioia e al suo romanzo La ferocia [Nicola Lagioia ha partecipato all’inaugurazione del centro culturale Mixart-KolloK nell’aprile del 2014. Come Trevi, anche Lagioia ha dialogato con Marco Vallora sul tema del romanzo. Purtroppo, e fatalmente, la registrazione di quel bellissimo incontro (registrazione eseguita da Radiocicletta) è andata perduta. Ringrazio ancora Nicola Lagioia, a titolo personale e per conto dell’associazione Mixart-Kollok, per la sua pazienza e la sua preziosa e amichevole partecipazione.]. La quarta di copertina di questo libro dice: “mai come oggi Lagioia ha descritto la realtà italiana attuale”. Io credo che bisogna sempre stare attenti: la letteratura è molto sfuggente, insomma non è un sapere affidabile. Io credo che Milena Gabanelli sia molto più affidabile di uno scrittore. Cosa fa Nicola? Si documenta sulla speculazione edilizia a Bari ma quello è un sapere soltanto evocato, è qualcosa che riguarda il fatto che lui viene da lì, sente questo sapere, questo luogo come stuprato dalla barbarie, è impressionante (sembra l’America Latina) ed è completamente disordinato.

Vallora: È una provocazione, perché dopo se ne allontana…

Trevi: Sì dopo se ne allontana perché parla dell’amore fra due fratelli; però è proprio questo aspetto qui impegnato che viene fatto come poi spiega Nicola alla fine con una documentazione precisa. Noi tendiamo molte volte a dare alle parole dei libri una loro oggettività quando sono parole che provengono da altri ordini di senso. Allora io dico sempre: strano, io funziono in una maniera diversa. Quando io interiorizzo qualcosa, questa cosa qui di fatto non esiste più, non ha una sua esistenza oggettiva, ha un’esistenza che è completamente investita dalla soggettività; ma non solo perché la posso infilzare con un aggettivo che è solo mio proprio, ma proprio perché è un fantasma, non è quello che è là fuori, all”esterno.

Vallora: Già leggendo il Topo ma anche nella Zanzara, beh, volevo dire di te proprio queste cose: in te c’è sempre questo meccanismo. Cioè c’è come un’appropriazione: c’è un personaggio che tu fingi, un flautus voci, una dramatis persona, e poi nel poco tempo in cui la frase si coagula tu incominci a romperla, a distruggerla e soprattutto a entrarci dentro tu e far capire bene e a fare vedere bene che ci entri. Quindi in questo senso, la tua interiorizzazione è la normalità. Ti ringrazio che ci hai spiegato che cos’è Il richiamo della foresta: sarà una idiosincrasia infantile, ecco, io ho una grande nostalgia per i libri che non ho letto ma ci sono due libri – Kim e Il richiamo della foresta – dei quali sono sempre stato convinto che mai li avrei voluti leggere e invece forse sarebbero due bellissimi libri. Però ora leggerei velocemente una tua frase anche se mi vergogno un po’ perché non so il romanesco: “Me sento strano me sento, la cosa più strana de tutte è che me sento strano”. È la zanzara tigre che parla…

Trevi: Scusa se ti interrompo, faccio una premessa: questa è una cosa che ho scritto per il teatro Argentina, il teatro di Roma, che sarà fatto da un’attrice che è specializzato in romanesco, Eleonora Danco, che tra l’altro è una poetessa, attrice. È stato ispirato da un manifesto molto antipatico che c’era per tutta Roma: c’era la faccia del sindaco di Roma con scritto “sconfiggiamo tutti insieme la zanzara tigre”. E mi dicevo perché dobbiamo cercare quest’unità, cioè ognuno si ammazza le sue, e dato che sono stato a Roma tutto agosto, per le strade deserte vedevo questa faccia del sindaco, arcigna, che poi non è bello. Però è come dire la zanzara è il nostro grande nemico e tra la felicità individuale e collettiva e noi c’è solo questo animalino che è fastidioso. Allora proprio in quei giorni volevo provare a mettermi in un punto di vista che non è della zanzara, ma di quello di una persona che può provare simpatia per un essere che sta antipatico a tutti.

Vallora: Però è interessante però come tu lo costruisci, all’inizio lei è la zanzara tigre, “me sento strana”, e quando lo leggo mi viene in mente, non so chi di voi l’abbia visto, ma forse anche tu, Antonio Vezza. C’è qualcosa di questo, mi pare…

Trevi: Sì, sono di una generazione di persone, come anche Ascanio Celestini, che dopo essere cresciuti nell’idea che noi non abbiamo un vero dialetto a Roma. Noi abbiamo una cadenza, una maniera di parlare, delle formule di brevità del pensiero che non è proprio un dialetto, non è un dialetto come si può sentire parlare a Napoli, ovvero una vera lingua. E devo dire dopo decenni che nessuno ci provava mi sono ricollegato un po’ a Pascarella, ad un po’ al folklore. Mi ricordo Antonello Trombadori che faceva un sonetto romanesco a settimana per il «Messaggero», ed erano terribili. E poi c’è stato un reinvestimento molto grosso – io ho sempre lavorato molto per il teatro – e l’ho visto nascere proprio da certi attori, eppure io non riesco a scrivere per il teatro in generale, riesco a scrivere solo per degli attori, nel senso che devo proprio ritagliare il vestito su misura.

Vallora: Lasciami finire perché voglio capire come costruisci: «io me sento strana, io non me dovrei nemmeno sentire a parte la stranezza, ma che ne so, me faccio le domande e me do le risposte come i pazzi al manicomio non me ricordo bene quando è incominciato. Come dovrei essere me domando zero pensieri, affamata, stronza, me rispondo, ma invece è come se si fosse rotto un tubo nel cervello ce corrono dentro parole, ricordi , paure, non posso più smettere, che vergogna! Che cazzo de risposte ti puoi aspettare da una domanda?». La zanzara resiste, e poi c’è questo profluvio dove – non è una critica anzi, e un’ammirazione per quello che è tipico tuo -, cioè copri questa fiducia brevissima di fiato cortissimo nella forza di finzione del personaggio. È interessante questa costruzione distruttiva: la costruzione per te avviene con questo procedimento, cioè l’incanto che sia una vera zanzara tigre, sennò sarebbe un comico di bassissima lega. A me interessa molto questa commistione, cioè parla parlerà sempre la zanzara tigre però hai i tuoi dubbi e il topo in un certo senso…

Toracca: Mi incuriosiva molto la questione della soggettivazione della realtà di cui parlavi. Tu quando parli di qualcosa la prendi e la fai sparire, allora la domanda che ti faccio è questa: ma poi non riappare da qualche parte? La zanzara tu dici, viene da un manifesto, e ce l’hai già detto, io se non l’avessi saputo avrei pensato alla zanzara, però poi era un manifesto; cioè tu la “mangi” la zanzara, la interiorizzi, ma poi esce il manifesto, quindi la realtà ritorna, almeno mi sembra un po’ questa l”idea…

Trevi: Beh ci sono delle circostanze…di solito le cose devono funzionare senza sapere le circostanze. Noi non sappiamo in che circostanze è stato scritto Macbeth. E però queste circostanze ci sono state. Nel senso che noi abbiamo del materiale, ci sono delle biografie sono anche divertenti nella loro surrealtà. Alcuni dei più grandi lirici greci e quindi della storia dell’umanità, si sa solo dove erano nati. Ed è una notizia stolta se ci pensi, non ha significato. Però quella cosa se tu la confronti con lo scrittore moderno in cui ti dicono anche che cosa mangiava, dove passava il Natale, etc. è la stessa sostanza. Cioè tu sai che quello è nato in un posto e tu sai che quello ha una vita ricca, e perciò puoi anche inventare, immedesimarti etc.. Io sono cresciuto in un ambiente, ho avuto una formazione che mi interessava poco – così rispondo anche a Marco per il fatto che il mio primo libro si sente il disgusto per l’accademia – perché c’era un dogma sia negli studi artistici che in quelli letterari: il fatto che i testi, i testi pittorici e narrativi, formassero degli insiemi di senso che era la letteratura. Ogni nuovo testo modificava la letteratura, secondo una bella intuizione di Eliot o quello che dice Borges che Kafka crea i suoi precursori: ogni testo nuovo modifica l’idea complessiva di letteratura. Pensate al lavoro che ha fatto Gianfranco Contini a partire da Gadda, che era un suo amico un suo contemporaneo, andando a ritroso fino al ‘500. Quindi la storia non va solo dal passato al futuro ma anche dal futuro al passato, e questo può essere anche un ambiente di idee interessante. Però a un certo punto questa dimensione escludeva il ricorso a degli elementi di carattere biografico, cioè questo ricorso era considerato come qualcosa di volgare, attardato, che non ti faceva entrare dentro quella che veniva sbandierata come l’idea non solo critica, ma anche pedagogica di autonomia del testo, ovvero bisognava pensare ai testi letterari come a qualcosa prodotta dalla storia stessa della letteratura piuttosto che dai singoli autori. Quando io provavo a dire agli esami delle cose, cioè come avevo visto io le cose, mi veniva risposto “sì però questo è un pettegolezzo”, perché intanto “i codici” funzionavano. Ci tenevano ad informarci ad esempio, e oggi credo sia un po’ diverso, che non era assolutamente importante che un signore chiamato Francesco Petrarca si fosse ad un certo punto innamorato di qualcuno. Perché il suo procedimento letterario comportava che da due secoli si parlava di donne bionde, e la poesia medievale parlava di amore ed era questo l’importante, che il nuovo testo fosse generato dal codice, esattamente come alcuni meccanismi del mondo informatico sono capaci di generare programmi senza che l’uomo intervenga. È un idea che era (e che forse è) senz’altro affascinante, però totalmente infrequentabile per me. Quando ho conosciuto Cesare Garboli, che si stava dedicando al tema degli amori tra Pascoli e sua sorella, avevo dei professori che dicevano che era poco serio, un “pettegolone”, e pensate quanto Garboli era controcorrente e quanto creava scandali e tracce di studio. Ovviamente le presa di posizione non valgono niente: dipende quello che ti fanno conoscere. Puoi conoscere dalla più stretta semiologia come dalle cose di Garboli. E indubbiamente Garboli dava luogo – e con lui alcuni maestri del passato da cui lui prendeva -, a una forma di antropologia e di grande conoscenza dell’umano proprio attraverso questo rapporto di appropriazione e di espropriazione reciproca che l’individuo ha con il mondo…

Vallora: Sì, Garboli era un grandissimo ma di questo magari parliamo dopo visto che ha secondo me più a che fare con Il lupo e vorrei tornare invece al Topo. Intanto il Topo ha una citazione in esergo ripresa da Kafka: “ben per noi che non fummo quelli che dovettero gravarsi della colpa, ben per noi che in un silenzio quasi innocente possiamo correre incontro alla morte in un mondo già oscurato da altri”. A un certo punto tu scopri che questa è l’immagine di un cane, l’immagine di un cane che vede il mondo. C’è un riferimento come dicevi tu prima ad un antropomorfismo, magari anche alla Savinio, ma io credo che una delle pietre miliari – anche analizzato anche dai formalismi russi, e dagli strutturalisti – sia Passo lungo, così in italiano, il racconto straordinario di Tolstoj di cui il lettore legge un testo all’inizio, prima non capisce bene, ma poi si arriva a comprendere che è un cavallo bastonato che sta parlando. Continuo a legger l’incipit di un romanzo che generosamente tu ci permetti di frugare.: «nemmeno il topo pensò quella mattina il topo sbucando la sua faccia gonfia di sonno nello specchio sopra il lavandino, nemmeno il topo può sapere come andrà a finire questa nuova storia che pure non c’è dubbio ha messo in moto lui». È chiaro che in questo c’è un effetto rovesciato – abbiamo visto Kafka – ma, conoscendo la zanzara tigre, anche io all’inizio ho pensato che questo fosse un topo, invece Topo è un nomignolo, un nomignolo crudele poi lo scopriremo, e quello che è interessante è questo gioco acusticamente anche un po’ manieristico, con la litania della ripetizione “topo” bellissima.

Trevi: vedete com’è la scrittura? È qualcosa che sembra sempre nobile, elevata, invece è fatta di pensieri quasi meschini. Mentre Marco leggeva questa cosa ho detto devo togliere “di sonno”, perché “gonfia di sonno” è inutile; quello che mi spaventa del linguaggio nel suo automatismo cioè i legami fatti tra le parole. Per esempio i nostri colleghi quando scrivono ironia devono sempre scrivere “sulfurea”, che non si capisce il perché. Il mio lavoro è anche questa cosa qui. Sarà che ho un grande rispetto di stile di formule antiche, ma quello serviva a qualcosa, Omero scriveva sempre “Achille piede veloce” perché questa formula rientrava nell’esametro e doveva ricordare tutto a memoria. La scrittura indubbiamente fa evolvere la letteratura, con buona pace dei tanti sostenitori della letteratura orale, perché asciuga non le cose inutili, perché tutto è utile, ma asciuga dall’automatismo. Allora quando ho scritto quella frase, quella parola – gonfio – ho avuto un momento di distrazione evidentemente, non di distrazione grave, perché poi può essere che finisce nel libro, ma di distrazione di “tappaggio” al linguaggio.

Vallora: C’è però un’altra spia e cioè che tu giochi per luoghi comuni rovesciati. Ti faccio un esempio: “non c’è manico, è questo il problema, il difetto della costruzione. Evoluto è un manierismo consapevole ed evoluto. Riesci a ricordare se è qualcosa di voluto, un atto giocato volontariamente sul luogo comune in modo da scardinarlo e decostruirlo?

Trevi: Lui – il protagonista di queste prime pagine del libro che Marco sta leggendo- pensa che la dignità umana non è un fatto che si può semplicemente evocare. La dignità è un coltello che devi stringere nelle mani. Però questo coltello ha solo la lama quindi che cosa vuole dire – questa persona è un calabrese e visto che ci ho passato l’infanzia in Calabria e mi ha sempre colpito molto il carattere delle persone là- ecco vuol dire questo: se tu potessi impugnare una cosa per il manico sarebbe comodo, invece se vuoi avere dignità ti devi far male, ti devono sanguinare le mani; e questo è vero a ogni livello della vita. Qualsiasi cosa di veramente incisivo facciamo per noi o per gli altri implica un abbandono di una posizione sicurezza. Allora questo riguarda la costruzione del personaggio. Quello che faccio io è sempre un’idea -per questo ci metto anche molto a scrivere -: è un idea fondamentale quasi brutale per come la formulo, e credo di darti una risposta, è una questione centrale. Ma è quello che veramente voglio esprimere io o – in quanto anche scrittore che ha avuto un’ottima fortuna – è quello che gli altri vogliono ascoltare? Per me questo è il problema dello stile. Si dice lo stile è l’uomo, e non è una scemenza: lo stile è l’uomo per molti motivi. Ma lo stile è anche un brand, una marca di riconoscibilità, è qualcosa che crea un’inerzia anche peggiore della faccia “gonfia di sonno”, perché questa la ereditiamo dagli altri, invece il mio problema estetico è rimanere legato a come io voglio esprimere quella cosa, e quindi che faccio? Io insegno scrittura – dopo aver per molti anni insegnato alla scuola Holden – sono sbocciato nel metodo loro, e in una scuola con tanti insegnanti metti una cosa tra altre, allora ho preso dei ragazzi e delle ragazze molto giovani e con loro faccio un altro tipo di lavoro che si basa su un “allargamento delle possibilità dell’io”. Quando si è giovani spesso si pensa che un testo letterario sia qualcosa che nasce dall’intelligenza o dalla cultura: noi invece conosciamo il mondo attraverso la nostra intelligenza o stupidità, attraverso il nostro coraggio e vigliaccheria, cioè ogni cosa ha una polarità e l’energia sta nel tenere attiva questa polarità, non nello scegliere, ma allargare il campo di possibilità di percezione del mondo che ha l’io. È chiaro che è un ottimo metodo è la lettura stessa che io non concepisco come “conoscere la letteratura” visto che come molti di voi e la maggioranza dei lettori non ho i doveri che hanno gli accademici; se leggo allargo una parte della mia testa verso qualcosa che non potevo conoscere in quella maniera, ad esempio un’idea dell’amore che io non ho praticato o vissuto, ed è come un pezzo di me che si sveglia, qualcosa di umano e non di irraggiungibile. I libri ci contagiano, e più di tutte le altre arti ci costringono ad immaginare e quindi a partecipare a quello che noi facciamo. Per esempio, quando ho scritto “Qualcosa di scritto” ho dovuto rimettere mano, e non lo facevo da quando ero giovane, a un libro di Sade importante per l’ultimo Pasolini, Le 120 giornate di Sodoma. E Sade è pazzesco perché ti costringe a immaginare delle nefandezze che nessuno è arrivato a pensare e sei tu che le stai facendo. E questo è diverso dal cinema dalla musica, dalla pittura. Io posso dire che la pittura è la cosa che mi interessa di più, però devo dire la letteratura è l’arte più potente in questo senso, perché ti sporca e ti costringe a immaginare. Voi pensate a cosa sia stato per la storia dell’umanità il fatto che Don Chisciotte sia stato scritto: quello è un libro che costringe le persone a immaginare uno che immagina una cosa che non è: quanto si allarga in questa maniera? La nostra capacità di percepire il mondo è un muscolo che va allenato. Allora quello che cerco di dire a dei giovani ragazzi, alle prime armi, che la ricerca fondamentale che tutti facciamo e che non smette mai, perché io sono come loro solo con più esperienza, quindi con più amarezza. Il tempo non dà più talento, siamo sempre in un ambito di potenzialità, uno si mette la mattina e ci prova. La ricerca di un proprio timbro è la conseguenza di un movimento dall’inerzia dell’io a un movimento dell’io. Ora se io fossi un maestro di saggezza -di psicanalisi zen, qualsiasi cosa – direi che la polarità positiva deve assorbire quella negativa: tutte le saggezze sono fondate su questa cosa qua: il negativo diventa positivo. Per la scrittura è diverso perché ai fini della scrittura basta avere un’intensità, perché la scrittura non è terapeutica -può essere terapeutica ma non lo è naturalmente – perché si nutre dell’angoscia come della tranquillità, del fallimento come della pienezza, della potenza come dell’impotenza. Quindi basta tenere aperta un’idea larga di complessità, dove a ogni cosa corrisponde un suo contrario. Questo ha molto a che fare con lo stile, con la ricerca delle parole, con la capacità di saper rappresentare cosa passa per la testa a un personaggio, cioè io do ai personaggi la capacità di tener sempre presente che uno stato d’animo ha sempre un’ombra, che è il suo contrario. Mi sembra insomma che quando una persona è una persona reale abbia sempre questa cosa qui che io ho sempre chiamato energia del contrario, quella fonte d’energia che gli esseri umani derivano dall’animale, ecco perché l’animale è umanizzato. Perché l’animale vive nel letto invidiabile dell’istinto, quindi non può mai dare valore al contrario di quello che vuole fare. Noi evidentemente avendo perso l’istinto, o avendolo ridotto a pochi filamenti nervosi, come sfamarci, a livello più che altro di scelte, di linguaggio etc. tendiamo ad atrofizzare questa enorme possibilità quindi tendiamo a fissarci in un’idea di noi stessi, e questa idea di noi stessi crea uno stile riconoscibile, crea un’intesa con il lettore che è un piccolo cabotaggio, cioè io ti porto quello che tu vuoi. La maggior parte della narrativa di successo dà l’illusione al lettore che lo scrittore la pensa esattamente come lui, ma in realtà entrambi stanno facendo un lavoro poco ambizioso.

Toracca: Una sorta di congelamento?

Trevi: Sì. A volte mi sono chiesto perché alcuni libri sono immagini di identificazione potente. Io sono ancora una persona per il quale l’artista è quello che fa un pensiero non mai stato fatto, non crea questa cosa dell’identificazione. Per me un artista supremo è David Linch o Pina Bausch, cioè persone che hanno un codice naturalmente e che però allo stesso tempo ti portano una cosa che tu non avevi mai pensato, come un angolo di una parete in ombra che si illumina. Per me ha sempre funzionato così insomma.

Vallora: Tornerei al Topo…

Trevi: Mi piace quest’intervista così testuale perché di solito gli intervistatori non leggono mai i libri…

Vallora: Una cosa che mi ha interessato molto ma che mi ha anche lasciato molto perplesso: quando tu dici che c’è la necessità di una riconoscibilità dello stile. Per esempio io ho trovato questo ritmo che torna molto, torna in alcuni di questi testi – torna nel Lupo, persino nella Zanzara, molto nel Topo e anche nel libro ispirato a Pasolini – questa sorta di gioco di abbassamento, questa volontà di raffreddare un po’ l’eleganza dello stile e però improvvisamente c’è anche quest’esigenza, che io sento molto condivisibile, – io non ti sto dicendo che è un errore – però mi domando se te la vedi come qualcosa che ogni tanto potresti smussare, questa sorta di improvviso sollevamento dei decibel e del diapason e ci sono delle sentenze che si potrebbero citare, parlo di sentenze, visto che tu stesso usi questo termine. Ad esempio, mi sono appuntato da Qualcosa di scritto: “tenace e paziente la mediocrità riafferma sempre i suoi diritti”. Anche qui è difficile sapere se tu condividi questa sentenza o se è una sentenza che coinvolge i tuoi personaggi. Perché credo che l’io che dice io nel romanzo di Laura Betti e Pasolini, in fondo sei tu ma è anche una proiezione romanzesca di te stesso. Allora siccome la mediocrità domina nei tuoi personaggi, il personaggio di Qualcosa di scritto sguazza nella mediocrità e quando la pazza Laura Betti lo ridicolizza, lo chiama “zoccoletta”, lo riempie di improperi, c’è un godimento quasi masochistico nell’accettare questa specie di staffile continuo. E dopo il personaggio viene descritto meravigliosamente come un mediocre apprendista. Certo però il titolo ci ha messo in guardia e a un certo punto si parla anche di un profeta e quindi la cosa interessante si apre in questa discrepanza che io non vedo come un difetto ma come una caratteristica, però ti chiedo come tu la controlli proprio a livello di scrittura. Quando il topo, il personaggio del topo (o la zoccoletta di prima) si crogiola in questa meravigliosa infermità mentale, da uomo senza qualità e però poi ha improvvisamente questi pensieri altissimi in modo da arrivare a questo acme da sentenza. Allora come la mettiamo: tu la controlli, la smussi, è una tua caratteristica?

Toracca: Marco, puoi fare qualche esempio visto che hai sottolineato tutto il libro?

Vallora: Di “sentenze” ne ho tante… ad esempio: il personaggio del Topo, apparentemente borgataro di gran successo, figlio maledetto di una famiglia smandrappata, genitori drogati, madre ninfomane cocainomane, personaggio azzerato e però al tempo stesso è un personaggio auto riflessivo, è un romanziere nato, di cui te ne servi per fare le tue osservazioni. Quindi è bellissima per me questa doppiezza, però magari un critico, come dire, magari più ostile a te o ottuso (non come me) potrebbe mal giudicartelo. La zanzara che si mette a ragionare.. .Allora leggo: «Ed era così grazie a quell’ingiuria che aveva imparato a guardare a se stesso esattamente come si guarda a un altro ridendo e allo stesso tempo considerando la sua vita dal punto di vista di una spia, sempre pronto a spifferare a chissà chi i propri stessi segreti». C’è questo tema quasi dell’auto guardarsi, questa necessità dell’autoabbassamento… «passati cinquanta anni sempre tenendo duro in questo esercizio si era talmente purificato da ogni minima ombra di io che anche quando dormiva osservava con un certo distacco il topo dibattersi nelle complesse filiere dei suoi sogni. D’altra parte, proseguì a pensare il topo, nemmeno guardarsi dal di fuori significa conoscersi, così come il primo cornuto che passa può farsi un’idea sbagliata di te, puoi venire ingannato dal tuo stesso riflesso in uno specchio. Di noi e degli altri non conosciamo che le apparenze e queste apparenze le chiamiamo vita. Ma l’altra vita, la vita stessa, chi può affermare di conoscerla, quella che si svolge nella tempra del sangue, nel lago del cuore, nella cavità dei coglioni, nelle viscere che strizzano la merda». È bellissimo questo contrasto, questo meticciato tra alto e basso; però a un certo punto c’è la merda e io mi sono appuntato una cosa. La figura di Camporesi è stata importante nella tua vita, visto che ha studiato sangue, mestruo, la brodaglia, ecco perché secondo me torna molto in te questa superficie apparentemente rotonda, ben formata, pulita ma sotto c’è un abbandono di sapere, un pulsare marcio del sangue.

Trevi: Camporesi era uno studioso di Bologna che cominciò facendo un’edizione di uno dei grandi libri della letteratura italiana che era Il ricettario di Artusi. Sono stati i grandi allargatori del concetto di letteratura. Una volta la letteratura era tre generi diciamo, e quella generazione là in quegli anni ha allargato ai testi dei mistici, a un ricettario come quello dell’Artusi…ad esempio Comisso da grande scrittore ha fatto capire come le spie scrivevano bene: tante cose che noi oggi chiamiamo letteratura. Sono persone che si sono trovate con dei vocabolari di fronte che riguardano soprattutto la vita del corpo. Da questo punto di vista io ho sempre amato una formula assurda che sarebbe “Simon Weil più Alberto Sordi”. Mi ricordo che tra le cose che capitano scrivendo, aneddoti della vita dello scrittore, quando avevo pubblicato quel libro Senza verso non avevo pensato che la casa editrice Laterza era la casa editrice di Benedetto Croce. Allora do questo mio libro e a un certo punto mi chiama la signora Laterza da Bari e mi dice “senta mi è piaciuto molto il suo libro, però devo dirle una cosa. La casa Laterza esiste da cento anni ed è la prima volta che nel suo catalogo appare la parola pompino”. È questo il potere della letteratura, il potere verbale e sempre corruttivo. Lei ha letto quella parola che non si aspettava, lei ne ha parlato, lei parlava di pompini al telefono. Poi alla fine abbiamo scherzato, poi io le ho chiesto: signora ma lei mi ha chiamato per toglierlo, se vuole se vogliamo possiamo mettere un termine “medico”. “E lei no no figuriamoci, volevo solo avvertirla che mi ha molto colpito questa parola dentro un libro che parla di Roma, molto alto”. Allora quello che mi ha fatto ragionare: non è mai l’emittente, io diciamo scrivo parolacce, scene di sesso, mia madre ogni tanto si vergogna di me, non è mai l’emittente (è lo stesso discorso di Sade), è che tu ti stai immaginando ed è un fatto tuo, quando tutti gli autori scandalosi, come in Lolita, o nel Il pasto nudo, Lawrence etc., hanno sempre detto: è un problema vostro, e uno pensa sia una formula di difesa arrogante, ma pensate a che cosa vuol dire negli anni trenta L’amante di lady Chatterly, un libro di letteratura alta, non roba che si legge di nascosto, mettere un rapporto anale, poi tra due persone di ceti sociali diversi che per gli inglesi è peggio del anale. Ha creato una bomba nella società inglese, non perché ha descritto, ma perché tutte quelle vecchie zitelle fasciste, gli ipocriti, gente che l’ha mandato a morire in Italia etc. si sono dovuti immaginare quello.

Vallora: Come quando Zavattini ha detto la parola cazzo alla radio. Ha rotto…

Trevi: Sì, ma quello però è già un suono. Quando però tu leggi una cosa è diverso. Quello è un fatto più sociologico. Invece è un fatto psicologico che mentre tu leggi ti immagini la cosa. Il fatto della scrittura è che nessuno immagina una cosa uguale agli altri. Pensate al caso più emblematico: Guerra e pace. Milioni di persone si sono immaginati il ballo dei nobili in maniera diversa, noi italiani ce lo immaginiamo con un anacronismo come il ballo nel Gattopardo di Visconti, ma nessuno è uguale: sarebbe come fare un sogno uguale leggere una pagina in modo uguale ad altri. Allora quando tu vai sull’imbarazzo, sull’oscenità, crei un effetto che è ingovernabile. L’altra sera ho visto un documentario su Salinger molto bello che ha fatto Feltrinelli, e c’erano tre persone che hanno fatto degli attentati gravi: quello che ha ammazzato Lennon quello che ha sparato a Reagan e un altro che non conoscevo, e tutti avevano in tasca Il giovane Holden.

Vallora: Anche quello che ha ammazzato Versace…

Trevi: Evidentemente quando leggiamo Il giovane Holden non ci viene da ammazzare qualcuno: è un romanzo di un giovane di sedici anni che scappa di casa. Ma la biglia rotola e se rotola in una mente malata…quindi è vero e non è vero, cioè non è la responsabilità del libro, a meno che non siano libri che inneggino a un determinato delitto e quella non è letteratura…e i libri hanno questa caratteristica: i lettori si sono immaginati un personaggio in maniera loro. Per questo la letteratura è diversa dalle altre arti, tu puoi essere spinto da un film a comportarti in una determinata maniera con effetti positivi o disastrosi a seconda dei casi e della persona. L’intervista all’assassino di John Lennon ad esempio: mi ha colpito moltissimo il rapporto che aveva con Il giovane Holden, lui dice “vedrete quante persone troverete che hanno sparato a qualcuno e hanno questo libro”. Una cosa del genere la puoi dire solamente dopo che questa cosa ha esercitato una potenza distruttrice su di te e questa potenza è dovuta al fatto che non c’è la figura del giovane Holden, non c’è il film del Giovane Holden: tu lo immagini come lui è, quindi in qualche maniera lo costruisci, sei suo fratello. Quando arriva la notizia che lui vorrebbe sparare a qualcuno, la notizia deflagra dentro di te perché hai fatto uno sforzo per costruire quel fantasma. Per questo quando Stendhal diceva “io sto formando il mio carattere”, diceva questo immaginando l’Orlando furioso. In realtà con la letteratura tu formi il tuo carattere. Ogni cosa che sia stata pensata o inventata è irreversibile in maniera minore o maggiore non ci può riportare a uno stato di innocenza, noi lo cerchiamo andando avanti, lo cerchiamo andando indietro, ma non lo possiamo più ritrovare. Il modello più simile a quello del linguaggio è la virologia: il virus non è importante per il suo percorso ma per la sua capacità di propagarsi, quindi abitano in essere diversi. Mentre però il virus ha generalmente le stesse conseguenze, la parola letteraria crea conseguenze incredibili perché sollecita il ricordo, la fantasia e la memoria: noi usiamo tutto quello che siamo per costruire la frase di prima.

Vallora: Però ti viene naturale arrivare a questo acme della sentenza o è qualcosa che cerchi, costruisci?

Trevi: No. Mi piace tantissimo perché io considero la lettura e la scrittura come camminare, gamba destra e sinistra, anche se so che ci sono scrittori che leggono poco. Io so che non posso fare la vita di Jack London (che peraltro leggeva molto) per cui io non posso tenere un pochino acceso… quello che mi fa rabbia dei ragazzi è che non la capiscono questa cosa qua…

Toracca: Proviamo con loro…

Trevi: No va be’… Ecco pensano che leggere sia un passatempo e che scrivere sia la cosa più importante. Invece non è vero. Tu invece devi passare un pomeriggio a leggere e scrivere indifferentemente. Ti leggi Sotto il vulcano di Lowry o scrivi la storia tua è la stessa cosa. Noi non abbiamo altra possibilità che tenere il fuoco acceso: ci deve essere sempre un fuocherello, se no quando ti metti a scrivere è come quando fai la marmellata e l’hai fatta freddare e non rigira bene. In questo processo ci deve sempre essere un fuocherello sotto. Quando scrivi hai la sensazione dell’incendio, che è chiaro che quando leggi è relativa, ti deve proprio appassionare quel che leggi.

Vallora: Sono petulante. C’è solo una cosa che mi ha fatto sentire il dubbio del male estetico. Quando tu nel Lupo bastoni un certo tipo di letteratura, che crea delle attese che poi le colma, mi sembrava di vedere formule simile a quelle di Baricco (che è anche un amico), come se anche tu… Ti cito una frase che secondo me rischia: “l’oceano del tempo richiuso nella conchiglia dell’attimo”. A me non piace. Con la tua sentenziosità, qui sfoci nel troppo lirico.

Trevi: Hai ragione. Scadente. Spero di correggerla, grazie. Tutto lo sforzo sta nell’evitare l’automatismo. Però sono cose interessanti perché uno parla sempre di ideologia nei libri, invece secondo me i libri vengono scritti virgola per virgola ed è interessante, artisticamente parlando, la tua osservazione. Invece se mi chiedessi cosa penso della Calabria…

Vallora: Tu sei intelligente, scusa, poi magari mi sbaglio e vinci il Nobel per questa frase.

Trevi: No. Sarebbe un Nobel assegnato ingiustamente…

Vallora: Passiamo a un tema che è molto importante per me, l’editing, e poi ti lascio. A volte degli amici mi chiedono fammi l’editing. L’editing è un’aberrazione: è ovvio che se io lo faccio, lo faccio come piace a me. Cosa ne pensi? A volte l’editing ha prodotto dei controsensi mostruosi, degli appiattimenti…

Trevi: Secondo me, così come è sempre stato concepito, l’editor è la figura che media tra le esigenze dell’editore e dello scrittore. Qua è l’errore. Rende più appetibile un dato prodotto per l’editore. Cioè, cosa succede, l’editor pensa che qualunque cosa faccia l’autore sia fatta per vendere il libro. Io non sono una persona che ha molto interesse per l’aspetto economico, però figuriamoci e penso a degli esempi come Pound che ha fatto l’editing per La terra desolata di Eliot, ha spinto Eliot a essere più libero, meno vendibile, e quelli sono modelli. Io per molti aspetti ho fiducia illuminata nel mio editore, ma io lavoro con una persona che è “fuori”, non è il mio committente. Si parla di editing continuamente, e c’è una cosa che non si dice mai, che è sbagliato che l’editor sia della stessa casa editrice, perché ha delle sue cose, dei suoi affari.

Vallora: Ci sono degli amici che fanno l’editor, e sono così bravi da fare le veci dell”autore, ma fa le cose secondo il suo gusto…

Trevi: E comunque adesso le case editrici, soprattutto le grosse, sono rette da criteri manageriali. Allora per esempio un signore quando ho fatto il libro per la Rizzoli mi disse di non inserire nel titolo la parola morte mentre io pensavo a tutti i libri che hanno la parola morte nel titolo e a quanto fu un’idea che andò benissimo (da Mann a Celine). Perché allora? Perché oggi – e lo vediamo anche in altri ambiti – che cos’è la managerialità? I criteri consistono nell’applicare delle regole quasi mai provate sulla realtà. Qualunque strategia fatta per vendere non ha mai nessun risultato certo…

Vallora: Tu comunque insisti sul Topo…

Trevi: Ma credo si possa fare di meglio. Quando stai in mezzo alla scrittura di un libro è sempre un’avventura affascinante. Io ad esempio quando leggo uso la sensibilità artistica perché evidentemente si attiva qualche cosa di più potente, dato anche che io non scrivo sempre…

Toracca: Io avevo un paio di osservazioni da farti: dicevi di scrivere e leggere insieme, gamba destra e gamba sinistra: però non pensi che quando uno finisce di scrivere invece di leggere va a fare esperienze nella vita più che di nuovo andare a cercarle in un libro? Perché altrimenti, mi pare, si mischiano libri con libri e si fanno libri fatti di libri. La seconda cosa che ti chiedo è questa: ci sono dei momenti in cui uno scrittore non riesce ad andare avanti nella sua narrazione proprio per quel procedimento che dicevi tu prima, quando lo scrittore ingoia l’oggetto lo soggettivizza e non riesce più a uscire da quell’illuminazione lì, e si “impala”, con Gadda, e la narrazione si attorciglia.. Come dici tu uno di una sedia può parlare ore, ma il rischio è di non narrare nulla e di entrare in una specie di elucubrazione.

Trevi: Due risposte epigrammatiche. Rispondo alla prima: non c’entra niente, leggere è una parte tecnica della scrittura, poi puoi essere uno scrittore che apparentemente ha meno riferimenti letterari, ma non si può scrivere senza leggere. La regola è questa, è sempre andata così. Sull’altra cosa entriamo in un campo della soggettività, per esempio io ti posso dire perché la scrittura non è un processo fluido. Non è un processo fluido in quanto tu sei arrivato sempre a qualcosa che evoca una paura, una zona di rischio, ma questa cosa qui non viene mai percepita come tale. Il motivo apparente del blocco è sempre quello che viene percepito e viene scambiato per una verità: scrivere è una cosa molto bella psicologicamente. Non è una terapia di guarigione ma di accettazione. Mentre le altre forme di saggezza si basano sul fatto che l’essere umano ha problemi risolvibili, lo scrittore sa invece che i problemi dell’essere umano non si risolvono mai. Però in qualche maniera posso tirare guadagno girandoci intorno, da qualunque situazione, positiva e negativa. Il blocco è, come dicevo prima, il mancato riconoscimento dei motivi del blocco. Noi pensiamo sempre di essere stanchi, di non avere tempo, queste sono i motivi generali, o non so descrivere un incidente perché non l’ho mai visto, quindi come faccio, invece lo inventi.

Vallora: Si può inventare il vero?

Trevi: Sì, si può inventare.

Vallora: Avrei ancora una domanda sul Topo: se mi potevi spiegare le origini della trama e cioè quelle che chiami Le avventure di Pinocchio in Calabria.

Trevi: Innanzitutto è un personaggio vero. Io non invento mai da zero. C’è un personaggio reale che fa un programma in televisione intitolato così, Le avventure di Pinocchio il calabrese. La domanda di questo libro viene proprio dall’attualità. Mi sono cominciato a chiedere: chi sarebbe, chi è Roberto Saviano, oltre che un bravo scrittore e una brava persona? Rappresenta una cosa che condivido e giusta, rappresenta in letteratura degli interessi collettivi, dello Stato, è un baluardo etc. perché lui ha fatto un’operazione interessante, con la sua opera, diventando parte della sua stessa storia, facendo una provocazione tipo body art quindi diventando parte della sua stessa opera, e io, evitando visioni ciniche, la trovo molto interessante come operazione artistica. Poi purtroppo gli ha creato problemi infernali. L’idea era semplice e un po’ fantascientifica: ma se un’organizzazione criminale volesse avere un Saviano, su che tipo di persona punterebbe e perché gli interesserebbe, perché questa cosa dovrebbe interessare? Esattamente come Repubblica o il governo italiano ha proprio puntato su Saviano, lo stesso fa la ‘ndragheta con lui, anche se alla fine si scoccia di questo pazzo… Lo Stato è più affidabile…

Vallora: Il topo allora sarebbe un analogo rovesciato di Saviano?

Trevi: Questo topo è come un prete spretato, che fa tanti guai nella vita, che è un pazzo, viene dal nulla, ha un amico che è un delinquente e si inventa un’interpretazione di Pinocchio in televisione (una di queste televisioni assurde che ci sono in Calabria) come la vedrebbero i delinquenti. Piano piano il programma viene conosciuto, anche tramite youtube, ma la differenza fra la ‘ndrangheta e lo stato è che con il tempo si scoccia di lui e del programma.

Raffaello Palumbo Mosca: Stavo pensando a una casa editrice che potrebbe pubblicare una cosa del genere. Però, forse, non hai paura che il libro scritto dal punto di vista di un camorrista potrebbe essere irrilevante come lo è stato il libro Cronaca della fine di Franchini? Un libro con questo tipo di protagonista…

Trevi: Sì certo ma dovrei entrare molto nella trama. Comunque fa sempre piacere parlare di bei libri di miei coetanei. Io non condivido molto l’entusiasmo per un altro libro di Franchini (Il signore delle lacrime) però quel libro su Dante Virgili è un libro straordinario…

Raffaello Palumbo Mosca: Il mio preferito, personalmente, è Cronaca della fine anche se strutturalmente il migliore è L’abusivo. Il signore delle lacrime, che è un libro che amo, è certamente inferiore ma mi serviva di più per le mie ricerche…

Trevi: Il libro di Antonio Franchini (la Cronaca) è un libro straordinario e parla di una cosa assurda, parla di uno scrittore di Milano che è l’unico scrittore italiano che era nazista. Ed essendo Franchini un editor della Mondadori, ha avuto un rapporto ambivalente con lui, perché da una parte Franchini è un funzionario editoriale e rifiuta, dall’altro è affascinato dalla figura di questo signore per l’ovvio motivo che quel nazista ha una vita intensa come la sua e forse migliore di cento persone conformiste… Se tu mi volevi minacciare facendomi fare la fine di Franchini è un problema dell’Einaudi: a cinquant’anni non me ne importa niente. Ma io lo faccio più divertente: quello è un libro plumbeo. Poi in realtà il suo libro è perfettamente riuscito, è un libro di sfida, sull’editoria, dove Antonio spiega perché continua a fare quello che è un mestiere duro e faticoso e che consiste nel dire molto spesso “no mi dispiace, potresti essere Kafka ma io non me ne sono accorto”…

Vallora: Io ho ancora una domanda. Come moduli questo salto di conoscenza del Topo? Io dal mio punto di vista l’ho letta come una epopea di un mediocre uomo senza qualità, ma come fai crescere quest’idea dell’uomo che si sveglia e si fa profeta… Come lo moduli?

Trevi: Non sono stato il primo scrittore che abbia imitato un carattere profetico ma è una cosa che mi sembra molto interessante. Mi farebbe molto piacere scrivere (se potessi stare dodici anni in biblioteca) la vita di santa Caterina da Siena. Era una donna straordinaria, aveva delle ossessioni: è la persona che ha scritto più volte la parola sangue. Però ho inventato una figura in cui c’entrano tante letture di mistici, e chiaramente mi è piaciuto degradarla… lui vive a Rosarno, è stato cacciato dalla Chiesa, trasporta la frutta..Come modulo la sua conoscenza chiedevi: la cosa fondamentale è che il profeta c’ha la testa vuota. Quella che tu chiami mediocrità è questo: pensa ma evita di identificarsi in quello che pensa: non nutre opinioni, parla senza opinioni. Se devo immaginare un carattere di un Maometto.. e poi un’altra cosa che mi ha molto colpito è che non esiste una figura profetica della cultura orientale. I testi sacri indiani, ad esempio, non hanno un profeta hanno un poeta, ed è diverso. E poi: io ho un talento che sfrutto moltissimo, che non lo dico nemmeno ai miei studenti: io disegno moto bene e faccio lo story bord del mio libro (penso di essere uno dei pochi scrittori al mondo a farlo).

Vallora: Infatti le tue sentenze hanno qualcosa di molto visivo, che è molto bello. Leggo ancora un pezzo, una specie di liturgia… «Vita nascosta e arrotolata come la vipera sotto il sasso. Lì dove comandano i desideri inconfessati, i piani di vendetta, le verità mortali. Cercando il dentifricio e lo spazzolino, il Topo smette di fissarsi nello specchio e lo sguardo, vagando in basso, gli cade sul cazzo, ancora bello gonfio. La durezza dell’alba che accomuna tutti gli uomini: qualunque cosa se ne facciano, poi, del cazzo. Logicamente, l’argomento lo conduce a Rosa, l’adiposa Rosa, quell’imbecille totale di Rosa». Quanto hai impiegato a scrivere queste frasi?

Trevi: Dal disegno sono arrivato là. E mi fa piacere che ti piaccia. Vi ricordate un libro scritto da un poeta Enrico Testa, Lo stile semplice? Non c’è possibilità di non faticare. È un libro rivelatore perché se c’è l’opinione che scrittori come Calvino o Bassani o Hemingway abbiano praticato meno…anzi quella è una levigatura di poco parole e chi usa poche parole deve essere perfetto. E la cosa fondamentale è la musica della frase. Di quelle frasi apprezzo molto la musica. Quello che mi fa arrabbiare dei ragazzi che seguo è che loro strozzano la frase, usano le virgole come origano. Come la poesia anche la prosa deve avere un ritmo, ha delle cesure, e non è tanto più facile della poesia, e nel Novecento raggiunge livelli altissimi.


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L'autore

Giulia Falistocco
Giulia Falistocco
Giulia Falistocco è dottoranda presso l’Università degli studi di Perugia. Si occupa di romanzo storico italiano, con particolare attenzione all’opera di Vincenzo Consolo, Elsa Morante e Tomasi di Lampedusa, e di serialità televisiva. Ha pubblicato articoli usciti in rivista e in volume; ha inoltre partecipato a convegni internazionali. Dal 2016 è redattrice de La Letteratura e noi.