scrivere nelle varie lingue d'Italia

Eugenio Barzagli intervista Edoardo Zuccato

Edoardo Zuccato nasce a Cassano Magnago, in provincia di Varese, nel 1963. È professore di letteratura inglese all’università di lingue e comunicazione IULM di Milano e poeta in lingua altomilanese. Ha pubblicato i libri di poesia: Tropicu da Vissévar (Crocetti, Milano 1996), La vita in tram (Marcos y Marcos, Milano 2001), I bosch di Celti (Sartorio, Pavia 2008) e Ulona (Il ponte del Sale, Rovigo 2010). Ha inoltre pubblicato alcune traduzioni da Virgilio (I Bücòligh, Medusa, Milano 2007) e, in collaborazione con Claudio Recalcati, da François Villon (Biss, lüsèrt e alter galantomm, Effige, Milano 2005). Nel 2012 è apparso Il dragomanno errante. Quaderno di traduzioni (Atì, Milano).

Ho apprezzato molto la sua produzione poetica, nei suoi esiti più ermetici ma anche d’altro canto in alcuni momenti discorsivi, e, in altri ancora, narrativi. Spesso la sua voce nei testi indugia nell’analisi di ciò che è vicino, più prossimo anche in termini geografici. Il frugare nelle proprie immediate vicinanze, scavare nel senso e nella storia sembra uno dei movimenti più importanti della sua poesia. Mi chiedevo: quanto in questo processo di escavazione la sua lingua funge da pala e piccone, con quei fonemi estranei per la lingua italiana, che talvolta, almeno per un non parlante altomilanese come me, evocano proprio l’azione del frugare?

La metafora dello scavo è appropriata al mio lavoro poetico. Si “scava” nella lingua (anzi nelle lingue, fra lombardo, italiano e inglese) per scavare nella mente individuale, in quella collettiva (cioè la storia) e nella natura. Si parte sempre dall’esperienza: il dialetto è una parte di come ho vissuto io il mondo e per restituirne il senso, a me stesso e agli altri, frugo anche lì dentro. Il gioco linguistico fine a se stesso, di avanguardistica memoria, mi interessa poco.

Negli ultimi testi di “Tropicu da Vissévar” (Crocetti Editore, 1996), compaiono immagini e personaggi che mi hanno molto colpito. Nell’ultimo testo della raccolta, essa stessa sembra essere trasfigurata in un “fragüj da papír indaa sabia […] – continuo in traduzione parafrasando – Che anche se incomprensibile a chi lo trova viene conservato lo stesso come testimonianza di un poema più grande, un giardino”. Nello stesso giardino mi sembra che si muova uno dei personaggi che compare nel terz’ultimo testo della raccolta: il Becchino Cialestar, che sembra forse essere l’ultimo parlante altomilanese, l’unico che vivendo sempre nel giardino e nel poema di quella lingua, possa comprendere e anzi faccia parte di quel papiro egizio. È così? Cosa significa la figura di Cialestar, che d’altro canto sembra assumere un ruolo molto simile anche in “Ulona” (Il ponte del Sale, 2010)? Che futuro si prospetta per la produzione lirica in dialetto?

Ci sono vari strati di riferimenti in quelle immagini e quel personaggio, come lei ha visto. Il giardino da coltivare è quello voltairiano, della Terra e del luogo reale dove ognuno vive, ma anche il giardino interiore. E c’è ovviamente un riferimento al Giardino (il paradiso, l’ideale anche inespresso che ognuno si porta dentro). Che poi questo giardino sia destinato al deserto (a sparire), che diventi un cimitero di cui sopravvivrà forse un frammento è un destino inevitabile per qualsiasi persona, qualsiasi lingua. Cialestar, come becchino, è un emblema di questo. Era una cara persona delle tante che ho conosciuto, che mi è piaciuto rievocare. Certo oggi nel dialetto, almeno nelle nostre zone, questo senso incombente di un mondo che finisce è avvertibile. Ma non è solo il dialetto che traballa, mi pare, tutta l’Europa qualche problemino di cultura, direzione, identità ce l’ha.

In “A vöri cüntatt sü quatar panzànighi” da “La vita in tram” (Marcos y Marcos, 2001) lei mette in luce come il mestiere del critico letterario assomigli al fare del topo che per guadagnarsi la pagnotta deve mangiare un sacco di polvere frugando nei sottoscala, per poi dare un quadro disperante delle varie tipologie di autori di poesia “bamba che per due lire aprono bocca, / ricconi cagarime per non morire, / filosofi che gli piace pisciarsi addosso, / lacché con la gola foderata di letame”. In definitiva come recita il primo verso, lei, in veste di critico esasperato sembra risoluto a definire la poesia, chiaramente anche la sua stessa poesia, come nulla di più che “quattro panzane”. Alla luce di ciò cosa pensa della scena della poesia italiana di oggi?

Quella poesia riflette la disillusione verso la letteratura in cui chiunque incappa presto o tardi. Si parte appassionandosi da giovani con grandi aspettative, poi bisogna rivederle alla luce dell’esistenza materiale, con tutte le sue piccinerie. È un fisiologico ridimensionamento di una visione idealistica e immatura. È difficile dare in poche parole un giudizio sulla poesia italiana odierna. Ci sono frequenti lamentele sul numero eccessivo di scrittori, implicitamente idealizzando le epoche in cui la cultura scritta era riservata a una cerchia di privilegiati. A me basta che ci siano alcuni poeti di valore, il cui lavoro mi dà qualcosa di autentico quando lo leggo. Il problema del giudizio, di scegliere nella massa quello che vale, dipende dal fatto che se lei suona male il violino se ne accorge chiunque, ma se lei scrive brutte poesie la cosa è meno evidente. È necessario ripartire dalla dimensione artigianale della poesia, dalla tecnica, dal mestiere. Bisognerebbe imporre a chiunque vuol fare il poeta di stare “a bottega” per anni, così ci si renderebbe conto delle immense difficoltà che ci sono, e se non c’è una spinta autentica molti abbandonerebbero l’impresa. Che non è quella di un facile, immediato sfogo delle proprie emozioni, né di un esercizio di erudizione e citazione.

Nelle sue poesie torna sovente il tema dell’alba, bun’ura in altomilanese. Ad esso è dedicata un’intera sezione di Tropicu da Vissévar. Che peso ha nella sua poesia a lüs, ul ciar, ul su?

La luce è un fenomeno che offre una vasta gamma di possibilità di senso, sia intesa letteralmente che metaforicamente. L’alba come “bun’ura” mi piace come immagine di inizio (anche assoluto), di rinnovamento sempre possibile e alla mano, anche se lo ignoriamo per pigrizia e preferiamo dormire. Buon’ora, ora buona. Mi piace la luce leggera, la chiarezza immateriale dell’alba, che proietta ombre trasparenti, quasi neanche nere. Ma ci sono poesie in cui ho parlato della luce di mezzogiorno o del tramonto. Le cose essenziali davanti a noi sono sempre quelle, bisogna vederle con occhi nuovi. La novità non deriva dal trovare cose nuove (così si finisce nelle insulse stramberie neobarocche dell’arte odierna), le cose importanti le hanno già viste da sempre.

La natura, ora incontaminata, ora invece insidiata dal cemento, è una costante nei suoi testi.
Memorabili, a tal riguardo, sono alcuni passi di “Ulona” nei quali, a immagini del corso del fiume modificato per alimentare cartiere e fabbriche ormai dismesse e abbandonate, sembra far da controcanto un altro tipo di cementificazione: quella del linguaggio, del dialetto che lascia il posto all’italiano. Infatti i personaggi più giovani che compaiono in Ulona, sembrano, per una grande opacità intellettuale, balbettare in italiano standard (con una comica assonanza con il celeberrimo “bar bar”) ” la bamba…vai a ballare la bamba”. Il dialetto si rivela invece uno strumento scientifico infallibile per indagare la realtà “Parli in dialett parché dumâ in dialett / se ved tüta la merda ca gh’é dent”. Quale è, dunque, il rapporto tra la lingua e la natura, come esse interagiscono?

La modernizzazione frettolosa e spesso cattiva del nostro paese nel dopoguerra ha riguardato in parallelo il territorio e la lingua. È un tema pasoliniano, se vuole, ma io non sono un nostalgico. Tuttavia penso che gli italiani non abbiano capito che cosa stavano (stanno) buttando via abbandonando i dialetti per gettarsi in un italiano spesso maldigerito, e oggi stanno rifacendo un’operazione simile con l’inglese, con il risultato che non parlano più né dialetto né italiano né inglese ma un pasticcio indigesto dei tre. Se ti metti nell’ottica di cambiare lingua assumendo quella più “moderna”, del potere dominante di un certo momento, non farai altro che correre dietro ogni 50 anni al padrone di turno, confermando il tuo status di servo. Non serve cambiare lingua, serve cambiare testa. Cambiata quella, qualunque lingua si piega a qualunque funzione. Il dialetto, comunque, ha un potenziale demistificante rispetto all’italiano, lingua cortigiana e di potere (anche se spesso di potere velleitario, vista la nostra storia). La lingua, come molte altre cose, è un fenomeno naturale e culturale insieme, impossibile fissare un confine netto fra le due componenti. Se ascolti certi suoni in certi luoghi assocerai le due cose in automatico. Quei luoghi parlano quel linguaggio, per te ovviamente. Era diverso in passato, cambierà in futuro. Ma ognuno ha solo la propria esperienza da raccontare, cioè l’adesso. Queste ossessioni con il prima e il dopo sono patetiche espressioni di angoscia, pur se umane, per la propria finitudine. La lingua forte, dominante, dà un’illusione di durata, mentre a un certo punto sparirà anche lei o si trasformerà diventando un’altra cosa. Prima o poi tutte le lingue devono ricorrere alla traduzione per essere decodificate e circolare fuori da una cerchia di studiosi.

(in collaborazione con www.umbriapoesia.it)

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L'autore

Eugenio Barzagli
Studente di Lettere moderne presso l'Università degli Studi di Perugia.