Interventi

I dottori di ricerca dovrebbero avere la possibilità di insegnare a scuola

 

La ventottenne G. è una studiosa eccellente: si è addottorata quest’anno col massimo dei voti, ‘dà una mano in università’, ma senza alcuna prospettiva di assunzione o di contratto (troppo giovane, non ha potuto fare il concorso che – un grato pensiero ai dirigenti del MIUR, se mi stanno leggendo – ha saturato l’università per il decennio a venire), e per il resto lavora come cameriera, soprattutto d’estate e durante le feste di Natale. Le piacerebbe insegnare a scuola, qualsiasi scuola, dalle elementari ai licei, ma non può, perché – troppo impegnata col dottorato, che se preso sul serio è molto gravoso – non ha fatto il concorso per l’abilitazione (TFA) bandito due anni fa, né ha potuto accedere al Percorso Abilitante Speciale (PAS) riservato a coloro che avevano un’esperienza d’insegnamento di almeno tre anni (troppo giovane, di nuovo), né potrà iscriversi al ‘percorso abilitante’ biennale che il ministero e le università stanno organizzando per i prossimi anni.

È un grosso errore, e un grosso spreco. Dovremmo agire in modo tale da permettere alla ventottenne G. di andare, subito, a insegnare: lei e quelli come lei, gli addottorati d’Italia, dovrebbero avere la possibilità di entrare immediatamente nelle scuole, senza ulteriori corsi, prove, concorsi. Nel dossier ministeriale intitolato La buona scuola, che consta di 136 pagine, le parole dottorato e dottorandi neanche ci sono: come se quei giovani studiosi non avessero alcun rapporto con la scuola, come se fossero incamminati verso un futuro che non può e non deve avere alcun rapporto con l’insegnamento scolastico. Ed è così, infatti, ma – ripeto – è un errore.

Tra loro ci sono persone che non sono veramente tagliate per l’insegnamento medio o superiore? È possibile, anzi è sicuro. Ma da un lato è anche probabile che – per la coscienza di sé che si ha a ventott’anni, e che non sempre si ha a ventitré – questi dottori di ricerca sappiano di essere negati all’insegnamento, e decidano di percorrere altre strade: che si eliminino da soli, insomma. Dall’altro, possibilità di insegnare a scuola non significa diritto incondizionato a farlo, e si possono pensare facilmente degli strumenti di verifica e selezione. Un colloquio approfondito con il dirigente scolastico è la cosa più ovvia: non assumono così, le aziende? Ma poi bisogna ricordare che ogni dottore di ricerca è stato seguito per tre anni da un tutor scelto tra i suoi docenti universitari, un tutor che si sarà fatto un’idea sulle sue chances di essere un buon insegnante: al tutor, dunque, potrà essere chiesto un parere motivato in questo senso.

Tra i dottori di ricerca ci sono persone che hanno passato anni a glossare Nonno di Panopoli ma non conoscono neppure i rudimenti della pedagogia? Sicuro anche questo. Ma sono tutte persone che conoscono bene le discipline che insegnano, e che con un po’ d’esperienza, qualche buona conversazione con dei pedagogisti intelligenti, all’università (o con colleghi più anziani, nella scuola) e un po’ di letture impareranno anche ad essere dei buoni insegnanti. Per essere ancora più chiari: sono persone abbastanza mature da non aver bisogno, dopo ventun anni di studi, di un altro anno di lezione sul brainstorming e il cooperative learning, così come non hanno bisogno di altre lezioni (mie, per ipotesi) di letteratura italiana, o di storia, o di matematica (se ne hanno bisogno vuol dire che non dovevano essere ammesse al dottorato, e che l’errore è stato fatto prima). Buone letture integrative, specie su questioni di didattica che non hanno approfondito a scuola, buone conversazioni con specialisti di pedagogia, tirocinio semestrale in classe: e basta.

Sarebbe anche un modo sensato, spiccio, per nulla dispendioso, di ridare un senso all’istituto del dottorato. Perché temo che, se continua così, i concorsi di dottorato cominceranno ad andare deserti: se un laureato in filosofia sa che, conseguito il dottorato, avrà scarse possibilità di fare carriera accademica (perché così stanno le cose) e nessuna possibilità di insegnare (perché avrebbe dovuto frequentare il biennio abilitante), il laureato in filosofia ci penserà due volte prima di fare un dottorato. Quanto agli scienziati, non tutti (e non tutte, in ispecie) sono disposti a fare un dottorato in fisica, se sono quasi certi di dover poi andare all’estero per lavorare: sapere di poter almeno insegnare a scuola, in Italia, potrebbe convincere i dubbiosi a tentare la strada della specializzazione, con beneficio per loro, per i loro studenti e per la collettività.

La collettività, appunto. Tendiamo infatti a dimenticare che il dottorato costa molti soldi alle università, cioè soprattutto allo Stato, ma allo Stato apporta un beneficio miserrimo, dato che soprattutto nelle discipline umanistiche è molto esiguo il numero degli addottorati che fa carriera universitaria o che può spendere quel titolo in un’altra professione (almeno in Italia: all’estero le cose stanno diversamente, la sigla Ph.D. fa il suo effetto, e anche per questo tanti dottori di ricerca formati a nostre spese lasciano il Paese): dal momento che investiamo in questi giovani, pagandoli per tre anni, non si vede perché non si debba, poi, farli lavorare per lo Stato, se hanno voglia di farlo.

Questi insegnanti addottorati toglierebbero il posto agli aspiranti insegnanti che sono iscritti nelle graduatorie, o agli abilitati? Sì, toglierebbero qualche posto, ma non molti. In Italia gli addottorati sono, ogni anno, circa diecimila, ma per gran parte costoro non ci pensano nemmeno, ad andare a insegnare a scuola, sicché alla fine si tratterebbe probabilmente di alcune centinaia di persone, più che di alcune migliaia, concentrate soprattutto nei settori delle cosiddette scienze speculative.

La cosa non dovrebbe essere troppo difficile: immagino cioè che rientri tra i provvedimenti che un ministro – e il ministro attuale sa, per fortuna, cos’è la formazione dottorale – può prendere senza dover riscrivere i principi fondamentali della Costituzione.

 

[Già pubblicato sul Domenicale del Sole 24 ore, 14 dicembre 2014]

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L'autore

Claudio Giunta
Claudio Giunta
Claudio Giunta insegna Letteratura italiana all’Università di Trento. I suoi ultimi libri sono un saggio sulla scrittura (Come non scrivere, Utet 2018), un libro su Tommaso Labranca (Le alternative non esistono, Il Mulino 2020) e un reportage sulla città di Togliatti (Togliatti. La fabbrica della Fiat, Humboldt Books 2020).