scrivere nelle varie lingue d'Italia

Silvia Argurio intervista Paolo Cristiano

Paolo Cristiano è nato a Teano nel 1919. Dopo gli studi classici si è laureato in giurisprudenza all’Università di Firenze. Nella stessa città conobbe Papini, il quale apprezzò i suoi versi e gli offrì una collaborazione al “Frontespizio”.

È stato volontario di guerra e partigiano combattente. Nel dicembre del 1943 venne catturato dai nazisti, processato, condannato per le azioni di lotta clandestina e deportato in Germania. Rientrato in Italia ha esercitato la professione forense divenendo legale di ruolo dell’INPS.

Ha esposto i suoi quadri in Italia e in Europa e ha pubblicato numerose raccolte di versi in italiano e in dialetto napoletano. Attualmente vive a Roma dedicandosi alla poesia e alla pittura.

“Al sole”, 1960
(immagine tratta da http://www.erchempertoteano.it/Teano/Arte-Archeologia/Pittura-Ecc/Paolo-Cristiano1/Indice.htm)

 Ho 97 anni, li compio il 23 settembre, quindi sono vecchio. Ho continuato a dipingere fino a ieri sera, ma adesso la vecchiaia mi sta uccidendo.

Le mie tappe sono state inizialmente al mio paese, dove ho lavorato, poi sono venuto a Roma, e prima ancora a Milano dove avevo trovato lavoro in un giornale (ma all’epoca i miei non hanno voluto che seguissi quella strada). Ho fatto diverse mostre in Italia e in Europa.

Ha iniziato prima a dipingere o a scrivere?

Forse prima a scrivere, da quando ero ragazzo.
Sono stato avvocato, prima libero, in seguito ho fatto il concorso per la previdenza sociale. Mi occupavo del servizio legale e nello stesso tempo facevo il pittore, mi facevo conoscere come pittore. Avevo una famiglia e dovevo pensare ad un’attività professionale. E poi il mio carattere mi portava quasi a non farmi pagare, soprattutto quando mi trovavo nel mio paese dove tutti avevano bisogno.

Che rapporto sente tra la poesia e la pittura?

Per me è quasi la stessa cosa. Con la poesia è la parola che detta l’immagine, che suggerisce la cosa che va compresa, invece con la pittura questa bellezza, questo angolo, spicchio di realtà, viene mostrato direttamente. Ecco guarda là (indica dei quadri appesi alle pareti) tutti quei quadrucci, ognuno ha una sua località, localizzazione. Non è importante fare grandi cose secondo me, l’importante è cogliere un sentimento della bellezza della natura, delle cose che ci circondano e di cui siamo anche innamorati senza accorgercene.

Ha composto prima le poesie in dialetto o in italiano?

In italiano. Ho iniziato a scrivere a dieci o dodici anni (non erano cose molto valide, però lavoravo), ho scritto sempre.

Poi ho cominciato ad avere rapporti con critici, quando già pubblicavo. Ad esempio con Giuseppe Appella, un ottimo critico specialmente d’arte. Abbiamo avuto un lungo periodo di sodalizio, è rimasto sempre un amico.

Ho pubblicato anche due antologie, una delle poesie in italiano e l’altra di poesie dialettali. Proprio perché io do importanza al dialetto, per tanti motivi che ho scritto e ripetuto.

Io non sono e non mi considero un “mostro sacro”. Mi sono tenuto quasi sempre fuori dagli ambienti particolarmente interessati alla pubblicità, alla pubblicazione, al successo.

Ha detto che di aver iniziato prima a scrivere in italiano e solo in un secondo tempo in dialetto. Perché il dialetto?

Ho scritto in dialetto perché lo ritengo l’espressione più diretta, spontanea, immediata dell’animo umano e della poesia. E le ho scritte queste cose. “Sta lingua nosta”, il dialetto, “è comm’ all’acqua”. Il dialetto è la parte viva della lingua, che poi si trasforma in lingua, ma originariamente l’espressione umana immediata è in dialetto, l’Italia poi è ricca di dialetti. Mio padre, che era professore di italiano e storia e preside della scuola media, mi ha indirizzato un po’ sulla poesia napoletana, perché il dialetto napoletano ha una sua veridicità, una comunicabilità e capacità di aprire mondi, conoscenze, bellezza, che è difficile trovare in quella italiana (almeno, non posso parlare certo di fronte a Dante o altri poeti di questo livello, siamo in un altro mondo). Però il dialetto ha la sua validità, la sua pregnanza. Io parlo quasi sempre in dialetto.

Il piacere mio più bello è stato che ho cominciato con le traduzioni dal greco antico. Ancora faccio qualche cosa, ne ho fatte parecchie.

Cosa l’ha spinta a fare delle traduzioni in napoletano, e perché ha scelto i lirici greci?

Perché la lirica greca io l’ho trovata la più interessante produzione poetica dialettale, e allora mi ha invogliato a tradurla. Mi è sempre piaciuto molto il greco antico, quando ero ragazzo no, studiavo poco. Sono stato pure rimandato a ottobre alla licenza liceale in greco e latino, e allora l’ho studiato ancora meglio. E ho capito che il greco, nel campo artistico, è la base, l’origine dell’espressione poetica umana. Infatti ho intitolato il primo libro in dialetto napoletano “da Saffo a Lorca in napoletano”.

Nei versi di “esse pueta” lei parla del poeta come di colui che è sempre innamorato, che sa scorgere ovunque la bellezza. Si scopre se si è poeti o no, e come?

Tu non sai mai se è poesia quella che scrivi o no. Molte volte ho detto anche dei grandi: non sono sicuro che siano sempre sicuri…

Però in genere la poesia la senti. Ti accorgi che c’è qualcosa in te che ti costringe a scriverla, io lo dico in questa poesia sul poeta.

Devi scrivere qualcosa che senti di non poter non dire, non è per il piacere di dirlo ma per la necessità di dirlo, se non è necessità la poesia non serve a niente è solo un esercizio. La poesia secondo me è l’espressione diretta della vita umana, di chi la sente, la vive, la soffre, la conserva. Anche in italiano basta non farsi prendere troppo dalla retorica o dalla mania di grandezza.

Non solo essere sempre innamorati, ma essere presi da uno slancio verso l’altro, da una volontà di convivere, di vivere convivendo, ’nzieme. “pe ce sta zitt ‘nzieme”, per stare zitti insieme, che era una cosa fondamentale della convivenza.

Nei suoi versi parla spesso dell’identità, del desiderio di essere ciò che si è, e del desiderio di sciogliersi nell’abbraccio della natura.

Si tratta della ricerca di una identità profonda di sé stessi, fino a comprendere che questa identità è un disciogliersi negli elementi, abbracciare il tutto. La terra partecipa alla tua vita come tu partecipi alla sua.

La lingua madre, il dialetto, è la lingua più adatta per il dialogo con sé stessi. Chi capisce il dialetto può capire che c’è una questione di affetto particolare per la nostra terra, per la vita diretta, immediata con la natura.

Il dialetto è anche una lingua del ricordo? un modo per far rivivere il passato?

Certamente. Cose passate ma anche presenti, e trascurate. C’è questa importanza che si dà a cose che sembrano superficiali, ma non sono superficiali, che sono la realtà della vita, la realtà tangibile dell’essere bello, per esempio “nu bello limone” “na bella quercia” “nu bello prato” e poi “la bella nuvola”, la nuvola è una cosa meravigliosa. L’ultimo mio quadro si intitola “bidone e nuvola”.

Che spazio ha nella sua poetica il sonno, è assimilato all’idea della morte o è uno spazio dell’illusione che pian piano viene meno?

Il sonno e il sogno sono molto presenti. Non sono vicini alla morte ma, come hai detto tu, formano uno spazio dell’illusione. Questo spazio in cui si entra attraverso alcune parole dialettali che sono comunicative.

Tra la sua produzione poetica in italiano e quella in dialetto, ce n’è una che sente più vicina, più intima?

Sono tutte e due sullo stesso piano. Io non scrivo una poesia se non la sento.

Ma la poesia in italiano mi porta ad avere un atteggiamento di amarezza, di critica a sé stessi, mentre il dialetto è di per sé un po’ più materno. Per me, mentre il dialetto raggiunge l’universalità, la lingua resta l’espressione di quel periodo storico che la produce.

Nella poesia, specie in quella dialettale che è la più diretta e immediata forma di comunicazione e interlocuzione poetica, come e più che nella poesia in lingua, c’è qualcosa di particolarmente intimo dell’autore, qualcosa di strettamente personale. Potrei dire un linguaggio carnale, assolutamente spontaneo, come l’erba e i fiorellini su terreno incolto. La poesia dialettale emerge dal corpo e dall’anima dell’autore come una necessità fisiologica.

Qual è il rapporto del poeta con i lettori?

È fondamentale, trovare uno che ascolta è un miracolo. La maggioranza delle persone vive si stancano. La poesia è il linguaggio dell’anima. Ci sono parecchi che conoscono la portata della poesia, che è un incantesimo, un “incantamiento”.

ESSE PUETA

Si esse pueta vo di’
fa’ tutto pe’ senza niente
nun avé ma dà sulamente,
si esse pueta vo di’
esse nnammurato sempe
e sapé mmentà chella bella buscìa
cchiù overa d’ ’a verità,
si esse pueta vo di’
nun vulé cumannà,
pe’ nun se fà mai cummannà,
si esse pueta vo di’
fa’ ’a notte juorno
e ’o juorno notte
abbirse pe’ ’na via
mai fatta ’a nisciuno
si vo di’ esse ’mbrugliato
pe’ nun sapé ’mbruglià
ascì pazze p’ ’e ccose belle
cammenà addritt’a ’na stella
senza ’e se perde ’nt’ all’oscurità,
si esse pueta è esse nu ponte
ntra l’anema e l’eternità
fà ’ntennere chello ca nun se pò spiegà
comme ’ntienne p’ammore
chi nun sapé parlà,
si esse pueta vo di’ sentere
a museca d’ ’e parole trasì
int’ ’e rrecchie e vererle
nnante all’uocchie scumparì
nt’a nu suonno futo,
si esse pueta vo di’ cercà chesso
pe’ truvà chello, maie se fermà
ma cagnà sempe pe’ restà ’o stesso,
e, speruto ’e silenzio, sapé sulo parlà,
si esse pueta vo di’ nun esse
e nun vulé esse nisciuno
p’essere ognuno, embè allora
pò esse ca songo pueta.
(da Pe’ senza niente. Poesie napoletane)

SE N’È CALATA ’A LUNA

Se n’è calata ’a luna
cu ’e stelle a mezanotte
nt’a niente passa ’o tiempo
e io mò sola m’addormo
m’arrevota l’ammore
comm’a ’o viento
ca ’ncopp’  ’a muntagna
spezza lli cerque
e me schiatta ’ncuorpo
me roseca comm’ ’a ’na serpa
ammara, doce, ca nun se sta
ma nun songo cchiù apa
nun tengo cchiù mele
e nce soffre ’e vurrìa.

(traduzione da Saffo, in ’A meglio cosa)

IL MIO CAPPELLO

Per salutare qualcuno
ed essere salutato
ho il mio cappello nero.
Ma i capelli già cadono
curati.

Non più tra essi gioca
intrecci il sole
né il vento reca
i suoi dolci scompigli.

Forse l’ora è pena
avara matrigna invelenita
che mi batte la strada
senza acacie.

L’aurora fervida, il mezzogiorno
ed il peso del vespero
si dissolvono in questa cantilena
di saluti senza incontri.

(Da Non redime saperlo)

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L'autore

Silvia Argurio
Silvia Argurio
Silvia Argurio si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza, dove si è perfezionata anche in Storia delle Religioni. Ha conseguito il dottorato presso RomaTre con un progetto sulla retorica dell’impossibilità nella lirica medievale italiana ed europea. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’università Sorbonne Nouvelle Paris3 dove collabora con il progetto DHAF (Dante d’hier à aujourd’hui en France) sulla diffusione e l’influenza dell’opera dantesca in Francia. Ha da poco pubblicato il primo commento integrale alla silloge Scintille poetiche di Giacomo Lubrano.