L’Italiano fuori d’Italia

Carlo Pulsoni intervista Enrico De Agostini

Enrico De Agostini (1964) è diplomatico di carriera dal 1991. Ha lavorato ad Abu Dhabi, Accra, Dortmund, Maputo e Johannesburg, dove è stato Console Generale dal 2007 al 2012. Nel febbraio 2012 è stato eletto presidente del SNDMAE, il maggiore sindacato dei diplomatici.
Nel 2006 ha pubblicato “Diplomatico, chi è costui?” per Franco Angeli e nel 2012 ha curato per il SNDMAE il progetto “riFarnesina, per una diplomazia della crescita e per una crescita della diplomazia”.

Qual è la situazione della lingua italiana all’estero?

Da quanto mi consta, c’è una domanda molto importante e in crescita di lingua e di cultura italiana. Purtroppo, la loro promozione è legata a modelli superati e costosi.

Cioè?

Sarebbe davvero complicato spiegare in due parole come funziona l’insegnamento della lingua italiana all’estero, perché parlare di sistema è un eufemismo: sono almeno quattro i modelli di riferimento. Ci sono, innanzitutto, otto scuole che definirei italo–italiane, cioè istituti dove tutte le materie sono insegnate in italiano; poi ci sono i corsi di lingua gestiti dagli Istituti di Cultura; quelli tenuti dai lettori italiani nelle università straniere e, infine, quelli organizzati dai cosiddetti Enti Gestori – cioè da enti privati all’estero, finanziati dallo Stato italiano – per i figli dei connazionali.

Non si potrebbe razionalizzare?

Certamente. La risposta sta nel superamento e nella razionalizzazione dei modelli di riferimento, ma devo precisare che parlo a titolo strettamente personale, pur facendo il diplomatico da ormai quasi ventidue anni. Il primo modello innanzitutto: quello delle scuole che insegnano tutte le materie in italiano. Si tratta di una tipologia assolutamente insostenibile dal punto di vista dei costi-benefici: pensi che essa prevede l’invio di insegnanti di ruolo dall’Italia, con il pagamento delle spese di trasferimento e dell’indennità di servizio all’estero! Una vera follia, quando ci sono fior di neo laureati senza lavoro. Otto scuole, inoltre, non costituiscono una rete di dimensioni sufficienti ad assicurare la continuità didattica a figli di espatriati che si spostano nel mondo e, francamente, non sono attraenti per gli stranieri che sanno già che un giorno i propri figli andranno all’università nel mondo anglo sassone, francese o tedesco. La soluzione che abbiamo trovato a Johannesburg, dove fino a un anno fa ero Console Generale, è quella di una scuola dove l’italiano sia insegnato a tutti i bambini ogni giorno, e le altre materie siano insegnate in inglese (o nella lingua del posto), ma secondo le priorità della nostra cultura.

Si spieghi meglio

Nelle scuole anglosassoni, se tutto va bene, la storia comincia al momento della conquista normanna delle isole britanniche, o, addirittura con i Padri Pellegrini che emigrano in America. Si fa magari un cenno a ciò che è successo prima, ma molto velocemente. Così, quando un argentino che ha studiato in una scuola americana deve scegliere una meta turistica, mette sullo stesso piano Miami e Roma, Mumbai e Venezia. Nelle scuole anglosassoni non si fa nemmeno cenno ad Antonio Meucci: il telefono l’ha inventato Alexander Graham Bell, punto e basta. E magari anche Guglielmo Marconi è un inglese e Cristoforo Colombo uno spagnolo. È chiaro che in un tale contesto la nostra cultura non ha nessuna probabilità di emergere. Eppure, proprio perché molti genitori, italiani e stranieri, non sono soddisfatti della scarsa profondità di campo offerta da scuole di tipo “internazionale” (che poi si rifanno sempre a modelli americani o inglesi), c’è spazio per una scuola privata italiana, che punti decisamente sulla cultura umanistica. A Johannesburg, dicevo, questo esperimento l’abbiamo proposto al maggiore gruppo di scuole private del Sud Africa, la Crawford, che ha deciso di investire circa tre milioni di euro nel nostro progetto.

Tre milioni?

Sì, tre milioni di euro, per creare Crawford Italia, una scuola che a regime avrà 550 bambini delle scuole elementari e medie. Sorgerà nel 2014 all’interno del Club Italiano di Johannesburg, rivitalizzando anche quello.

È una notizia fantastica, ma immagino che si tratti di un modello non replicabile ovunque.

Sì, ha ragione: a Johannesburg abbiamo avuto la fortuna di poter contare sugli spazi enormi del Club italiano – la scuola avrà anche campi di calcio, rugby, piscina – altrove non sempre è così. Tuttavia, il principio è importante: se la cultura italiana è proposta nel modo corretto, costituisce un grande investimento. Sul reperimento dei fondi e degli investitori privati si dovrebbero concentrare le sedi diplomatiche e consolari, anziché sugli adempimenti burocratici e amministrativi legati a modelli di insegnamento superati e costosi.

E veniamo alle altre tipologie di diffusione della lingua italiana di cui parlava. Sono ancora attuali?

La risposta è complessa, perché ogni realtà all’estero è diversa dalle altre. Consideriamo, innanzitutto, i corsi destinati ai nostri connazionali. Sono finanziati con contributi pubblici, erogati dalla Direzione Generale degli Italiani all’estero (DGIT) del Ministero degli Affari Esteri, e amministrati da “Enti Gestori”, che, in pratica, si occupano di assumere e formare i docenti e fornire il materiale didattico. Nella mia personale esperienza, il successo di questi corsi, cioè l’apprendimento effettivo dell’italiano da parte dei bambini, dipende in massima parte da un fattore esogeno: il suo inserimento nel curriculum di studio. Se, in altre parole, il voto in italiano “non fa media” e gli studenti sono costretti, come avviene in moltissimi casi, a frequentare corsi che hanno luogo fuori dal normale orario scolastico – quando, magari, i loro compagni fanno sport – il grado di apprendimento è scarso.

E da che dipende l’inserimento dell’italiano nel curriculum di studio?

Dalla politica educativa di ciascun Paese e dalle scelte dei singoli istituti scolastici. Quando le ho parlato di Johannesburg, ad esempio, l’Italiano non è certo una priorità per le autorità sudafricane, che impongono, invece, l’insegnamento dello Zulu o dell’Afrikaans come seconda lingua. In un contesto privatistico, tuttavia, si può scegliere di rendere obbligatoria anche una terza lingua.

E poi ci sono i corsi per gli stranieri.

Esattamente. Di questi, alcuni sono affidati ai nostri lettori d’italiano presso le Università, altri ad enti che ricevono il contributo dello Stato italiano, come la Società Dante Alighieri. Vi sono, infine, i corsi organizzati dagli Istituti Italiani di Cultura. Sul funzionamento di questi corsi è difficile davvero generalizzare. Ce ne sono alcuni, organizzati benissimo, con un dispendio davvero minimo di fondi pubblici e ce ne sono altri, invece, che non funzionano affatto e costano molto. Il problema, ancora una volta, sta nel fare delle scelte precise, prendere coscienza che l’insegnamento della nostra lingua, la diffusione della nostra cultura sono questioni strategiche per il nostro Paese.

Ma qual è il modello che potrebbe funzionare?

Mi scusi se mi riferisco ancora al Sud Africa, ma quella è una realtà che conosco bene. Arrivato lì alla fine del 2007, mi accorsi subito che l’Istituto di Cultura non funzionava. Innanzitutto, stava a Pretoria, che non è esattamente il centro culturale ed economico di quel Paese. Poi era affidato a persone – impiegati dello Stato – che non riuscivano ad attrarre sponsorizzazioni, si rifugiavano dietro all’alibi della scarsità dei finanziamenti da Roma. Il risultato era che l’Istituto costava allo Stato dieci volte ciò che produceva in termini di eventi culturali e corsi. Proposi, quindi, di chiuderlo e di ridistribuire i fondi del suo funzionamento al Consolato Generale di Johannesburg. Con un decimo dei soldi che servivano per far funzionare (male) quella struttura, avremmo più che raddoppiato l’offerta di cultura italiana nell’area. Ovviamente, la mia era una battuta di spirito: anche se si fosse riusciti a chiudere quella struttura, i soldi sarebbero tornati al Ministero dell’Economia. Dove l’Istituto di Cultura non funziona bene, bisogna avere il coraggio di chiuderlo e convogliare i finanziamenti verso le sedi diplomatiche e consolari o verso la locale sede della Società Dante Alighieri (se questa funziona, ovviamente).

Bene, parliamo allora della Dante Alighieri.

Meno male che esiste, ma così com’è, non basta. La Dante Alighieri ha introdotto di recente un sistema di certificazione della conoscenza della lingua italiana, il PLIDA, molto importante dal punto di vista della standardizzazione dell’insegnamento. Il suo problema, però, è che funziona all’estero tramite comitati di volontari. Ricevono contributi dalla sede centrale, che a sua volta riceve contributi dallo Stato. L’opera dei volontari è spesso encomiabile, ma ci vuole ben altro per incidere davvero sulla scena culturale mondiale. C’è bisogno di professionisti del settore, di imprenditori che sappiano abbinare cultura e business, che sappiano rendere finanziariamente sostenibile l’offerta di lingua e cultura. Il tempo dei contributi statali è passato. Bisogna superare questo modello, magari pensando all’unificazione delle strutture italiane che operano all’estero: c’è ancora bisogno del dualismo Dante/Istituto Italiano di Cultura? Non è giunta l’ora di razionalizzare l’offerta di lingua e cultura per attrarre investimenti privati? È forse su questo obiettivo che si deve concentrare lo sforzo pubblico.

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