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Carlo Pulsoni intervista Marco Fratoddi

Marco Fratoddi dirige La Nuova Ecologia, il più antico mensile ambientalista italiano. Collabora con diverse testate, si occupa di formazione in campo giornalistico per master e università con particolare riferimento alla trattazione della notizia ambientale e alla semiotica del testo. Fa parte della segreteria nazionale di Legambiente, dove s’interessa da molti anni di educazione, diritti dell’infanzia e politiche sociali. Recentemente ha aderito agli Stati generali dell’innovazione ed è membro dell’esecutivo nazionale. Ha pubblicato saggi su teatro sociale, media di nuova generazione, ecologia urbana e stili di vita. Fra i suoi saggi “Salto di medium. Dinamiche della comunicazione urbana nella tarda modernità” (in L’arte dello spettatore, Franco Angeli, 2008).

Come trova spazio la cultura in una rivista dedicata all’ecologia?

Per orientare nella direzione della sostenibilità i comportamenti individuali e collettivi è importante coltivare i saperi delle persone, alimentare il loro bagaglio culturale. Su La Nuova Ecologia, il mensile di Legambiente, oltre a realizzare inchieste e a trattare temi di cronaca locale e d’attualità, proponiamo diversi approfondimenti culturali, sia attraverso il nostro “Dossier” che comprende saggi di esperti e intellettuali, sia attraverso la sezione “Culture” nella quale presentiamo eventi o iniziative, personaggi o realtà impegnate nello sviluppo creativo. Pubblichiamo anche una rubrica espressamente dedicata alle visioni teatrali a cura di Katia Ippaso, una sulla cinematografia di Marino Midena e una sui libri a cura di Elisabetta Galgani, che coordina l’intera sezione. Personalmente però credo che un approccio semplicemente divulgativo, sia in ambito scientifico che umanistico, non rappresenti una condizione sufficiente per costruire consapevolezza nei nostri interlocutori, per modificare la loro maniera di leggere la realtà e dunque di adottare delle scelte innovative. Occorre rivelare nuove chiavi d’interpretazione, fare in modo che le informazioni, nel segno dell’ecologia della mente di Varela e Maturana, producano una concatenazione di senso alternativa. In questo senso una rivista ecologista può rappresentare a tutto tondo un valido strumento culturale, se rende desiderabile il cambiamento nella direzione dell’economia low carbon, se ne dimostra la praticabilità, se riesce a condividere un sistema di valori che aiutino a organizzare in maniera diversa i saperi. Altrimenti anche le tematiche culturali rischiano di risultare poco incisive nella formazione dei lettori, di passare come un ingrediente aggiuntivo, come l’ennesimo rumore di fondo. La nostra missione, in quanto giornalisti ambientali, è quella di partecipare al cambiamento e la narrazione giornalistica costituisce a mio avviso una straordinaria opportunità per rimodellare la conoscenza. Però se vogliamo mettere in campo degli strumenti culturali efficaci, non solo a beneficio dell’ambientalismo, dobbiamo essere consapevoli che esiste un problema di natura cognitiva, che riguarda la capacità della mente di selezionare e processare in una maniera diversa le informazioni per costruire una maggiore coerenza fra saperi e comportamenti.

Che tipo di approccio vorresti che fosse dato agli articoli di questo genere?

Vorrei che ci fosse maggiore capacità di spiegare fenomeni complessi alle persone comuni, di avvicinare al vissuto di ciascuno i grandi sistemi concettuali, sia che si tratti d’illustrare le responsabilità umane nei cambiamenti climatici, sia di riflettere intorno ad un impianto filosofico particolarmente evoluto o di cogliere i diversi risvolti di un’opera letteraria. Vorrei che i media, a prescindere dagli argomenti che trattano, assumessero dei criteri di notiziabilità più originali perché non si parli di dissesto idrogeologico soltanto il giorno successivo agli eventi meteorologici estremi, di cinema in occasione dei festival più gettonati o di beni culturali quando vengono giù le domus di Pompei. Il giornalismo ambientale e quello culturale mi sembra che abbiano un analogo bisogno, quello cioè di seminare una cultura diversa dell’informazione, capace di andare oltre gli stereotipi della stampa scandalistica e di scardinare la logica del cosiddetto mainstream. Le testate specialistiche rappresentano altrettanti laboratori di sperimentazione editoriale in questo senso, utili a presentare le proprie tematiche come fattori d’innovazione sociale e anche come un’opportunità per l’economia del nostro paese, a raccontare il patrimonio di conoscenza che possediamo ricollocando la nostra identità nel contesto della nazione europea. Utilizzare i nuovi media è strategico perché questi processi diventino patrimonio comune favorendo la conversazione sociale e la sedimentazione dei saperi in forma collaborativa, come dimostra la centralità che ha assunto Wikipedia. Occorre però che i media generalisti a grande diffusione partecipino a questa metamorfosi svecchiando le proprie chiavi di lettura e migliorando la qualità scientifica, nel senso più ampio del termine, dei contenuti che diffondono. Altrimenti il tempo del cambiamento diventa troppo lungo, nel frattempo rischiamo di essere travolti dalla crisi economica e ambientale.

Dopo il libro di Ingold si parla sempre più spesso di “Ecologia della cultura”. Cos’è e come la spiegheresti a un tuo lettore?

Gli proporrei di fare una passeggiata insieme nel Parco delle Cinque Terre e di osservare come i tempi biologici dell’azione umana possano produrre bellezza. La sua ricerca da antropologo mi sembra che evidenzi soprattutto ciò che la biologia evoluzionistica, ancora oggi alla base di molte visioni dell’ambientalismo contemporaneo, penso ad esempio in Italia agli studi di Marcello Buiatti o alla ricerca in campo sociale di Franco La Cecla, ha messo in luce, vale a dire che siamo parte del tutto ma anche che possediamo una responsabilità superiore a quella delle altre specie nei confronti dell’ecosistema. Il paesaggio costituisce in qualche modo la narrazione del nostro abitare sulla Terra, rappresenta dunque un testo nell’accezione che la semiotica greimasiana dà a questo termine. Occorre allargare lo sguardo per coglierne la dimensione sistemica ma agire sul campo, come anche gli studi di Ingold hanno dimostrato, per valorizzarne le risorse.

I dissesti idrogeologici del nostro paese possono essere un riflesso proprio della mancanza di cultura non solo ambientale, ma anche della nostra storia: altrimenti come si possono spiegare i vari abusi edilizi accanto alla Valle dei Templi o in altri posti ritenuti patrimonio dell’Umanità?

Veniamo da decenni d’incuria nei confronti del territorio, di scarsa pianificazione paesaggistica e anche di criminale indulgenza nei confronti dei fenomeni speculativi, più o meno legali, che hanno segnato il Belpaese. Abbiamo, insomma, dimostrato pochissima attenzione nei confronti del “testo” per eccellenza che ci rappresenta nel mondo, importante per la notorietà dell’Italia almeno quanto la Divina Commedia, vale a dire il nostro landscape con il reticolo di sapori, esperienze umane e culturali, manufatti e capacità d’accoglienza che contiene. Dovremmo ripartire da quella che Monica Amari definisce “sostenibilità culturale” e portare al centro della governance, come lei stessa propone, l’economia del simbolico. La classe dirigente italiana però, non solo soltanto i decisori politici, sottovalutano questa prospettiva. Diventa così fondamentale l’intervento della società civile che si prende cura, in un’ottica di sussidiarietà, del patrimonio: a Paestum, sito protetto dall’Unesco, il circolo locale di Legambiente ha lanciato una campagna di azionariato popolare, intitolata Paestumanità, che punta ad acquistare fazzoletti di territorio nell’area archeologica, sui quali attualmente si trovano costruzioni private adibite a magazzino, attività e imprese di diverso genere che impattano anche visivamente sullo sfondo, per costruire un progetto di marketing culturale utile all’economia locale. Legambiente è impegnata a livello nazionale verso questo obiettivo, hanno aderito molti intellettuali e artisti come Gillo Dorfles, Gian Antonio Stella o Vinicio Capossela. Ma quante volte l’avete vista passare sul Tg1?

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