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Chiara Conterno intervista Vladimir Vertlib

Vladimir Vertlib (Leningrado 1966) è uno scrittore austriaco di origine russa e famiglia ebraica, emigrato dalla città natale nel 1971. Tra le tappe della sua lunga odissea, che nel 1981 lo portò a stabilirsi a Vienna, vi sono Israele, Olanda, Stati Uniti e Italia. Vertlib è autore di numerosi romanzi (Abschiebung, Zwischenstationen, Das besondere Gedächtnis der Rosa Masur, Letzter Wunsch, Am Morgen des zwölften Tages, Schimons Schweigen), di una raccolta di racconti (Mein erster Mörder. Lebensgeschichten), di saggi (Spiegel im fremden Wort. Die Erfindung des Lebens als Literatur e Ich und die Eingeborenen. Essays und Aufsätze) e di un libretto (… und alle Toten starben friedlich … ).

È stato insignito con numerosi riconoscimenti, tra cui il premio Adelbert-von-Chamisso. Vive e lavora a Salisburgo.

Nei suoi primi romanzi si notano molti riferimenti autobiografici. Come può, secondo lei, un racconto su base autobiografica diventare buona letteratura?

Ogni autore di un testo letterario riprende, in un modo o nell’altro, esperienze personali. Il passaggio tra semplice resoconto autobiografico e letteratura dipende dal modo in cui l’autore è in grado di rappresentare artisticamente le proprie esperienze, di estraniarle e di fare ironia, cioè di distanziarsi dal proprio vissuto e trasformarlo in letteratura. Per quel che mi riguarda, libro dopo libro mi sono distanziato dal piano autobiografico. Nei miei primi due romanzi i riferimenti alla mia biografia sono ancora chiaramente riconoscibili nella struttura e/o nel contenuto dei testi. Negli altri si affievolisce. In Das besondere Gedächtnis der Rosa Masur, ad esempio, si potrebbe ancora elucubrare se ci siano o meno riferimenti autobiografici. In Letzter Wunsch tutto è pura finzione e non ha più a che vedere con la mia persona. Tuttavia, anche là c’è qualcosa che ho vissuto o provato.

Ecco, molto interessante mi pare il processo per cui dalla biografia e dalla riflessione autobiografica si arriva alla letteratura. Ci spieghi come è accaduto nel suo caso.

È difficile dare una risposta univoca, perché nel processo creativo c’è molta emozionalità e molto inconscio. Base per il mio primo libro sono stati i diari che ho redatto in russo, in America, tra i 14 e i 15 anni e mezzo, anche se pure le osservazioni lì riportate possedevano già un “altro” livello. Penso che la mia attività di scrittore sia iniziata in quel momento. Il diario aveva la funzione di fermare e analizzare gli eventi, e anche di dominarli dal punto di vista emozionale. Contemporaneamente, però, sviluppavo e concludevo fantasiosamente nei miei pensieri alcuni fatti e situazioni, creando quindi fiction. Il livello della realtà che esperivo non bastava più; intuivo che dietro le varie storie c’era qualcosa che andava oltre. Spesso provavo ad immaginare cosa sarebbe successo, se io o gli altri avessero reagito diversamente, e mi sono sempre interessato delle ragioni, dei pensieri e delle biografie delle persone che mi avevano fatto soffrire o irritare. Mi sono sempre posto domande, mi chiedevo cosa sarebbe successo nel futuro e cosa avveniva altrove. Così sono subentrate fantasia e creatività e questa combinazione di vissuto reale e finzione, da un lato, mi ha portato alla fiction e, dall’altro, mi ha aiutato a capire meglio, quanto veramente era successo. Penso, che la letteratura nasca così: che persone, che magari abbiamo visto solo sfuggevolmente, ricevano altre dimensioni.

Aveva ambizioni letterarie già nel periodo del diario?

No, anche se a dieci o dodici anni scrivevo brevi racconti. Inoltre, nella mia fantasia giocavo con la possibilità di diventare scrittore. Il tentativo di scrivere mi ha sempre procurato piacere. La letteratura ha poi svolto un ruolo importante nella mia famiglia, composta da noi tre emigranti, soli in giro per il mondo. La lingua e la letteratura russa mi sono stati trasmessi in modo positivo dai miei genitori e mi offrivano la possibilità di rifugiarmi in un mondo immaginario. Per questo la letteratura ha sempre avuto per me un ruolo centrale. Tra l’altro, in Russia gli scrittori detenevano un ruolo fondamentale: erano i portavoce dei sentimenti, delle nostalgie e dei desideri di intere generazioni, per lo meno delle persone più colte. Per me, quindi, gli scrittori erano figure rilevanti con ruoli sociali significativi. Quando sono diventato scrittore a mia volta, mi sono confrontato con la realtà: essere scrittore è anche una questione di mercato. Tuttavia non ho rimpianto la mia scelta di vita.

Tornando a quanto accennato prima, come si ottiene secondo lei la qualità letteraria di un testo?

Se il racconto – pur basandosi su qualcosa che si è vissuto in prima persona – riceve una dimensione generale e simbolica, può diventare buona letteratura. Se ho la sensazione che qualcosa che ho vissuto in prima persona, possa diventare universale e che vi si possano specchiare e riconoscere altre persone, allora da quel materiale sono convinto possa sorgere buona letteratura. Questo passaggio dal personale e individuale al generale è necessario. Naturalmente la qualità della scrittura è poi una questione di lavoro artigiano, di labor limae, è legata all’officina poetica e allo stile del testo. La lingua deve possedere concretezza per riprodurre il vissuto e l’immaginato, ma anche apertura e astrazione perché diventi possibile l’identificazione e il rispecchiamento del lettore. Direi che si tratta di un processo contemporaneamente di concretizzazione, riduzione, apertura e astrazione.

Che impressioni ha lasciato su di lei la complessa esperienza dell’emigrazione? Sia sul piano personale che sul livello creativo.

È una domanda difficile da rispondere perché non so che tipo di persona sarei diventato se non avessi fatto quest’esperienza. Forse sarei diventato uno scrittore in ogni caso perché questa è una questione di talento, fantasia e carattere, ed è legata al desiderio di dirigere la propria vita e reagire al mondo tramite la scrittura. La conseguenza più importante sul livello personale è, probabilmente, che ho sempre mantenuto una certa distanza dalle culture che nel corso degli anni hanno plasmato la mia identità (russa, ebraica, austriaca, americana etc.). Questo non significa che non mi piacciano: sono una parte significativa di me, ma allo stesso tempo ho l’abilità di guardarle con lo sguardo di uno spettatore esterno. Qualche volta ho l’impressione che un risultato dell’intero processo sia il fatto che ho meno pregiudizi (sia negativi che positivi) rispetto ad altre persone. Inoltre, i traumi che vissi durante l’emigrazione, il rapporto dei miei genitori con le loro illusioni quando arrivarono in occidente … tutto questo, da un lato, mi ha ferito sul piano emozionale e ancora oggi pesa, dall’altro lato, però, mi ha probabilmente reso più acuto, lucido, attento.

Perché ha scelto di stabilirsi in Austria?

Che abbia scelto l’Austria è dipeso da una catena di casualità. In origine i miei genitori volevano trasferirsi in Israele. Per una serie di motivi, però, in Israele non si sentirono a loro agio e non vi si stabilirono. Continuarono ad emigrare e durante quest’odissea rimasero a lungo in Austria, allora l’unico paese in Europa Occidentale i cui confini erano ancora relativamente aperti a immigrati e Gastarbeiter. Altri stati, invece, avevano una politica piuttosto restrittiva a questo riguardo. Così, alla fine ci stabilimmo in Austria.

Che rapporto ha con l’Austria?

In un certo senso sono ancora un migrante: ho ancora lo sguardo da fuori. Sono arrivato in Austria nel 1972 e qui non ho antenati. Questa terra è il mio presente, ma non il mio passato. Perciò il mio sguardo è diverso. Lo sguardo contemporaneo da dentro e da fuori permette di vedere le cose in modo più acuto. Anche a Salisburgo, dove mi sono trasferito recentemente tutto è ancora un po’ straniero. Inoltre, vivere a Salisburgo, in una città di provincia, obbliga a guardare oltre i confini, cosa che, chi risiede a Vienna, non fa, sentendosi al centro del mondo. A tutto questo si aggiungono le mie esperienze, completamente diverse da quelle degli abitanti autoctoni. Forse si può parlare di sguardo cosmopolita.

Perché scrive in tedesco? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di scrivere in un’altra lingua?

Perché scrivo in tedesco? Poiché da quando avevo sette anni ho vissuto, seppur con interruzioni, soprattutto in uno stato di lingua tedesca e il tedesco, nella variante austriaca, è per me diventato una specie di patria. Inoltre, la decisione di scrivere in tedesco è per me stata molto pragmatica e naturale. Abitando in Austria e circondato da parlanti tedesco, quando cominciai a scrivere professionalmente, ero molto più sciolto in tedesco che in russo. Inoltre, sapevo che vivendo e scrivendo in Austria, avevo molte più possibilità di essere letto e pubblicato se usavo il tedesco. Confesso di amare il tedesco e oggi penso che questa lingua rispecchi meglio la mia mentalità, le cose che ho da dire e le immagini che provo a trasformare in parole, frasi, periodi, rispetto a quanto potrebbe fare il russo.

Tuttavia, quando si decide di scrivere in un’altra lingua – seppur essa nel frattempo abbia soppiantato la lingua madre e le si sia sostituita diventando la prima lingua, come nel mio caso – rimane sempre un certo grado di ambivalenza. La seconda lingua non diventa mai così vicina e intima come la prima; rimane sempre un distacco emozionale e un certo grado di incertezza, pure nelle frasi più semplici e brevi. Ma questa distanza e questa insicurezza sono anche un’opportunità per lo scrittore, perché lo obbligano ad un’intensa e profonda riflessione sulla sua scrittura e gli danno la possibilità di creare molte espressioni e allusioni nuove, importando deliberatamente e inconsapevolmente dalla lingua madre o dando ad alcune parole o frasi (che dal punto di vista emozionale rimangono ancora un po’ astratte rispetto ad un parlante nativo) un tono molto individuale, un tono (non un significato) che si discosta leggermente da quello usato e percepito nel linguaggio parlato o scritto comune.
Avendo imparato il tedesco presto, ma non essendo madrelingua, ho la capacità di guardarlo con una certa distanza e contemporaneamente di esserci dentro. Questa contemporanea vicinanza e distanza produce uno sguardo molto acuto. Penso che una tale distanza dalla lingua sia necessaria per la letteratura. Bisogna costruire distanze prima di riavvicinarsi al testo. A me è capitato così: ho imparato tedesco a sei anni e mezzo, poi sono andato in America etc. e sono tornato in Austria a 16 anni. Questo entrare, uscire e ritornare nella lingua ha permesso che io la domini senza abitarla.

Perché ha scritto molti romanzi con tematiche ebraiche?

Ho scritto molti romanzi con tematiche ebraiche perché sapevo che quello era il contesto che dominavo meglio e in cui potevo inserire le mie storie e trattare i miei temi (appartenenza, identità, problemi relazionali tra genitori e figli). In generale, comunque, non sono io a scegliere gli argomenti, loro scelgono me. Certo, le tematiche che mi scelgono hanno a che fare con i miei principi etici e con il mio punto di vista morale.

La questione dell’identità ebraica svolge un ruolo importante in molti suoi romanzi. Secondo lei è possibile nel mondo di oggi conservare o riconquistare questa identità? In che misura si può parlare di identità nel mondo di oggi?

Mi sembra un vantaggio vivere nel mondo moderno per il fatto che possiamo avere più identità contemporaneamente. Questa è la grande opportunità che possediamo in un’epoca dai confini aperti e dal crescente scambio culturale all’interno dell’Europa. Ogni uomo non ha solo un’identità, ma più identità e questa identità multipla può riferirsi a religione, provenienza, lingua o a più fattori. Alla fine chi è nato in un Paese, sebbene non ne sia mai uscito, può tuttavia possedere più identità parallele, cioè più “accessi al mondo”. In un certo senso l’identità è una delle molte possibilità di percepire, comprendere e valutare il mondo.

I suoi romanzi presentano sempre un riferimento alla società contemporanea, hanno una ricaduta sociale che li rende romanzi “impegnati”. Cos’è per lei la letteratura engagée? Crede si possa sostenere che buona letteratura sia letteratura impegnata? Che ruolo giocano i media in tutto questo?

Il coinvolgimento dei media ha a che fare più con il giornalismo e meno con la letteratura. Esperti di letteratura e non possono partecipare al discorso pubblico e la tematizzazione di temi politico-sociali non è certamente una prerogativa della buona letteratura. Con “letteratura impegnata” intendo quella letteratura che reagisce al mondo, alla società e al suo tempo. Ciò comporta non solo il confronto con questioni pubbliche – positive o negative che siano –, ma anche con i comportamenti e i loro sviluppi, con i lati scurrili e ridicoli o con le emozioni che caratterizzano le percezioni e le decisioni degli uomini. La buona letteratura serve spesso come specchio e come superficie di proiezione; la buona letteratura rimane buona, avvincente e comprensibile, anche quando il tempo in cui è sorta è passato. Buona letteratura era ed è quasi sempre impegnata perché dietro all’impegno c’è la passione e il desiderio di cambiamento e senza questo desiderio e questa passione non può sorgere alcuna letteratura.

Che funzione ha per lei l’ironia dei suoi romanzi?

Ridere può avere un forte effetto liberatorio. Per me, sia come persona che come autore, funziona così. Prendere se stessi, gli altri e le cose non troppo seriamente, bensì con ironia, aiuta a superare incolume la vita e il mondo. La vita è molto bella, ma anche terribile.

Quali sono i suoi punti di riferimento o modelli letterari?

Non ho mai avuto modelli letterari nello stretto senso del termine perché ho sempre cercato di trovare un tono, una lingua e un contenuto personali. Inoltre, non ha senso imitare grandi autori. Ci furono e ci sono, naturalmente, alcuni scrittori che mi hanno colpito e anche influenzato, e che rileggo sempre volentieri. Tra questi vi sono Anton Tschechow (soprattutto i suoi racconti esistenziali, meno i suoi drammi teatrali). Leo Tolstoi (per il suo stile, le sue magnifiche descrizioni), Isaak Babel (un autore russo ebreo della prima metà del ventesimo secolo), Joseph Roth naturalmente, Alexander Puschkin, Mark Twain e Joule Verne (questi tre soprattutto nella mia infanzia), l’autrice austriaca Anna Mitgutsch (che ho letto soprattutto nella giovinezza) così come Erich Hackl (per i suoi due romanzi Auroras Anlass e Abschied von Sidonie). Tra gli autori moderni stimo soprattutto Christoph Hein (un Autore della ex-DDR), Thomas Glavinic (per le sue prime opere), Julya Rabinowich (per il suo stile, il suo impegno e soprattutto per i suoi drammi) e Doron Rabinovici (per il suo stile meraviglioso). Considero un grande autore contemporaneo lo scrittore israeliano-palestinese Sayed Kashua che scrive in ebraico. Unisce tensione, impegno politico e buon stile con ironia e spirito. Per quanto riguarda la lirica desidero nominare Wyslawa Szymborska (vincitrice del Nobel, polacca), Robert Schindel, Konstantin Kaiser e Raffaella Passiatore (un’italiana che ha vissuto a lungo a Salisburgo). Potrei aggiungere a questa lista ancora molti altri autori, ma penso di averne nominati abbastanza.

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L'autore

Chiara Conterno
Chiara Conterno
Chiara Conterno, ricercatrice di Letteratura Tedesca presso l’Università di Bologna, si occupa di lirica tedesca del Novecento e contemporanea, Briefkultur, letteratura transculturale, autori ebreo-tedeschi dal Settecento ad oggi, fenomeni di ricezione dei classici, Kulturtransfer tra Italia e Germania nel Settecento. Traduce dal tedesco.