L’Italiano fuori d’Italia

Carlo Pulsoni intervista Paolo Divizia

Paolo Divizia (Torino 1977) si è laureato in Filologia Italiana presso l’Università di Torino (2001) e ha conseguito il dottorato presso l’Università di Parma (2005). Dal 2006 insegna Letteratura e Filologia Italiana presso la Masarykova univerzita di Brno (Rep. Ceca). Tra i suoi interessi principali di ricerca i volgarizzamenti due-trecenteschi e le questioni filologiche di metodo, con alcune incursioni nel Novecento. Ha partecipato a numerosi convegni in Italia e all’estero, e ha pubblicato articoli su alcune delle più prestigiose riviste nell’ambito della filologia italiana e delle discipline contigue quali «Medioevo Romanzo», «La Parola del Testo», «Lingua Nostra», «Studi e Problemi di Critica Testuale», «Giornale Storico della Letteratura Italiana», «Filologia e Critica», «Studi Medievali», «Studi Linguistici Italiani», «Italia Medioevale e Umanistica».

Ti sei formato e addottorato in Italia e dopo neanche un anno ti sei trasferito a Brno. Quali sono le motivazioni che ti hanno portato nella Repubblica Ceca?

Negli anni in cui stavo facendo il dottorato (2002-2005) era già ben evidente che, con i continui tagli di finanziamenti all’università italiana e il blocco del turnover, le possibilità per un giovane studioso di intraprendere una carriera universitaria in Italia erano assai limitate. Avendo inoltre già viaggiato molto in Europa negli anni precedenti (vacanze studio in Inghilterra, scambi internazionali estivi tramite associazioni studentesche), e disponendo di una buona conoscenza dell’inglese, la scelta di tentare all’estero fu abbastanza naturale. Aggiungi che nel mio percorso di studente universitario però non avevo mai usufruito di soggiorni di studio Erasmus o simili: questa la sentivo come un’esperienza che mi mancava, come una lacuna da colmare nella mia formazione (da intendere in senso pregnante come “Bildung”), e l’Italia un po’ mi stava stretta. La scelta della Repubblica Ceca non fu una vera e propria scelta: avevo già viaggiato più volte nell’Europa dell’Est, Repubblica Ceca compresa, tra il 2003 e il 2005, cioè proprio quando questi paesi entrarono a far parte dell’Unione Europea (2004), e vi avevo colto una certa vivacità e voglia di fare che in Italia mi sembrava un po’ assopita nella mia generazione (l’impressione era però in parte falsata dal fatto che avessi conosciuto l’Europa dell’Est attraverso i giovani attivi nelle associazioni studentesche), per cui la Repubblica Ceca mi interessava; ma ero disposto ad andare ovunque in Europa: Brno fu la prima occasione concreta che mi si offrì in un’università all’estero, e la colsi al volo.

Cosa significa per te insegnare la letteratura e la cultura italiana stando all’estero?

Insegnare la letteratura e quindi la cultura del proprio paese all’estero significa sempre mettersi a confronto con una realtà diversa dalla propria, un guardarsi da fuori che forse rimanendo in Italia non mi sarebbe stato possibile, e significa rendersi conto di quanto ci sia di non detto in un testo più o meno letterario: è una conferma pratica costante di come l’autonomia del testo sia soltanto un’illusione, togli il contesto in cui e per cui un testo è stato concepito e perdi gran parte del suo significato. Insegnare letteratura italiana all’estero, ma un discorso simile vale anche quanto riguarda l’insegnare la letteratura del passato, significa dunque esplicitare il contesto di origine, farsi mediatori tra il testo e i lettori, cercando di avvicinare questi a quello e non viceversa. Insegnando, anch’io ho imparato. Partito con quella vocazione europea di cui ti dicevo prima, mi sono però poi scoperto molto più legato al mio paese di quanto credessi: non in senso politico-nazionalista, ché questo non mi interessa, ma per cultura e accademia. La solida impostazione storico-filologica che ho ricevuto nelle Università dove ho studiato (Torino e Parma) è l’eredità più consistente della mia formazione italiana e la mia guida più sicura nell’attività che svolgo, mentre ancora oggi, e forse più oggi di allora, rimango piuttosto diffidente nei confronti di certe recenti mode accademiche in auge soprattutto fuori d’Italia. Insegno all’estero, ma i miei modelli per la ricerca e per l’insegnamento – attività che a livello universitario non riesco a concepire separata dalla ricerca – rimangono quelli della scuola filologica italiana, come puoi vedere sia dai “prodotti” (come si dice ora) delle mie ricerche, sia dalla scelta delle sedi, convegni e riviste, in cui pubblicarli.

Ci sono rapporti di collaborazione con gli Atenei della Slovacchia, considerato che la secessione della Cecoslovacchia è storia molto recente?

Ci sono contatti ancora molto stretti con i “cugini” slovacchi, tant’è vero che all’Università di Brno gli studenti slovacchi costituiscono la comunità “straniera” più consistente e godono di uno statuto speciale: possono sostenere gli esami nella propria lingua. Mi dicono però in generale che mentre un tempo, finché c’era la Cecoslovacchia, c’era una piena o quasi piena comprensione linguistica reciproca tra cechi e slovacchi, ora le nuove generazioni hanno più difficoltà a intendersi, e in particolare i giovani cechi hanno difficoltà a capire lo slovacco. Quanto alle collaborazioni tra atenei cechi e slovacchi a livello del corpo docente, sì, restano in vita dei rapporti che però direi da intendere, più che come legami ceco-slovacchi, come legami all’interno del blocco ex-sovietico occidentale, che includono quindi oltre a Repubblica Ceca e Slovacca anche Polonia e Ungheria, e che non di rado si configurano di fatto come una chiusura nei confronti dell’Ovest. Come ti dicevo, tuttavia, io personalmente sono più legato all’ambiente accademico italiano e conosco meno la realtà universitaria locale ceca e slovacca.

Quali sono, a tuo avviso, le motivazioni che spingono oggi uno studente ceco o slovacco a studiare l’italiano? Nel caso della Polonia, Roman Sosnowski parlava tra le altre cose dell’eleganza e dello stile di vita delle ragazze che studiavano l’italiano. Avviene qualcosa di analogo da voi?

Sì, come risulta anche dalle parole di Roman, la scelta di studiare una lingua straniera è spesso legata a un’adesione, anche mediata, nei confronti di un modello di vita o di cultura in senso lato. Non studi una lingua solo per la lingua in sé, ma la studi perché vuoi avvicinarti a una cultura che ti affascina, di cui quella lingua è al tempo stesso l’espressione e la chiave di accesso. Il legame con una cultura altra si stabilisce a più livelli: non solo la lingua, ma anche la musica, il cinema, la moda, la cucina, e a volte a monte di tutto ciò può esserci un viaggio o un amore. Quando uno studente straniero parla dei motivi che lo hanno indotto a scegliere la lingua italiana è molto frequente che ricorra ad aggettivi come bella o musicale o armoniosa, ma dietro a questa impressione sonora c’è spesso quel legame polivalente con l’Italia e l’italianità di cui dicevo sopra. C’è poi nel caso particolare, o almeno c’era fino a qualche tempo fa, un motivo più pratico: con la caduta del Comunismo molti imprenditori italiani avevano aperto delle aziende in Repubblica Ceca, dove gli stipendi sono più bassi che in Italia, sicché conoscere la lingua italiana all’inizio significava avere maggiori opportunità di lavoro; ora si è in una fase di saturazione e con l’allargamento a est dei mercati gli imprenditori italiani si sono spostati verso paesi come Romania, Moldavia, Ucraina o Cina, dove gli stipendi sono ancora più bassi, per cui in Repubblica Ceca è diminuita l’offerta di posti di lavoro ove sia richiesta la conoscenza dell’italiano: di conseguenza è diminuito anche il numero di studenti di italiano. Infine l’immagine che l’Italia ha dato di sé nel mondo in questi ultimi anni non ha certo contribuito positivamente. In generale posso osservare che ciò che attrae gli studenti è l’italiano pratico contemporaneo, mentre è più limitato l’interesse verso la letteratura e verso il passato del nostro paese e della nostra lingua.

Quali sono gli autori italiani più letti o più richiesti nel tuo corso?

Visto l’interesse per la contemporaneità, le letture “spontanee” degli studenti si addensano attorno agli scrittori che entrano nelle classifiche di vendita, quelli del momento o quelli degli ultimi due decenni, spesso conosciuti attraverso amici italiani o attraverso i mass-media. Qualcosa di simile avviene anche con la musica: di solito arrivano solo le cose più commerciali. Cerco di arginare questo fenomeno proponendo letture e in parte ascolti più impegnati, e forse sono riuscito a far apprezzare ai miei studenti alcuni degli autori del Novecento tra i miei preferiti come Primo Levi, Cesare Pavese e Antonio Tabucchi, o cantautori come Francesco De Gregori e Ivano Fossati, ma è una lotta ad armi impari. Mi fa piacere invece quando attraverso gli studenti vengo a scoprire autori interessanti che prima non avevo mai letto: così è stato ad esempio con Giorgio Pressburger e con Gianrico Carofiglio.

Quanto e chi arriva invece tra gli autori contemporanei, anche in traduzione?

Sinceramente non saprei rispondere con la dovuta competenza, perché lavoro a contatto con studenti fortemente “italianizzati”, se posso dire così, e le loro letture italiane non riflettono necessariamente quello che si legge nel paese. I romanzi di Umberto Eco vengono tradotti abbastanza velocemente e può capitare di vederli esposti nelle vetrine delle librerie, ma per il resto non mi pare che arrivi molto: se vai nelle librerie di Brno, di solito trovi una piccola sezione di libri in lingua italiana, con non più di una decina di titoli, ma la maggior parte di essi sono traduzioni italiane di autori cechi (Kundera, Hrabal, Capek) o di libri inglesi (Agatha Christie in particolare e gialli contemporanei); di autori italiani capita di trovare in vendita solo qualche classico del Novecento (Calvino e Pirandello soprattutto, qualche volta Pasolini e Moravia). Per cui se cerco un libro italiano devo comprarlo in Italia o su internet, e del resto anche gli studenti fanno così.

Suggeriresti qualche nome di autore contemporaneo che ti augureresti venisse tradotto in ceco?

Forse sto invecchiando, e un sintomo di ciò è che difficilmente riesco a riconoscermi negli autori della mia generazione o più giovani di me. Se per contemporanei intendi quelli attivi negli ultimi due decenni, quelli che ho vissuto in tempo reale e non come recupero storico posteriore, devo confessare che pochi scrittori contemporanei riescono ad entusiasmarmi. Ti ho detto di Tabucchi, di cui ho letto con avidità gli ultimi libri non appena sono stati pubblicati, ma questa è un’eccezione. Mi sembrava interessante Ascanio Celestini, che ho conosciuto prima attraverso i suoi spettacoli teatrali, ma gli stessi testi rendono molto meno se letti sulla pagina stampata. Ho trovato molto sentito e ben scritto il romanzo Ogni promessa di Andrea Bajani, e questo è un libro che davvero mi augurerei che venisse tradotto in ceco: altri romanzi dello stesso autore però, pur avendo sempre qualcosa di interessante, mi convincono di meno nella loro interezza.
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