L’Italiano fuori d’Italia

Carlo Pulsoni intervista Silvio Mignano

Silvio Mignano è nato a Fondi nel 1965. Diplomatico e scrittore, ha dapprima prestato servizio a L’Avana e a Nairobi, poi è stato Console Generale a Basilea e Ambasciatore a La Paz. Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Roma, Fazi, 1999), Le porte dell’inferno (Roma, Fazi, 2001), il libro di favole Il regalo del rinoceronte (Lecce, Manni, 2004), le raccolte di poesie Taccuino nero per il viaggio (Marina di Minturno, Caramanica, 2003), Non abbiamo uno sceneggiatore di scorta (La Paz, Gente Común, 2009) e La nostra ribelle buona educazione (Lecce, Manni, 2011, Premio Sertori Salis 2012 per il miglior libro italiano di poesie del biennio). I suoi romanzi e le sue poesie sono tradotti in spagnolo.

Hai prestato servizio finora a L’Avana, Nairobi, Basilea e infine La Paz. In tutte queste sedi hai fondato o hai contribuito al successo de “La settimana della cultura italiana”. Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a impegnarti in questa iniziativa?

Ho sempre ritenuto, e continuo a ritenere, che la cultura sia un patrimonio essenziale per il nostro paese e dunque che costituisca una carta da giocare per presentare l’Italia e per promuoverne anche altri aspetti, come quelli legati agli investimenti, all’interscambio commerciale, perfino al ruolo politico. Una volta stabilito questo punto di partenza, mi sono chiesto quale cultura italiana dovremmo presentare all’estero. Certamente dobbiamo puntare sulla nostra straordinaria eredità, su quel patrimonio consolidato di cui probabilmente nessun altro paese può disporre con altrettanta amplitudine. Tuttavia questo apparente vantaggio rischia di trasformarsi in zavorra: non possiamo e non dobbiamo trasmettere l’idea che a un certo punto della storia l’Italia sia morta, o sia caduta in un singolare letargo creativo. Ecco allora l’esigenza di proporre la cultura viva, quella del presente, della contemporaneità. Terza questione: siamo un popolo tendenzialmente anarchico, e lo dico utilizzando il termine nella sua accezione più nobile. Tendiamo a procedere in ordine sparso e se questo significa da un lato un’enorme ricchezza di proposte e di iniziative, comporta dall’altro il rischio di disperdere energie e soprattutto di non offrire un’immagine coordinata, articolata, esaustiva.

La settimana della cultura, come concetto, voleva dire proprio questo: garantire una pluralità di proposte, ciascuna indipendente e con le proprie specificità, ma offrire al contempo una cornice, una rilegatura, una sorta di indice ragionato, accompagnato, per così dire, da una veste grafica bella e immediatamente riferibile all’idea dell’Italia, a un’unitarietà del paese. Fuor di metafora, si trattava tra l’altro di individuare davvero una veste grafica adeguata: nella mia idea di settimana della cultura, infatti, un ruolo fondamentale doveva avere la produzione di dépliant, manifesti, inviti, libri, con un’unitarietà di linea editoriale immediatamente percepibile e riferibile allo stato italiano.

Ricordo ancora quando ho avuto la prima idea: ero nella mia casa all’Avana, in giardino, sotto un grande e bellissimo mango, in compagnia del poeta e sceneggiatore cubano Alex Fleites. Ragionavamo di iniziative culturali bilaterali che avremmo avuto il desiderio di proporre a costi limitati ma con un alto valore aggiunto. Era l’estate del 1995, io non avevo ancora trent’anni e tutto sembrava un gioco, un divertissement intellettuale. Finché cominciammo a buttar giù una scaletta e un abbozzo – appunto – di veste grafica. Ne parlai con il mio ambasciatore, Giovanni Ferrero, una persona straordinaria, con una visione strategica lucidissima accompagnata da un fervore propositivo fuori del comune. Un uomo curioso, nel senso più bello della parola. Mi incoraggiò ad andare avanti, a cercare uno sbocco concreto da dare a quella che era nata come una semplice intuizione. Io ero all’epoca primo segretario, il terzo funzionario dell’ambasciata, e mi occupavo di questioni culturali, commerciali, consolari e di cooperazione – le quattro c, come amavo dire. Cercai dunque di vedere quali sostegni potessi ricevere dalle imprese italiane presenti sul territorio, quale potesse essere il coinvolgimento della nascente comunità italiana nell’isola e quale collaborazione potesse sorgere con i diversi progetti di cooperazione attivi nel paese. Il risultato fu sorprendente.

Tra le attività in cartellone in quella prima edizione vi fu un laboratorio-mostra di tre artisti di primo livello italiani e tre cubani, curato da Achille Bonito Oliva e svoltosi nella Scuola Superiore di Arte dell’Avana, un complesso realizzato negli anni Sessanta da un architetto cubano e da due italiani; ancora, due concerti tenuti da Teresa De Sio insieme agli Orishás, una delle più importanti bande rock cubane; e una messa in scena della Traviata con orchestra e coro del Gran Teatro dell’Avana, solisti italiani e direzione del Maestro Ardinghi, allora direttore della Fondazione Puccini di Torre del Lago (lo so: la Traviata è di Verdi, ma coinvolgemmo la Fondazione Puccini, che in seguito infatti mise in scena anche la Tosca). Quest’ultima attività ebbe risvolti quasi eroici: riattivammo il teatro Sauto di Matanzas, cittadina situata a due ore dalla capitale sull’oceano, dalla quale nella seconda metà dell’Ottocento partiva il cinquanta per cento dello zucchero mondiale. Questo commercio l’aveva resa all’epoca particolarmente florida e aveva portato alla costruzione nel 1863 di un teatro per l’opera, un piccolo gioiello, una sorta di Scala ridotta e alleggerita nelle strutture, divenute per così dire tropicali, con molti spazi, colonnine sottili, ariosità, statue in marmo di Carrara, nel rispetto più rigoroso delle leggi dell’acustica. L’autore era stato un architetto italiano, Daniele Dell’Aglio. Vi si esibirono tra l’altro Sarah Bernhardt, Enrico Caruso e Andrés Segovia. Il teatro era caduto in disuso e in parte in rovina ormai da trent’anni e la nostra Traviata lo fece risorgere, sottolineando tra l’altro una serie di apporti italiani alla cultura cubana e universale non da poco: Dell’Aglio, Caruso, Verdi, la fondazione Puccini, i musicisti giovani di oggi. Ne veniva fuori un sistema organico, proprio quello che volevamo. Il trasporto di strumenti, leggii, fondali e altro materiale dall’Avana a Matanzas, su vecchi camion che avanzavano asmatici sulle stradine un tempo percorse dai carri di canne da zucchero, fu un atto poetico degno di una versione in folio dell’epopea di Fitzcarraldo.

In quella e in altre edizioni della Settimana della cultura italiana a Cuba coinvolgemmo poi anche il mondo della cooperazione. Ricordo una straordinaria mostra di quadri dipinti da ex pazienti dell’ospedale psichiatrico di Pinar del Río, il capoluogo della provincia occidentale dell’isola, da cui proviene il celebre tabacco dei sigari cubani. La nostra cooperazione stava favorendo il reinserimento dei pazienti psichiatrici nella società attraverso un’attenzione di tipo ambulatoriale e il riaffidamento degli stessi alle famiglie e non già a reparti ospedalieri, seguendo il modello della nostra legge Basaglia. La mostra si tenne nel Palacio de los Capitanes Generales, l’edificio coloniale più prestigioso dell’Avana e anche il più fotografato e visitato da qualsiasi turista che si rechi a Cuba: fu un’emozione molto profonda, per noi, per gli ex pazienti e le loro famiglie, per la gente che partecipò all’evento. Ci rivolgemmo anche alla comunità italiana, avviando una serie di conferenze e di pubblicazioni sulla presenza dei nostri connazionali nella società cubana e sul loro contributo alla storia del paese.

Quali sono i costi e i benefici di iniziative di questo genere? Quanto è complesso cercare degli sponsor per iniziative legate alla cultura italiana?

La Settimana della cultura italiana a Cuba nacque sei anni prima della Settimana della lingua italiana nel mondo, iniziativa ovviamente di ben altra ampiezza e importanza, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri con contributi prestigiosi, quali quello dell’Accademia della Crusca, ed estesa a tutta la rete diplomatica, consolare e degli istituti di cultura. Tuttavia anche il piccolo esperimento cui io ed Alex Fleites demmo il via nel 1995 è sopravvissuto al nostro ruolo ed ha celebrato lo scorso novembre la diciottesima edizione (vi sono state solo un paio di interruzioni in questi due decenni). Questo vuol dire che i benefici sono stati di gran lunga superiori ai costi. Questi ultimi sono relativamente contenuti: l’apporto di sponsor, istituzioni e singole persone è prezioso ed è reso relativamente facile dal prestigio che un’iniziativa acquisisce nel corso degli anni. In certi casi si fa letteralmente a gara per essere presenti. Certo, occorre più di ogni altra cosa un notevole impegno in termini di tempo da dedicare all’organizzazione, di passione, ma anche di intelligenza e attenzione nel selezionare le proposte e mantenere sempre un livello di qualità molto alto, senza tuttavia trasformarsi nemmeno in spietati selezionatori o addirittura – non sia mai – in censori.

Ho avuto un’altra esperienza, molto diversa, quando ero Console Generale a Basilea. Vi ho trovato un ambiente diverso rispetto a Cuba, con una presenza di potenziali sponsor e finanziatori di altissimo livello. Basti pensare alla presenza nella città di due colossi della farmaceutica mondiale come Roche e Novartis, ma anche alle banche svizzere, ai produttori di orologi presenti in tutta la Svizzera nord-occidentale e ovviamente nei cinque Cantoni che dipendevano da me (Basilea, Basel-Land, Giura, Argovia e Soletta), o ancora agli straordinari musei e fondazioni culturali della città, come la Fondazione Beyeler. Il contraltare era dato da un ambiente talmente saturo di attività ed eventi di primo piano a livello internazionale (per citarne uno solo, Art Basel è la più importante fiera di arte contemporanea del mondo, proprietaria anche delle consorelle fiere in America, Art Basel Miami, e in Asia, Art Basel Hong Kong). Farsi strada in tale tessuto socio-culturale è un’impresa, eppure anche in quel caso siamo riusciti a fare molto. Ho avuto l’onore di organizzare nel Museo Tinguely Avenue Rotella, l’ultima mostra di Mimmo Rotella realizzata prima purtroppo della morte del maestro. Il curatore fu Germano Celant e Skira si occupò del catalogo. Le opere di Rotella, esposte nelle sale del complesso disegnato da Mario Botta sulle rive del Reno, dialogavano con quelle di Tinguely, che fanno parte della collezione permanente del museo. Tinguley, Rotella, Botta, Celant, Skira: il livello si commenta da solo, eppure il Consolato Generale, l’Ambasciata a Berna e il nostro Ministero sono stati presenti e protagonisti accanto a loro.

O ancora: grazie anche agli sponsor locali, ho organizzato nel 2005, insieme alla professoressa Maria Antonietta Terzoli, docente di letteratura italiana e direttore dell’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea, le celebrazioni per i seicento anni della nascita di Enea Silvio Piccolomini, Pio II, il Papa umanista. Pochi ricordano che fu Pio II, con una propria bolla, a fondare l’Università di Basilea, la più antica della Svizzera, anche quale gesto di amore verso una città che Piccolomini sentiva propria fin da quando, ancora laico, era stato segretario del Vescovo di Fermo al Concilio di Basilea, nel 1431. L’evento ebbe una risonanza internazionale e coinvolse tutti i vertici politici, accademici, scientifici e del mondo imprenditoriale della regione renana. Le radici italiane della cultura di Basilea – fondata da Lucio Munazio Planco, luogotenente di Cesare nelle guerre galliche – risaltarono con forza.

Aggiungo anche l’importanza di coinvolgere il più possibile, oltre gli sponsor, le istituzioni italiane: delle città nelle quali ho lavorato, l’unica nella quale aveva sede un Istituto di cultura era Nairobi. Ecco, in quel caso mi sono avvalso della struttura esistente, senza mai pensare di escluderla o scavalcarla, ma coinvolgendola. Ricordo ad esempio uno splendido incontro con Gianni Celati, che avevo portato io in Kenya e che era mio ospite a Nairobi. Ma è stato importante che, lungi da qualsiasi personalismo o iniziativa improvvidamente eccentrica, l’evento avesse luogo nella cornice dell’istituto.

Il pubblico di queste iniziative è solo indigeno o vi prendono parte anche gli italiani trapiantati in quei luoghi o le seconde generazioni?

Io ho sempre avuto l’obiettivo di organizzare eventi che coinvolgessero sempre entrambe le tipologie di pubblico. Per me non ha senso, all’estero, presentare la cultura italiana senza elementi che raccontino anche l’interazione della stessa con la cultura o le culture locali: fin da Coquito con mortadella, il laboratorio-mostra di sei artisti italiani e cubani. Coquito con mortadella è un’espressione gergale dell’Avana, un po’ simile ai cavoli a merenda: come mettere insieme cose molto diverse tra loro, apparentemente incompatibili, ma tirarne fuori un prodotto nuovo, che ha la capacità di sorprendere.

Credo che da questo punto di vista, almeno a mio avviso, l’evoluzione più completa sia stata fino ad ora la Settimana della cultura italiana in Bolivia. Ne ho organizzate quattro edizioni, dal 2007 al 2010, ben articolate e strutturate, con eventi e presenze nei campi della musica, dell’arte figurativa, della letteratura (la settimana, che era in realtà un mese, si protraeva da metà luglio a metà agosto, comprendendo il periodo della Fiera internazionale del libro de La Paz), del fumetto, del teatro, del cinema, della fotografia. Vi hanno preso parte nel corso degli anni personalità del calibro di Tanino Liberatore, il creatore di Ranxerox, e dell’altro grande fumettista Mattotti, di Achille Bonito Oliva, Jannis Kounellis, Ferruccio Soleri con il Piccolo Teatro, Enrico Testa, vincitore del premio Viareggio per la poesia, e via di seguito. In tutti questi casi abbiamo sempre associato agli italiani personalità della cultura locale, giungendo a creare punti di contatto e di collaborazione che inizialmente parevano impensabili: basti pensare che Bonito Oliva è stato presidente della Sesta Biennale de La Paz; che Kounellis ha realizzato un’opera in loco, donandola alla città; che Soleri ha tenuto un laboratorio gratuito aperto alla partecipazione di ventuno giovani attori boliviani e conclusosi con una loro messa in scena di Goldoni; che l’Italia è divenuta partner del premio nazionale di letteratura della Bolivia, con il diritto di esprimere un membro della giuria; che abbiamo partecipato con nostre orchestre al festival della musica barocca delle Missioni gesuitiche della Chiquitanía.

Al fondo di tutto vi è la forza della nostra cultura, che non cessa di stupirci per la sua capacità di presenza in ogni angolo del pianeta. L’esempio della Bolivia è significativo. Non è un paese che si associ immediatamente al nostro, eppure il suo inno nazionale è stato musicato da un compositore romano, Benedetto Vincenti, la scuola della musica barocca è stata fondata da Domenico Zipoli, le più importanti e belle chiese della capitale Sucre sono state progettate dall’architetto genovese Cambiasso. Il primo grande studio fotografico del paese è stato quello dell’italiano Gismondi, a fine Ottocento, il cui archivio rappresenta per la Bolivia qualcosa di simile a quello degli Alinari per noi. Perfino il tipico pane de La Paz – nella forma delle croccanti marraquetas– è stato introdotto negli anni Trenta dal fornaio italiano Figliozzi. Se tuttavia non si fa uno sforzo per attirare l’attenzione della popolazione locale su queste realtà, associandole alla cultura del posto, non si ottengono gli stessi risultati.

È possibile pianificare iniziative simili anche dalla Farnesina?

Certamente. Molto si è fatto dagli anni Novanta, quando iniziai le mie avventure da giramondo sotto il mio mango a Cuba. Oggi esistono cornici istituzionali come la Settimana della lingua italiana nel mondo: è giusto ed è importante che quando ci si trova in una realtà specifica si esplorino le possibilità offerte dal paese, si creino iniziative nuove, originali, ma le si inseriscano nel contesto organizzativo costruito dalla Farnesina. Alla ricerca di quella veste grafica ed editoriale omogenea di cui parlavo all’inizio.


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