conversando con...

Alessandra Panzanelli intervista Stephen Parkin

Nato a Londra nel 1954, Stephen Parkin si è laureato a Cambridge ed ha ottenuto un secondo titolo universitario allo University College di Londra. Tra il 1981 e il 1991 ha lavorato a Napoli, come lettore di Inglese allo Istituto Universitario Orientale (che oggi si chiama Università degli Studi L’Orientale) e alla Federico II. Tornato in Inghilterra, ha lavorato per due anni (dal 1992 al 1994) al castello di Windsor, alla Biblioteca Reale. Parallelamente, Stephen ha al suo attivo una carriera da traduttore; tra più recenti traduzioni pubblicate ricordiamo: Edmondo De Amicis, Ricordi di Londra; Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Ricordi d’infanzia e racconti; Massimo Gramellini, Fai bei sogni.

Dal 1994 Stephen Parkin lavora alla British Library nel settore delle raccolte degli stampati antichi, dove è curator delle edizioni italiane. Prima di avviarsi in questa vita professionale qui nel Regno Unito, dove è nato e cresciuto, Stephen ha trascorso un lungo periodo di tempo in Italia, a Napoli, dove ha lavorato come docente di Inglese. In certo senso Stephen si è innamorato dell’Italia, della lingua, della cultura, e dello stile di vita italiani. E di fatto, pressoché regolarmente, lui torna in Italia, paese che, sono sicura, Stephen conosce assai meglio di molti Italiani. Questa circostanza, e la posizione che occupa alla British Library, gli danno fanno vedere i due paesi da una prospettiva singolare. Un punto di vista di cui abbiamo voluto approfittare.

Stephen, ci racconti in che modo è nato e si è sviluppato il tuo interesse per l’Italia?

Beh, il mio primo approccio all’Italia assomiglia a quello di molti altri: si deve all’arte. All’Italia io mi sono avvicinato attraverso le opere d’arte italiana conservate qui a Londra, nelle gallerie e nei musei della mia città. Ho chiaro, ad esempio, il ricordo di quando da ragazzino fui portato a vedere gli affreschi fiorentini che erano distaccati e portati qui a seguito dell’alluvione del ’66. Anni dopo, con la famiglia, venimmo in Italia come turisti mentre fu all’Università, come studente di Letteratura inglese, che sviluppai però un interesse per Dante; lo scelsi come soggetto per una tesina. Il mio College [a Cambridge, n.d.r.] mi dette l’opportunità di iscrivermi ad un corso di Italiano all’Università per Stranieri, a Perugia, durante una vacanza estiva.
Soltanto più tardi ho sviluppato un vero e profondo interesse per l’Italia, quell’interesse che non mi ha più abbandonato e che mi spinge a conoscere ogni aspetto del Paese, a cercare di capirne la cultura – intesa questa nel suo senso più ampio, che superi i luoghi comuni sviluppati tipicamente da turisti. E questo è avvenuto quando poi ho vissuto in Italia, ed ho iniziato a conoscerne la lingua davvero bene (penso infatti che, per quanto tu possa accostarti ad un paese osservandolo e studiandolo nei suoi molti aspetti, quel paese cominci a conoscerlo davvero solo quando ti appropri della sua lingua [sottovoce Stephen commenta: “Una riflessione forse banale”. Io non credo: colpisce sempre rilevare quanto potere sia racchiuso nel linguaggio, n.d.t.].
Probabilmente quel che mi è capitato con l’Italia avrebbe potuto accadere con ogni altra città in cui mi fossi trasferito. Penso però che Napoli abbia avuto un peso speciale, anche perché vivere lì coincise con una prima volta nel meridione italiano: arrivare a Napoli, durante uno dei periodi più difficili, dopo il terremoto dell’80, mi fece rivedere l’idea che avevo precedentemente sviluppato dell’Italia, quando ero venuto per le classiche visite alle ‘città d’arte’, come Firenze, Venezia o Perugia. Fu a Napoli che io cominciai ad interessarmi agli italiani – alla gente – oltreché all’arte e alla letteratura. Suppongo quindi che fu in quel momento che il Paese smise per me di essere un museo da visitare per diventare parte della mia identità.
Mi viene in mente in proposito una bellissima nota di Montale, scritta subito dopo la fine della guerra, sull’onda probabilmente della preoccupazione per l’immagine dell’Italia nel mondo; si chiedeva quali persone avrebbero potuto considerarsi veri amici dell’Italia. E così Montale si risponde, dice: avrebbero potuto dirsi veri amici coloro per i quali “l’Italia è stata il fatto centrale, cardinale della loro vita: coloro che senza il nostro Paese sarebbero stati diversi, avrebbero pensato, sentito, intuito i valori dell’esistenza in un altro modo, non importa quale”. Ecco, in questa definizione io senz’altro mi riconosco.

Stephen, sei dunque diventato un Italianista?

No, all’Università io ho seguito un corso di Letteratura inglese e mai potrei definirmi un Italianista, se con ciò si intende qualcuno che ha avuto una formazione universitaria o di studi strutturati in Letteratura italiana.
Certo ho svantaggi da questo: nel corso degli anni ho senz’altro letto molta letteratura, e molto di storia italiana, non però in modo sistematico. Mi restano quindi lacune anche importanti che, immagino, non ci sarebbero se avessi seguito corsi universitari di Italiano. D’altro canto, tutto ciò che so l’ho imparato dall’esperienza diretta, e questo ha per me un significato speciale, lo sento parte della mia stessa identità, più che se avessi affrontato l’italiano ‘solo’ attraverso un corso di studio.

Quanto invece al lavorare in biblioteca: come o quando hai deciso di lavorare come bibliotecario?

Una questione di benessere: nelle biblioteche mi sono sempre sentito a mio agio. E questo fin da bambino, quando i miei mi portavano alla biblioteca pubblica del quartiere. Da studente mi è sempre piaciuto studiare in biblioteca, anche se ciò non ha sempre implicato l’ottenere risultati eccellenti. Confesso che a me lo studiare in sé – leggere, prendere appunti, vedere come un argomento cresce e prende forma – è piaciuto sempre più che non lo scrivere i risultati della ricerca. Ciò forse è anche pigrizia, ma soprattutto è il riflesso di un modo di sentire, l’impressione che le biblioteche abbiano in sé la ragion d’essere, che non si giustifichino solo in quanto officine per produrre ricerca. In certo senso è venuto quasi da sé che volessi diventare bibliotecario, benché anche insegnare mi sia sempre piaciuto.
La prima volta che ho seriamente considerato questa ipotesi è stato in Italia, quando ho deciso di prendere il diploma alla Scuola Vaticana di Biblioteconomia, e sono anche stato per qualche anno socio dell’AIB.
Speravo di trovare lavoro in Italia, come bibliotecario, questo però s’è rivelato assai più difficile di quanto non avessi supposto (ammetto che nonostante sei anni passati in Italia, ci sono ancora molte cose di questo Paese che non riesco a capire…).
Così è finita che sono tornato a Londra, dove ho seguito un altro corso di Biblioteconomia, questa volta un corso full-time che si chiude con l’acquisizione di un titolo universitario. Finito il corso ho ricevuto un’offerta di lavoro nel Regno Unito e così sono rimasto qui.

Parliamo ora del tuo attuale impegno: quando hai cominciato ad occuparti delle raccolte di edizioni antiche italiane?

Dunque il mio primo impiego aveva già ampiamente a che fare con edizioni antiche, ma non aveva nessi con l’Italia. Passati tre anni un amico mi disse che nel “The Guardian” era uscito l’avviso di una selezione per un posto alla British Library, nella sezione delle collezioni italiane appunto. Feci domanda ed ottenni il posto. La cosa veniva in qualche modo a chiudere un cerchio, e in modo sorprendente: quando infatti avevo deciso di restare nel Regno Unito e lavorare come bibliotecario, non avevo neanche considerato l’ipotesi che avrei potuto riutilizzare sul piano professionale l’esperienza maturata in Italia. In certo senso, lavorare alle collezioni italiane alla British Library è diventata un’estensione del tempo trascorso nel vostro paese. L’ha anche resa più intensa e profonda, giacché mi ha costretto ad imparare di più dell’Italia e a mantenere i contatti che vi avevo creato.

Parlando delle collezioni italiane della British Library: è noto che sono state a lungo una fonte per molti italianisti. Il primo pensiero corre a Carlo Dionisotti, ma ovviamente molti altri possono essere portati ad esempio. Vuoi per favore dare una tua lettura del fenomeno, dirci perché, secondo te, è capitato che molti Italiani abbiano dovuto espatriare per studiare la propria letteratura?

Io credo che a questo abbia concorso più di un fattore. Parlo naturalmente per il Regno Unito, che però costituisce l’esempio più eloquente di questo fenomeno. Anzitutto c’è da tenere presente la lunga tradizione di quella che si potrebbe anche chiamare la diaspora degli Italiani, quelli che si sono rifugiati qui per motivi religiosi, politici o economici. Questo è accaduto ripetutamente nel corso dei secoli, con punte in alcuni periodi: con la Riforma, nel XVIII Secolo, durante il Risorgimento e poi sotto il Fascismo (la ragione per cui Dionisotti lasciò l’Italia). Un ultimo flusso si sta producendo in questi anni, a seguito delle difficoltà create dalla crisi finanziaria del 2008. Ma un secondo fattore, che più strettamente riguarda gli studi, è il fatto che qui si trovano fonti di grande importanza, che a loro volta riflettono il prestigio di cui la cultura italiana gode presso gli Inglesi da secoli. Detto in parole semplici, le raccolte di edizioni italiane alla British Library sono così ricche che da sole reggono il paragone con una grande biblioteca italiana (Firenze, Roma Milano etc.). Una grande biblioteca di Italianistica non in Italia… Ciò ha fatto sì che studiosi del calibro di Dionisotti o altri, costretti talvolta con la forza a lasciare l’Italia e ad abbandonare una carriera, abbiano poi potuto continuare i loro studi con la stessa intensità e con gli stessi risultati che avrebbero potuto ottenere in Italia.

E oggi, sono cambiate le cose oggi?

Come dicevo, proprio ora si sta verificando una nuova fase di immigrazione dall’Italia: puoi trovare ad esempio molti giovani studiosi italiani che lavorano nei dipartimenti di Italiano nelle università inglesi, dove di gran lunga superano gli italianisti ‘indigeni’. D’altra parte questo può ancora essere letto con una prosecuzione di quella tradizione ormai consolidata, che si perpetua perché le risorse sono qui. La British Library resta comunque un punto di riferimento assoluto per gli studiosi di Italiano, che lavorino in Italia o altrove. Mi piace anche pensare che pure io abbia dato il mio piccolo contributo, nel promuovere e rinforzare la presenza di Italiani qui e l’importanza della British Library in Italia.

Stephen, nelle conversazioni che abbiamo avuto in preparazione di questa intervista, tu hai detto qualcosa che mi ha molto colpito: hai detto che nelle biblioteche italiane si lavora più seriamente. Ho capito bene? Puoi chiarire meglio questo giudizio che per me – e sono sicura non solo per me – è quanto meno sorprendente?

Premesso che chi viene da fuori può commettere errori di valutazione; talvolta però, per la stessa ragione, arriva al punto più facilmente di quanto non riescano a fare quelli che sono coinvolti più profondamente. Per venire al punto: io non intendo sottovalutare i gravi problemi che le biblioteche italiane hanno e hanno dovuto affrontare per lunghi anni: problemi di risorse finanziare e di personale, difficoltà ad organizzare un servizio pubblico efficiente, problemi di conservazione etc. Dico però, e in tutta onestà, che, dal confronto che ho costantemente con i bibliotecari italiani da quando lavoro alla British Library, io rimango colpito da quella che, semplificando molto, mi viene di chiamare ‘serietà’. Parlo di una fetta specifica dei miei colleghi italiani, cioè dei bibliotecari che lavorano con le raccolte di libri rari e collezioni speciali. Con questo termine – serietà – io intendo il senso di importanza che loro attribuiscono al proprio ruolo (per esempio negli standard culturali seguiti nell’organizzare delle mostre), l’attenzione per la qualità professionalità del proprio operato (rilevabile ad esempio negli standard di catalogazione – quelli adottati per il libro antico in Italia sono tra i più elevati nel mondo). Questo, tra l’altro, non lo lascerei confinato al mondo delle biblioteche: per quanto io vedo, quel che ho detto fin qui è il riflesso del senso di cultura ‘alta’ che credo sia ancora forte in Italia, dove la necessità di rendere la cultura accessibile a tutti, non necessariamente ha abbassato il livello dei contenuti, né causa la paura di sembrare elitari. Ma questo può sempre accadere…

Ieri (4 dicembre 2014) eravamo entrambi ad ascoltare Roly Keating, il chief executive della British Library, che illustrava allo staff i progetti sul futuro della biblioteca. L’occasione con cui i progetti sono presentati è una sorta di regalo che la biblioteca prepara per sé stessa, per il compimento dei suoi 50 anni, nel non lontano 2023 (il discorso di Keating, poi pubblicato sul sito della Library, oltreché diffuso e discusso dalla BBC e dai giornali, si intitola Living Knowledge: The British Library 2015-2023; quanto alla data ricordiamo che la Library si è resa autonoma dal British Museum nel 1973). Io devo dirti che sono rimasta molto colpita da quanto detto da Mr Keating circa il futuro della British Library; nel suo discorso ho trovato entusiasmo e energia, pure nella manifesta consapevolezza dei tempi ancora difficili. Insomma mi ha colpito che ci fosse una visione, e che fosse una visione chiara e, diciamo pure, entusiasmante. Che impressione ne hai ricevuto tu?

Beh sì, anche io sono rimasto colpito. Il cambiamento – la necessità di tenere il passo col mondo esterno – è inevitabile e comunque grandi cambiamenti ci sono già stati nella politica della British Library dell’ultimo decennio e nell’immagine che la biblioteca sta ora dando di sé. Probabilmente molto di più in questi ultimi dieci anni che nel periodo precedente, anche volendo risalire ai primi anni ’70. Penso che la sfida starà nel saper mantenere alti i tradizionali elementi di grande valore (quali professionalità ed expertise, frutto della profonda conoscenza delle collezioni che i curatori miei predecessori hanno potuto acquisire lavorando all’allestimento dei relativi raffinati cataloghi [non a caso famosi, n.d.t] , e che hanno poi trasferito ad esempio nei cataloghi specializzati) e insieme allargare la comunicazione ad un pubblico sempre più vasto e tenere alto il livello di importanza di questa istituzione anche sugli scenari della contemporaneità.


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L'autore

Alessandra Panzanelli
Alessandra Panzanelli
Ricercatrice presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino (nel settore Bibliografia, Biblioteconomia, Archivistica); Dottore di ricerca in Scienze bibliografiche (Udine 2006) e in Storia (urbana e rurale) (Perugia 2012), si occupa di storia del libro, storia delle biblioteche, storia dell’Università, con attenzione particolare agli aspetti di storia delle idee e della cultura e delle istituzioni culturali per i secoli del lungo Rinascimento (1350-1650). Negli ultimi anni la sua attività di ricerca si è concentrata sulla prima produzione a stampa con focus sui testi giuridici, e si è svolta nell’ambito del progetto 15cBOOKTRADE (ERC 2014-19), basato presso la Università di Oxford e svolto in parnership con la British Library presso cui AP ha costantemente portato avanti i suoi lavori negli anni 2014-18. A lungo ha studiato, e continua a studiare, la biblioteca privata di Prospero Podiani, fondatore della Biblioteca Augusta di Perugia, cui ha dedicato la ricerca del dottorato in Scienze bibliografiche e per cui il Comune di Perugia nel 2016 le ha chiesto una lectio magistralis e affidato la co-curatela della mostra commemorativa nel 4. centenario della morte di Podiani. Bibliotecario e archivista, ha svolto attività professionale soprattutto presso l’Università di Perugia, dove ha partecipato attivamente a una serie di mostre e convegni legati alle celebrazioni del VII centenario e dove ha avviato un progetto di valorizzazione delle collezioni speciali. Membro della Società Scientifica di Scienze Bibliografiche e Biblioteconomiche e di numerose associazioni culturali ha svolto attività di promozione culturale e partecipa regolarmente a convegni nazionali e internazionali.