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Marco Paone intervista María do Cebreiro

María do Cebreiro Rábade Villar (Santiago de Compostela, 1976) è scrittrice e professoressa di Teoria della Letteratura e Letteratura Comparata presso l’Università di Santiago de Compostela. È una delle autrici più apprezzate del panorama letterario galego. La sua traiettoria è lunga e il suo primo libro di poesia risale alla fine degli anni 90, O estadio do espello (Xerais, 1999). Da allora ha pubblicato oltre dieci titoli di poesia, alcuni in collaborazione con altri autori, vincendo vari premi letterari. È presente in varie antologie poetiche e alcune delle sue opere sono state tradotte in varie lingue. A sua volta è antologista e traduttrice (Tres vidas di Gertrude Stein, Galaxia, 2006). È autrice di una prolifica produzione scientifica, uno dei suoi campi d’analisi è propriamente la poesia. Si ricordano i titoli: Manual de Teoría de la Literatura (con Fernado Cabo Aseguinolaza, Editorial Castalia, 2006), As antoloxías de poesía en Galicia e Cataluña (Universidade de Santiago de Compostela, 2004), As terceiras mulleres (Galaxia, 2005), Fogar impronunciable. Poesía e pantasma (Galaxia, 2011), Canon y subversión. La obra narrativa de Rosalía de Castro (con Helena González Fernández, Icaria, 2012). Nel 2011, ha registrato il disco Lembrarás este cuarto? (A Regueifa), insieme al musicista David Miranda.

L’occasione dell’intervista che segue è data dalla pubblicazione del suo ultimo libro, Os inocentes (Galaxia, 2014), che sta ricevendo una buona accoglienza da parte della critica e tra i lettori.

Diamo il benvenuto a María do Cebreiro Rábade. A mo’ d’introduzione, nel suo ultimo libro di poesia intitolato Os inocentes [Gli innocenti] afferma “Trátase dunha guerra, se iso fose fose posible, / intensamente afectada polo sentido da inocencia” [Si tratta di una guerra, se ciò fosse fosse possibile, / intensamente colpita dal senso d’innocenza] e più avanti nella stessa poesia, “Non hai ataque aos outros / que non sexa, en realidade, / un ataque a nós mesmos” [Non esiste attacco agli altri / che non sia, in realtà, / un attacco a noi stessi]. Come legge queste parole dopo l’attentato da poco accaduto a Parigi? Chi sono “gli innocenti”?

Questa poesia nasce dall’annotazione di un frammento del libro di Fleur Jaeggy, Vite congetturali, concretamente dal capitolo dedicato a John Keats. Jaeggy lo descrive dicendo: “Litigare era per lui come bere e mangiare. Cercava la compagnia di ragazze problematiche, brutali, ma siccome lui già mostrava una certa predisposizione verso la poesia, possedevano anche doti burlesche e comiche. La mera brutalità senza commedia, finzione, leggerezza, non gli interessava (…) I suoi compagni per lui prevedevano un futuro marziale impressionante. Quando si tranquillizzava, sprofondava in una gran calma e diventava evidente la sua dolcezza, che aveva la stessa intensità della sua collera”. Mi interessava la citazione (presente nella prima versione del libro [nda. Os inocentes] che non si è concretizzata per problemi d’impaginazione) perché parla della concezione che i bambini hanno della violenza. Io vedevo nei litigi infantili –e chiunque abbia bambini vicino lo può comprovare– più innocenza che perversione e dico questo sapendo che la supposta innocenza dell’infanzia è una costruzione culturale che può avere effetti ingannevoli. Se accostiamo questo contesto alla poesia, come sempre deve fare chi legge, i versi si possono riferire a altre guerre, a guerre nelle quali, a differenza dei giochi e dei tentativi dei bambini di apprendere a relazionarsi tra di loro, possono essere completamente inutili e risultare devastanti. In questo linea si inseriscono i versi che citi in un secondo momento. Attaccando gli altri, sia in un senso fisico che in qualsiasi altro senso, manchiamo di rispetto a noi stessi. Non è un caso che questo libro arrivi dopo A guerra, un libro di poesie scritto a quattro mani con il poeta e giornalista Daniel Salgado. Sento che ci troviamo in tempi di guerra; all’epoca [nda. 2013] entrambi pensavamo che la guerra non sarebbe ancora arrivata, oggi è sempre più evidente che la guerra è già qui.

È curioso che mi domandi per gli eventi del presente, giacché il libro in buona misura parte da una ricerca sulla cultura islamica e sul misticismo sufi. Alcuni critici mi hanno fatto notare il tono spirituale del libro, ma in esso la tradizione culturale dominante – mi riferisco a quella cosciente, a quella che parte dalle letture che svolgevo mente lo scrivevo – era quella arabo-islamica. Credo che ciò si possa vedere bene nella prima poesia, dove si parla di un libro denominato “la lettura”; in effetti, “lettura” è il significato della parola Corano. Oltretutto aggiungerei che se vogliamo essere rispettati, noi stessi dobbiamo apprendere a rispettare. Provare a conoscere a fondo gli altri non è solo una dimostrazione di civiltà, ma soprattutto una maniera sensata per evitare la spirale di violenza che adesso ci assale.

In quanto all’ultima domanda, rispondo con ciò che ha affermato la critica di poesia Margarita García Candeira durante la presentazione del libro: gli innocenti sono quel soggetto collettivo, in un certo senso irrappresentabile e incomprensibile, che prova a prendere la parola nell’ultima poesia del libro.

Le sue ultime creazioni poetiche sembrano marcare una traiettoria alla ricerca del significato di elementi quotidiani e universali dell’essere umano: la plaquette A ferida (insieme a Ismael Ramos), il succitato A guerra (con Daniel Salgado) e, infine, questo viaggio dell’innocenza per le vie del discorso lirico moderno, dell’amore e di questo tempo storico di crisi. Crede realmente, come afferma in un verso, che ancora possiamo trovare consolazione nei libri?

Non vorrei pontificare al rispetto, perché penso che non tutti debbano trovare consolazione nei libri. Infatti, a volte mi danno fastidio certe congetture che si celano dietro la promozione istituzionale o mediatica della lettura. Innanzitutto perché spesso l’incitamento alla lettura sembra partire dal presupposto che la gente non legge, quando probabilmente nel corso della storia mai si è letto così tanto e attraverso così tanti mezzi e formati come oggi. Immagino che sia un modo per invogliare le persone a leggere alcuni libri e non altri, alcune cose e non altre. E penso che oggigiorno sia molto difficile provare a dire alle persone cosa fare o pensare. Ognuno deve trovare la sua consolazione o insegnamento dove gli sembra più opportuno. Come dice il proverbio, esistono tanti cammini verso la saggezza quante stelle nel cielo. Nel mio caso sarebbe strano non scorgere nella letteratura una fonte di consolazione e protezione, visto che i miei genitori sono entrambi scrittori, sono cresciuta circondata dai libri e la letteratura fa parte della loro storia d’amore. Penso che sia per questo che sin da bambina percepivo una chiara continuità tra amore, vita e scrittura, che immagino sia ciò che alla fine in buona parte provo a trasmettere attraverso i miei libri.

Ribaltando l’epilogo del suo libro dove cita un frammento di Hölderlin e l’essenza della poesia di Martin Heidegger, in che misura la poesia può essere efficace e offensiva?

Risponderei alla domanda in modo galego e direi: cosa intendi per efficacia? Penso che in quelle zone in cui una poesia è efficace, lo è pienamente, in un modo nel quale non può esserlo nessun’altra esperienza, nessun’altra pratica, nessun altro discorso. Credo che sia specialmente efficace quando produce una perturbazione, una specie di rifrazione nella percezione delle cose. Non mi riferisco all’idea formalista di straniamento del linguaggio e, sebbene mi interessi molto la relazione tra poesia e linguaggio, con il tempo credo che le mie poesie siano diventate linguisticamente più dirette e cercano vie stranianti partendo da altri tipi di procedimento o di risonanza. Una poesia, come cerco di esprimere in un testo de Os inocentes, rallenta la respirazione, toglie il fiato. In questa capacità di stupire –lo stesso punto, secondo Aristotele, da cui nasce la filosofia– potrebbe risiedere l’utilità della poesia, che come altre forme di utilità –ritornando alla filosofia– è un’utilità dell’inutile. Per sé stessa, e incluso senza volerlo, questa condizione della poesia può risultare apertamente offensiva per coloro che si relazionano tra di loro sulla base di un’idea di calcolo o d’interesse.

In Galizia si continua a scrivere molta poesia e con ottimi risultati. Tuttavia, c’è chi afferma che attualmente si sta producendo un cortocircuito tra produzione e il pubblico lettore di questo genere. Nel suo saggio, Livros que não lê ninguém. Poesia, movimentos sociais e antagonismo político na Galiza (Através Editora, 2014), Isaac Lourido sottolinea, fra altri aspetti, l’aporia della poesia che da un lato ha pochi lettori e dall’altro continua ad essere un genere che mantiene un certo peso in termini di capitale simbolico. Qual è la sua opinione rispetto a questa situazione?

Di fronte a quest’affermazione di Isaac, io invocherei ciò che in realtà è diventato un luogo comune durante gli ultimi venticinque anni: che in Galizia sollevi una pietra e appare un poeta. Questo stereotipo secondo il quale ci siano molti (addirittura troppi, come se fosse possibile che ce ne fossero troppi) poeti in Galizia non è ciò che afferma Isaac, ma la sua osservazione parte da una prevenzione in un certo modo simile. Credo che la generalizzazione sociale di quest’idea sulle supposte aporie, contraddizioni e cortocircuiti della poesia ha una doppia origine. In primo luogo, si tratta di una reazione comprensibile all’indiscutibile egemonia del discorso poetico, fin dai tempi della sua fondazione moderna con Rosalía de Castro. Nonostante la sua debolezza istituzionale, la poesia galega è stata capace, in relativo poco tempo, di offrire grandi nomi alla tradizione letteraria, e non parlo solo dell’ambito nazionale o statale, ma anche dell’ambito europeo e internazionale. Secondariamente, credo che quando si esprimono certe riserve verso la centralità del genere poetico nella letteratura galiziana, implicitamente si sta esplicitando la pretensione secondo la quale la letteratura si confronti con altre tradizioni, considerate come più forti o consolidate, attraverso la pratica di un ventaglio di generi letterari il più amplio possibile. Giustamente nel libro de Isaac Lourido si porta avanti una critica molto convincente rispetto alle conseguenze di questo discorso di normalizzazione culturale, che nel caso galego –lo stiamo osservando adesso, con il processo di critica alle diverse culture della transizione spagnola– è risultato essere anche molto pericoloso. Personalmente, non credo che una tradizione linguistica o letteraria debba essere necessariamente forte in tutti i generi: è più che sufficiente che ciò si verifichi un uno solo. Il fatto che nel nostro passato letterario ci siano nomi della statura di Rosalía de Castro, Manuel Antonio, Álvaro Cunqueiro ou Xosé Luís Méndez Ferrín lo vedo come una immensa fortuna, tanto meno mi sembra un caso che tre dei quattro nomi che ho appena citato sino anche grandi scrittori di prosa.

D’altro canto, gli ultimi dati dell’ultimo informe dell’IGE (Istituto Galego di Statistica) sull’uso del galego, riflette che coloro che usano “sempre” la lingua propria della Galizia rappresentano il 44% del totale, mentre è parlato “a volte” dal 45% della popolazione e “mai”, dal 11%. Cosa ne pensa di questi dati? In questa situazione, come si legge in alcuni versi de Os inocentes, potrebbe essere la poesia “unha mazá de ouro / para o meu idioma sen patria” [una mela d’oro / per il mio idioma senza patria”?

È ovvio che questi dati sul retrocesso negli usi della lingua galiziana siano tutto fuorché incoraggianti. Detto questo, dal punto di vista della creazione poetica, si può trarre vantaggio da qualsiasi situazione di tensione o crisi. Per questa ragione prima dicevo che il discorso di normalizzazione culturale è pericoloso: nella migliore delle ipotesi, noi non dovremmo essere un paese normale, né assomigliare a un paese normale (sempre che esistano paesi normali). Io ho l’orgoglio di scrivere in una lingua senza esercito, in una lingua ferita –un’esperienza, a proposito, molto pasoliniana–. Per me questo non è un problema, ma un motivo di dignità e orgoglio, e immagino che da lì venisse l’allusione alle mele, all’oro, all’assenza di patria.

Qual è il posto di questa lingua nel contesto europeo? E che luogo occupa la letteratura galega contemporanea nella geografia del Vecchio Continente? E la sua poesia che luogo occupa o condivide in questa mappa?

Se come voleva Otero Pedrayo, la stessa Europa nasce a Santiago de Compostela –non tanto nel cammino di Santiago, come spesso si ripete, ma nel coro di voci straniere che condividono spazi, conversazioni e cantigas alla fine del pellegrinaggio-, la relazione tra la poesia galega e quella europea è qualcosa di naturale sin dalle sue origini. La ricchissima tradizione lirica medievale determina l’inizio dorato della letteratura galega e dal Rexurdimento [nda. Termine che indica l’epoca del Risorgimento galego durante il s. XIX] sono stati molti gli scrittori coscienti della necessità che questa vocazione d’apertura e di dialogo con la differenza culturale non svanisse. È anche vero che spesso mi preoccupa l’uso elitista di termini come “cultura europea”, “cultura occidentale” o”cultura universale”, e che forse per questo la mia poesia prova ad approfondire le tradizioni più nascoste, come potrebbe essere per esempio quella islamica, che d’altra parte appartiene, anche se molto spesso non ci piaccia vederlo, al tronco della tradizione culturale europea.

Lei è un’appassionata lettrice e studiosa dell’opera e della figura di Rosalía de Castro. Definirebbe Rosalía de Castro un’autrice assimilabile al movimento romantico? Crede che occupa un ruolo adeguato rispetto al canone e alla storiografia letteraria europea?

C’è stato un lungo dibattito intorno all’ascrizione di Rosalía de Castro al realismo o al romanticismo. Mi sembra un’ossessione in un certo senso superata, ma, siccome mi offri l’opportunità, mi piacerebbe precisare alcune cose. Rosalía appartiene alla generazione degli introduttori di Heine in Spagna, difatti c’è incluso chi ha scritto che è stata la stessa Rosalía a prestare a Bécquer il suo primo libro di Heine. In ogni caso, si nota un maggior giovamento piú da parte di Rosalía che di Bécquer –senza parlare di altri romantici e postromantici spagnoli– della verve del romanticismo tedesco, che è –come sappiamo– un romanticismo del frammento, un romanticismo delle aporie del linguaggio, teorico e riflessivo, e che quando si addentra lungo i solchi dell’emotività, lo fa con la convinzione che gli affetti siano modalità di accesso all’infinito o alla trascendenza soggettiva. Credo che Rosalía abbia sofferto una certa sfortuna storiografica non solo per le ragioni maggiormente evidenti, che senza dubbio sono vere: essendo una poetessa bilingue, è rimasta in qualche modo in una terra di nessuno. Ciò spiega perché nella storiografia letteraria galega quasi non si trovi traccia della sua produzione in castigliano, mentre da parte della storiografia letteraria spagnola è considerata poco meno di una poetessa di provincia. C’è un secondo motivo, su cui spesso non si riflette, che mi sembra fondamentale. Mi riferisco alla debolezza del romanticismo letterario spagnolo, che ha generato un’identificazione critica –a volte deformata, ma con un certo fondamento– della poesia romantica con la poesia retorica, altisonante, effusiva… Ciò che è presente in Rosalía è un’altra cosa. Follas Novas è un’altra cosa. Somiglia molto di più a ciò che i critici della Scuola di Yale, con Paul de Man in testa, avevano provato a comprendere della poesía romantica di lingua inglese. Per questo, nonostante la fase di creazione di Rosalía non coincidesse con quella del romanticismo pieno (intendendo il termine in un senso europeo), credo che sia un errore allontanare Rosalía da questo estuario. Un errore che obbedisce all’idea che il romanticismo è nella letteratura l’impero dell’effusione sentimentale e del kitsch. Tutta la grande poesia meditativa spagnola della modernità ha inizio, e non potrebbe essere diversamente, da un certo tipo di romanticismo. Penso ad esempio a Cernuda, che non per caso ha dedicato alcuni paragrafi ben suggestivi a Rosalía de Castro.

Rispetto alla sua professione di professoressa di Teoria della Letteratura e Letteratura Comparata, in che misura la sua attività da ricercatrice influisce sul suo lavoro artistico e poetico? E in che misura avviene l’opposto?

Non so se posso fare una stima esatta di tutto ciò, perché i processi di scrittura più determinanti sono normalmente impulsivi, se non incoscienti. È vero anche che l’alleanza tra poesia e critica della poesia si è data di frequente in certa tradizione della letteratura europea, che provo a tenere molto presente. Un riferimento brillante di questo legame è Eliot, che insisteva sul fatto che la poesia diventava sempre in qualche modo una critica della propria poesia. Per questo sono abbastanza riluttante a certi pregiudizi rispetto alla produzione artistica, che procedono da una casta del buon-selvaggismo o spontaneismo in cui non credo molto, perché, perlomeno nel mio caso, considero impossibile pretendere di separare nitidamente la pratica della poesia dalla sua teoria. Ogni attività contigua implica l’interiorizzazione di certe posizioni su questa attività e penso che la ricerca nell’ambito letterario rafforzi questo vincolo, ma che questa posizione, che possiamo definire metapoetica, è connaturata alla maggioranza dei poeti. In ogni caso, è possibile che queste riflessioni semplicemente sintetizzino il fatto che la poesia che più mi interessa leggere e che provo a scrivere è la poesia concepita come indagine e come ricerca, tanto sotto l’aspetto del vissuto quanto a livello intellettuale o emotivo.

Come vede il panorama letterario attuale in Galizia? C’è qualche autore che vuole menzionare? Di chi si dovrebbe parlare e perché? C’è qualche libro che negli ultimi tempi le ha causato un’impressione positiva?

Dopo un certo impasse, logico risultato del boom di autori –e soprattutto autrici, giacché è stata una generazione contrassegnata da grandi voci di donne– degli anni 90, attualmente mi sembra che il panorama sia molto florido. Ci sono alcuni giovani poeti interessantissimi, come Fran Cortegoso, Alba Cid o Ismael Ramos, e altri che entrebbero a far parte di questa generazione persa postnovecentesca (Gonzalo Hermo, Olalla Cociña, Dores Tembrás) e che negli ultimi anni stanno ricevendo un meritato riconoscimento. Allo stesso modo alcune poetesse degli anni 90 (Chus Pato, Olga Novo, Yolanda Castaño) continuano a scrivere libri importanti. Nel campo della poesia, che è il territorio sul quale mi sento più autorizzata nel dare un’opinione, penso che non si possa chiedere nient’altro.

Siccome abbiamo iniziato un nuovo anno, quali sono i propositi e le speranze per questo periodo che si prevede molto importante, soprattutto a livello politico? Che epoca si apre per la Galizia?

L’anno scorso sono stati pubblicati due saggi dai quali possiamo apprendere degli insegnamenti fondamentali: quello d’Isaac Lourido sulla poesia, che hai menzionato precedentemente, e Galicia. A sentimental nation di Helena Miguélez Carballeira, che riflette con grande audacia su alcuni dei limiti del nazionalismo galego egemonico. Credo che entrambi permettano di trarre conclusioni importanti per il futuro e, per quanto concerne il passato più recente, aiutino a delineare le carenze delle politiche di pianificazione culturale degli ultimi decenni. Quest’idea secondo la quale la normalità non debba essere l’aspirazione di una cultura periferica, mi sembra che abbia conseguenze importanti, sia sul piano letterario sia su quello politico. Penso che l’incorporazione effettiva della cultura galega alla letteratura globale supponga riconoscere la sua capacità nel generare valori alternativi e di differenza, refrattari all’assimilazione delle strategie delle culture egemoniche.

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L'autore

Marco Paone
Marco Paone
Marco Paone è docente di lingua spagnola e codirettore del Centro di Studi Galeghi presso l’Università degli Studi di Perugia. Nelle sue ricerche si è interessato a questioni di storiografia letteraria, relative ad aspetti di circolazione, migrazione e traduzione nel contesto italiano e iberoamericano. È uno dei fondatori di Umbria Poesia e Ultramarinos (Follas Novas: Santiago de Compostela, 2014) è il titolo della sua prima raccolta di poesie.