L’Italiano fuori d’Italia

Carlo Pulsoni intervista Monica Jansen

Monica Jansen è professore di Letteratura italiana nel Dipartimento di Lingue, Letterature e Comunicazione dell’Università di Utrecht. Si è occupata, tra l’altro, di studi sul (post)modernismo (si ricordi la sua monografia Il Dibattito sul postmoderno in Italia, in bilico tra dialettica e ambiguità, Firenze, Franco Cesati, 2002) e sulla memoria culturale, quale i drammi storici televisivi, le narrazioni delle vittime del terrorismo e del precariato (di quest’anno è il volume Le culture del precariato: pensiero, azione, narrazione, Verona, Ombre corte, curato insieme a Silvia Contarini e Stefania Ricciardi). Dirige “Incontri. Rivista europea di studi italiani”, e condirige “Bollettino ‘900”.

Quanto ha inciso nella scelta di dedicarti alla lingua e alla letteratura italiana il fatto che sei in parte italiana?

Non avevo le idee chiare su cosa volevo studiare: dopo il primo anno d’italiano a Utrecht ero tormentata da dubbi e stavo per cambiare indirizzo scegliendo Storia dell’arte, ma alla fine ha inciso eccome. Dopo aver conseguito un dottorato sul dibattito sul postmoderno in Italia, cui è seguito un postdottorato, sono stata assunta nel dipartimento di studi italiani dell’università di Utrecht.

Qual è la situazione dell’italiano a Utrecht dove lavori e in genere nei Paesi Bassi?

La situazione in questo momento è critica, visto il calo delle iscrizioni in tutte le università dove s’insegna l’italiano (Amsterdam, Leiden e Utrecht). Tanto che con tutti gli italianisti dei Paesi Bassi ci siamo riuniti per analizzare insieme le possibili cause e per riflettere sui possibili rimedi. Da una parte le cause potrebbero essere esteriori e dovute all’immagine dell’Italia all’estero, paese che in Olanda da sempre è visto con una certa diffidenza e in genere non appartiene al bagaglio vacanziero dei giovani studenti. Tra chi decide però di scegliere l’italiano prevalgono l’amore e la passione per la lingua, la cultura e la generosità degli italiani. Dall’altra parte c’è in generale un cambiamento nelle scelte degli studenti che, in aria di crisi, sono sempre più propensi a scegliere indirizzi “utili”. Si è introdotta nelle varie università la possibilità di combinare più discipline, e ultimamente tra le matricole la maggior parte studia più indirizzi. Con questa interdisciplinarietà le università si comportano in diversi modi. C’è chi vuole tutelare l’autonomia e la specificità delle lingue, e investe nella possibilità di un doppio diploma di bachelor in cui si possono combinare due lingue ma anche una lingua con un’altra disciplina (come fa l’università di Utrecht per esempio), e c’è chi invece segue il modello anglosassone con un pacchetto di corsi facoltativi di “Italian Studies” in inglese o in neerlandese che si inseriscono in indirizzi più globali tipo “European Studies”. Con il primo modello si rischia di non attirare abbastanza studenti per i corsi nella specializzazione che vengono offerti in italiano, mentre con il secondo c’è il rischio che l’italiano alla fine si riduca a un percorso minor o comunque a un’offerta ridotta in cui prevalgono i corsi di lingua.

Come si potrebbe porre un rimedio a questa situazione?

Per rimediare si dovrebbe lavorare su più fronti. Per incrementare l’afflusso di nuovi studenti e per consolidare l’importanza dell’italiano ci si dovrebbe impegnare a diffondere la cultura italiana in modo attraente e interessante, organizzando per esempio da un lato eventi per un pubblico generale nelle università e nelle scuole (quest’anno abbiamo allestito un cineforum in coincidenza con il corso sul Neorealismo italiano), e dall’altro promuovendo seminari di ricerca per un pubblico specializzato. Si dovrebbero stimolare anche gli studenti già iscritti a scegliere l’italiano come secondo indirizzo di studi, come minor o come pacchetto di specializzazione. Allo stesso tempo si dovrebbe riformare il programma di studi in modo tale da conservare la propria specificità e da offrire una base linguistica sufficiente ai propri studenti, ma anche in modo da attirare studenti da fuori, inclusi studenti Erasmus o dall’estero. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo sarebbe forse un’idea introdurre nel programma anche un percorso in inglese per un determinato pacchetto di corsi. In Olanda poi il finanziamento delle università dipende dall’output e dunque non si tratta solo di attirare più studenti — senza che diventino troppi, perché tra i paradossi della finanza c’è anche quello della riduzione dei costi del personale docente — ma anche di portarli tutti al traguardo entro i tre anni prestabiliti. Ciò comporta altre misure che riguardano la selezione degli studenti già prima che si iscrivano e un tutoraggio intensivo e continuo durante tutto il percorso di studi. Per migliorare il livello delle competenze linguistiche e accademiche con un programma di corsi sempre più ridotto non solo si stimolano gli studenti ad andare in Italia per sei mesi con l’Erasmus, ma si offrono anche sessioni di feedback linguistico con studenti di madrelingua italiana e si organizzano degli scambi di “peer feedback” sui compiti con studenti di università italiane. Abbiamo appena iniziato uno scambio con l’Università di Trieste in cui gli studenti italiani che seguono l’indirizzo di traduzione verso il neerlandese ricevono i commenti alle loro traduzioni dai nostri studenti, mentre i nostri sono monitorati nelle traduzioni verso l’italiano dagli studenti di Trieste. Una volta ottenuta la laurea breve, l’impegno diventa quello di mantenere gli studenti nei vari indirizzi di master, e anche in questo caso la scelta che essi compiono è fatta in funzione dei possibili sbocchi professionali. La maggior parte di loro sceglie il master di comunicazione interculturale o il master di traduzione. Per incentivare l’offerta di corsi di master in italiano gli studenti possono anche scegliere dei corsi di letteratura, cultura e linguistica italiana dal programma del master interuniversitario “Masterlanguage”, che è aperto a studenti dall’estero.


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