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Massimiliano Marianelli intervista Paolo Benanti

Paolo Benanti è docente di Teologia morale e Bioetica presso l’Università Gregoriana in Roma, dove tiene corsi sul postumano, etica delle tecnologie e neuroetica. Collabora con l’American Journal of Bioethics – Neuroscience, ed è membro dello staff editoriale di STEPS. È autore di numerose pubblicazioni presso editori italiani e internazionali tra le quali: Vivere il morire. Spunti per l’antropologia biomedica (Assisi, Cittadella, 2009), The cyborg: corpo e corporeità nell’epoca del post-umano (Assisi, Cittadella, 2012).

Siamo lieti di poterla incontrare in questa Agorà virtuale per poter parlare di Umanesimo, nuovo umanesimo, o addirittura post umanesimo, diversi modi per tornare a mettere al centro l’uomo o per tentare di cogliere meglio il suo ruolo nell’attuale contesto culturale e sociale. Questo tempo, come ogni tempo, esige un ripensamento dell’uomo nel suo milieu relational, nel suo spazio vitale. In modo inedito però, questo tempo sembra aprirci a sfide nuove che sembrano più che mai mettere in questione lo stesso spazio nel quale l’uomo vive ed opera. Prima di tutto mi pare dunque opportuno tentare di chiarire i termini e, anche considerando il prossimo appuntamento decennale della CEI proprio sul tema del nuovo umanesimo, cercare di capire meglio quale il senso di questa apertura a nuove vie per l’uomo. Cosa intendiamo per Nuovo Umanesimo e quali sfide ci attendono e in che senso non è più sufficiente parlare di un Umanesimo per l’uomo contemporaneo? Sono messi in crisi valori universali o che consideravamo tali?

Guardando all’attuale panorama politico si riscontrano dibattiti e contrasti su numerose questioni legate ai diversi ambiti del vivere sociale: le riforme, il lavoro, la stagnazione economica, immigrazione e così via. Questi problemi sono di solito questioni molto complesse e che sempre meno consentono soluzioni che siano frutto della volontà di una singola nazione o di una singola forza politica. Queste difficoltà nel produrre soluzioni efficaci e durature fanno sollevare da più parti voci che gridano, con toni a volte apocalittici, alla crisi della politica e delle istituzioni democratiche.

Sebbene spesso sia proprio la natura delle problematiche affrontate a decretare l’impossibilità di trovare soluzioni immediati agli odierni problemi del vivere sociale, volendo condurre un’analisi del fenomeno politico dobbiamo riconoscere alcune peculiarità. All’interno di questo burrascoso contesto vi sono almeno quattro grandi temi su cui l’impasse della politica assume una natura diversa e radicale: non si riescono a trovare argomentazioni condivise, soluzioni accettabili e risposte pacificanti.

Un primo tema che produce una paralisi del procedere politico è legato alle questioni inerenti l’inizio della vita umana: questioni come quando si acquisisce lo stato di persona, quanto e in che maniera si possa intervenire tecnologicamente per produrre, modificare o sopprime le nuove vite in quella fase che va dal primo istante della loro esistenza, dopo la fusione dei nuclei dei due gameti fino alla nascita, come regolare la genitorialità ora che le tecniche di riproduzione artificiale sembrano legare la procreazione solo al desiderio e non più alla biologia o al sesso dei genitori.

Guardando alla nostra società sempre più multiculturale e sempre meno caratterizzata da un singolo mainstream culturale la politica si trova di fronte alla incapacità radicale di definire i contorni dell’identità sessuale. Quello che per secoli era dato come un dato acquisito fin dalla nascita ora sempre più si vede svincolato dalla costituzione biologica della persona e lo si vorrebbe trasformare in un costrutto culturale cui associare di volta in volta i diritti che il singolo soggetto pretende o richiede: il problema non è più costruire una società che non discrimini in base al sesso degli individui o in base al loro orientamento ma si vuole far assurgere a diritto invalicabile e inviolabile le proprie autodeterminazioni in materia di gender.

Gli sviluppi del mondo biomedico e la comparsa sul mercato di sostanze che non sono più pensate per curare malattie ma per migliorare e potenziare le facoltà cognitive dell’uomo creano una nuova serie di difficoltà che pongono in scacco la discussione politica. L’idea di poter sempre più creare uomini che sono migliori di altri in forza di farmaci cui fare ricordo rischia di mettere in crisi il principio di uguaglianza che fonda l’idea stessa delle nostre democrazie: la politica non riesce a sanare il conflitto tra il desiderio di autorealizzazione dei singoli, base di una vita libera, e la necessaria uguaglianza tra tutti i membri della collettività. Se lasciamo che qualcuno sia migliore e più performante di altri avremo ancora cittadini uguali o dovremmo distinguere tra persone di serie A, con alcuni diritti specifici, e persone di serie B?

Infine si affaccia sempre con maggiore prepotenza la discussione sul fine vita: la morte è un accadimento che l’uomo deve attendere come inevitabilmente connesso alla sua costituzione antropologica o un diritto da esercitare? Si vuole creare un diritto alla morte, la facoltà di decidere come e quando porre fine all’esistenza umana. A seconda delle tinte che di volta in volta questa richiesta assume ci si trova di fronte a proposte di sancire il diritto per il singolo di una autodeterminazione totale o di consentire alla collettività di riconoscere casi in cui la mera esistenza biologica non si qualifichi più come esistenza umana.

Su questi grandi temi si assiste al susseguirsi di grandi manifestazioni di piazza che non sono direttamente collegabili ad una singola forza politica, si creano accesissimi dibattiti e confronti sugli spazi offerti dai social networks, si producono argomentazioni che hanno il sapore di slogan tra tifoserie più che di riflessioni volte a cercare ciò che è bene e giusto. Se da un lato le grandi questioni politiche, come la decisione sulle riforme dello stato democratico, cioè sulla consistenza e sulla possibilità stessa della democrazia, non attirano cittadini e i dibattiti e raduni organizzati vedono scarsissima partecipazione, questi temi smuovono numeri e parti tali della popolazione che da tempo non si vedevano. Dobbiamo chiederci se l’impasse politica su questi temi sia legata solo ad un problema di governabilità che affligge le nostre istituzioni o se vi sia dietro altro. Infine dobbiamo chiederci perché questi temi generano quelli che sembrano conflitti insanabili.

Quando parliamo di Umanesimo, forse facendo riferimento a una tradizione tipicamente italiana e che in qualche modo ha imposto un ripensamento di categorie filosofiche divenute poi qualificanti l’identità europea, facciamo riferimento a temi quali Dignità e Riconoscimento. Cosa significano oggi questi termini e soprattutto, in un’epoca in cui tutto sembra facilmente raggiungibile e tutto sembra perdere rapidamente di valore, cosa resta e che cosa rappresenta il fondamento di una dignità universalmente riconoscibile e qualificante il genere umano?

Il postumanesimo però capisce se stesso e si descrive soprattutto in relazione e contrasto con quello che viene definito umanesimo: da una prospettiva generata dalla recente filosofia europea, il postumanesimo è visto non come un movimento progressista ma come un fenomeno reazionario, in base al modo con cui si oppone (positivamente) alla nozione di un nucleo che definisca cosa sia l’essenza dell’umanità o a una funzione essenziale comune nei termini della quale l’essere umano può essere definito e capito.

Quello che il movimento postumano contesta in maniera decisa è l’esistenza di un’idea di umano e umanità che sia immutabile. La tecnologia, più che la scienza, ha, agli occhi dei postumanisti, distrutto l’idea di una natura immutabile dell’uomo, rendendo evidente come l’essere umano sia un essere malleabile e capace di essere modificato a piacimento. È questo il punto che cambia la condizione umana in una condizione postumana. La condizione postumana allora è il dover farsi carico di questa malleabilità che i postumanisti riconoscono come costitutiva dell’essere umano e che rappresenta la fine della condizione umana come è stata fin qui capita e conosciuta. L’era postumana, per usare i termini di Robert Pepperell, è iniziata da quando l’uomo ha scoperto di star cambiando se stesso tramite la convergenza tra biologia e tecnologia così da non riuscire più a distinguere tra le due. La soluzione che propone il postumano a questa difficoltà è il superamento della definizione di essere umano a favore di un nuovo ibrido che prende il nome di cyborg che rappresenta la condizione postumana. Il movimento postumano fa del cyborg un concetto chiave nella formulazione della sua antropologia.

Le domande a cui il postumanesimo cerca di rispondere sono molteplici: cosa vuol dire essere umano e cosa essere vivente? Come pensare un’antropologia postumana? Come comprendere la tecnologia? Che rapporto c’è tra l’uomo e la tecnologia? Come vivere la condizione postumana?

Da questi presupposti e di fronte a questi quesiti si genera una sorta di nuova mappa valoriale e inedite istanze etiche. Il dovere dell’uomo di fronte a una esistenza non più governata dal concetto di natura ma dominata dalla malleabilità sarà quello di farsi carico della sua costituzione indirizzando le modifiche del suo essere verso le mete che sceglie di volta in volta. L’imperativo morale, nel postumanesimo, diviene: devi farti carico della tua costituzione biologica modificandola a tuo piacimento.

A partire da questo imperativo etico è possibile riconoscere nuove e inedite mappe valoriali che proviamo a descrivere almeno nei loro nuclei fondamentali. Quello che il postumanesimo intende come frantumato e non più valido, quindi, è un modello di uomo mutuato e definibile con caratteristiche generali: non sono più valide, secondo i postumanisti, definizioni di uomo quali animal rationale o unione di corpo e anima o creatura senziente. La natura non solo non esiste ma in sé non è fonte di alcuna indicazione di valore. Quello che rimane è un soggetto che si configura come postumano perché si presenta come un amalgama, una collezione di componenti eterogenei, un’entità materiale-informativa i cui confini sono sottoposti a una continua costruzione e ricostruzione.

Il nodo problematico che soggiace alle grandi questioni della vita è quindi di tipo valoriale. Il termine valore oggi non ha un significato unico e universalmente accolto. Il recupero del termine e il suo uso è servito a partire dalla prima metà del Novecento a una pluralità di scopi: per rispondere al materialismo positivistico, come forma di rifiuto del richiamo del neohegelismo a una ragione assoluta e a fondare la risposta all’annuncio nietzschiano del trionfo del nichilismo e della svalutazione di tutti i valori tradizionali.

Fu proprio la filosofia dei valori, sviluppatasi a cavallo tra Ottocento e Novecento, che propose l’adozione di una concezione di valore che fosse distinta da ogni senso metafisico: si operò un tentativo di riaffermare la validità di principi etici, politici, religiosi ed estetici indipendentemente dalla metafisica o, meglio, nonostante il rifiuto di ogni metafisica . Quello a cui assistiamo oggi è l’estremo esito, o meglio l’orizzonte fallimentare di questo tentativo.

La crisi del valore dell’umano e dell’uomo è il volto di un’assenza di fondazione del valore: i nostri contemporanei hanno rinunciato a una ricerca di validità oggettiva dei principi etici sganciata dalla metafisica concludendo che la meta non trovata di un’oggettività condivisa si debba tradurre in una non esistenza di questa possibilità. La politica si trova a compiere le sue valutazioni e le sue scelte in questo contesto ambiguo e polivalente dei valori. Sentiamo nel dibattito pubblico argomentazioni che confondono le analogie di significato che il termine valore possiede, confondendo i significati morali, economici e giuridici del termine: basti pensare che nel contesto di crisi economica che sta attraversando l’occidente nei dibattiti pubblici si parla del valore della Apple, società simbolo dello sviluppo occidentale, in termini superiori al valore della Grecia che dell’Occidente è culla e matrice senza mai precisare di che tipo di valore si parli e perché.

Un saggio di Carl Schmitt, La tirannia dei valori, ci aiuta a gettare luce sulle funeste conseguenze in campo giuridico, politico e storico che ha prodotto la comprensione del mondo nell’ottica del valore così come proposto dalla filosofia del Novecento: la principale caratteristica del valore così compreso è infatti quella di testimoniare la scomparsa dell’essere, la riduzione del mondo e dell’esperienza ad oggetto e merce. Assistiamo al paradossale esito di questo processo: la filosofia dei valori, sorta come reazione e risposta alla crisi nichilistica del XIX secolo, finisce con il rendere irraggiungibile e impossibile proprio lo scopo al quale mirava.

L’analisi di Schmitt invera quanto Heidegger scriveva, in maniera forte e provocatoria, nella Lettera sull’«umanismo» nel 1947: «Si tratta piuttosto di capire fondamentalmente che proprio quando si caratterizza qualcosa come “valore”, ciò che è così valutato viene privato della sua dignità. Ciò significa che con la stima di qualcosa come valore, ciò che così è valutato viene ammesso solo come oggetto della stima umana […]. Lo strano sforzo di dimostrare l’oggettività dei valori non sa quello che fa […]. Il pensare per valori, qui e altrove, è la più grande bestemmia che si possa innalzare pensare contro l’essere».

Questo elemento porta una nuova luce sulle questioni riguardanti l’uomo e la vita che bloccano il dibattito politico. Nel confrontarsi con la vita il problema è cosa è che vale, dove risiede il valore e cosa voglia dire umano. La contrazione che questo percorso ha prodotto sul termine valore produce un arbitrio totale nel sui intendimento dando di volta in volta esisti totalmente diversi. Analizzando le quattro grandi questioni del dibattito politico possiamo quindi notare quanto segue:

    • la vita nascente che si oggettivizza e diviene merce può essere trattata la pari di una merce da produrre secondo tecniche il cui valore risiede nell’efficienza più che nella dignità del soggetto cui le si vorrebbe applicare. Analogamente sarà disciplina di contratto e nulla più il luogo della gestazione della persona: non entrano in questa valutazione elementi antropologici ma solo il valore che emerge dalla nuova vita oggetto delle nostre manipolazioni;
    • analogamente per quello che riguarda il potenziamento delle facoltà umane si deve considerare solo la costituzione postumana e malleabile della persona che indica come valore solo la volontà del singolo nel plasmare se stesso abbandonandoci in un continuo orizzonte di ridefinizione dell’umano e dei valori a questo associati privo di qualsivoglia punto di riferimento;
    • per quanto riguarda l’identità sessuale e il gender non vi sarebbero possibilità di comprendere dalla costituzione umana nessuna indicazione etico-normativa, il valore coincide con l’esercizio della volontà del soggetto;
    • infine le questioni del fine vita subiscono lo stesso processo riducendo il valore dell’uomo via via che procede il decadimento biologico legato all’invecchiamento.

Umano e post-umano: cosa intendiamo per post umano e quindi cosa rappresenta la prospettiva del post umanesimo? È la prospettiva di un mondo post umano e quindi che perde i riferimenti attraverso i quali l’umanità per secoli ha codificato cultura e culture?

Per comprendere questa situazione dobbiamo volgere il nostro sguardo indietro: l’impasse che si genera nella vita e nel dibattito politico trova la sua ragione in un profondo mutamento culturale e antropologico avvenuto negli ultimi decenni. Alcuni nostri contemporanei, alla luce delle spinte culturali che animano la nostra contemporaneità, forniscono una inedita elaborazione della condizione umana e declinano nuovi e inediti valori che dovrebbero orientare le scelte e le vite delle persone. Questa inedita antropologia prende il nome di postumanesimo.

Il movimento postumano prende lentamente forma a partire dalla seconda metà del secolo scorso. La Badmington, una delle prime studiose di questa corrente culturale, nonostante sia consapevole dell’impossibilità di fissare una momento preciso per la nascita del postumanesimo, suggerisce di guardare al 1982 come data in cui il movimento si inizia a costituire attorno ad alcune idee chiave . Il motivo di questa scelta è legata ad un articolo pubblicato dal popolare settimanale Time che, all’epoca, suscitò parecchio scalpore nell’opinione pubblica mostrando un mutamento ormai compiutosi nella società occidentale. Nel dedicare la prima copertina di ogni nuova annata alla persona più influente dell’anno appena trascorso, attribuendogli il titolo di Man of the Year, il Time sorprese i suoi lettori. Nel 1983 il settimanale nordamericano, proseguendo una tradizione lunga oltre cinquanta anni, indica così le qualità che contraddistinguono il vincitore del 1982: è giovane, affidabile, silenzioso, pulito e intelligente. È bravo con i numeri e insegnerà o intratterrà i bambini senza un lamento.

Il Time non si riferiva però ad un essere umano ma ad un computer: nell’editoriale che accompagnava la proclamazione del vincitore, Otto Friedrich fa notare che nonostante molti uomini avessero potuto essere eletti a rappresentare il 1982 nessuno era in grado di simbolizzare l’anno appena trascorso come un elaboratore elettronico. In accordo con Badmington e seguendo le lettere di risposta dei lettori che seguirono la scelta del Time ci sembra di poter indicare in questo evento un simbolo di quanto il postumanesimo avrebbe proposto da lì a poco: l’umanità doveva riconoscere la sua sconfitta.

Veniva così sancita l’idea di un uomo in crisi, incapace di saper gestire le macchine che lui stesso aveva creato, destinato ad essere confinato in un passato fatto di residui archeologici. In realtà queste posizioni circolavano tra gli intellettuali già da alcuni anni, nella forma del tramonto di un certo umanesimo.

Il postumano si configura, quindi, attorno all’idea centrale di un’umanità sconfitta dal suo stesso progresso. Le difficoltà e le trasformazioni che ha conosciuto l’Occidente industrializzato nel primo dopoguerra hanno fatto emergere una serie di dubbi sulle capacità dell’uomo di saper gestire la complessità tecnico-sociale che egli stesso andava producendo. Queste riflessioni sono state raccolte ed elaborate dai postumanisti.

Non si deve pensare che il postumano si costituisca unicamente come un insieme di idee e di pensatori di stampo apocalittico refrattari a ogni forma di sviluppo tecnologico. Il postumanesimo si costituisce attorno alla nascente consapevolezza che la visione tradizionale di cosa costituisca un essere umano è soggetta ad una profonda trasformazione. Se Hannah Arendt a metà del Novecento aveva parlato della condizione umana come la somma delle attività e delle capacità dell’uomo che costituiscono caratteristiche essenziali dell’esistenza umana, ora si ritiene necessario parlare di una condizione postumana che non può essere facilmente definita ma che è la condizione dell’esistenza in cui ci troviamo da quando è cominciata l’era postumana.

Il movimento postumano parte dall’assunto che una trasformazione profonda nel vivere dell’uomo è già avvenuta e che il risultato di questa trasformazione genera un cambiamento nel suo modo di essere dando inizio all’era postumana. Da questo punto di vista il movimento postumano, pur nella sua eterogenesi e nella sua diversità, si differenzia dai numerosi altri movimenti futuristici: chi si riconosce appartenente alla corrente postumana non guarda al futuro possibile ma alla realtà presente, riconoscendo che un cambiamento radicale nel modo di essere uomini già c’è stato. Il compito che si attribuiscono gli appartenenti al postumanesimo è, allora, quello di descrivere e analizzare la condizione postumana.

Parlare di postumano implica spesso, nella diversa letteratura, un riferimento ad un altro termine dai contenuti altrettanto vaghi e contrastati: il postmoderno. Attualmente il significato e le accezioni di postmoderno sono molto discordanti tra loro, tuttavia Waters identifica due caratteristiche che fanno da sottofondo al riferimento postmoderno da parte dei postumanisti. Seguendo l’analisi proposta dallo studioso statunitense possiamo riconoscere come parlare di postmoderno all’interno del postumanesimo significa in primo luogo non parlare di un epoca storica che segue la modernità ma riferirsi al lavoro dei sociologi, filosofi e teologi che abbracciano (o sono accusati dai loro critici di abbracciare) l’assunzione storicista che la realtà è un artefatto dell’immaginazione, una costruzione sociale o politica. Inoltre l’uso del termine postmoderno si risolve, nella maggior parte dei casi, in una sorta di abbreviazione per indicare una serie di temi e autori che, in maniera abbastanza condivisa, vengono identificati come base intellettuale del discorso postumano.

In questo spazio, che ruolo ha il Sacro e quale il significato della Religione e delle Religioni?

In primo luogo dobbiamo essere consapevoli che alcune declinazioni della nostra contemporaneità, quali il pensiero postumano, assumono anch’esse il carattere del pensiero religioso. Il postumano è di fatto una sorta di escatologia impropria: l’eschaton ultimo dell’uomo è intraterreno e tecnologicamente realizzato. In parte con forme di pensiero quali quella postumano dobbiamo acquisire consapevolezza che si tratta di forme di pensiero pseudo-religioso.

In secondo luogo, per abitare la complessità di questo tempo e per rendere percepibile e comunicabile il valore della persona, siamo chiamati, da credenti, a compere quanto additato dalla Gaudium et spes al numero 16: «Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale».

Si tratta di compiere cammini politici che siano reale espressione di ricerca della verità e di formazione delle coscienze, credenti e non, nei confronti dei problemi che affiorano nel contesto politico contemporaneo. Questi cammini, alla luce delle traiettorie filosofiche del Novecento, non potranno essere improntati direttamente su una fondazione metafisica: nell’attuale contesto culturale è pressoché impossibile trovare accordo su questo. Si tratta di compiere, credenti e non credenti assieme, un cammino, volendo parafrasare Paul Ricoeur, analogo a quello di Mosè sul monte Nebo. Partendo da un livello fenomenico si dovrà guardare ciò che l’uomo vive o fa, si tratta di compiere una lettura che raccolga i dati del vissuto umano, della cultura, di alcune pratiche o di alcuni stili di vita. È un livello di empiria, se vogliamo è il livello tipico della scienza: una osservazione del “realmente accadente” intorno e nell’uomo. Da questo livello di analisi si dovrà compiere un passaggio a livello fenomenologico: è un livello che interpreta il darsi del fenomenico. Lo scopo dell’indagine fenomenologica sarà spiegare la struttura o l’essenza dell’esperienza vissuta di un fenomeno alla ricerca dell’unità di significato che è l’identificazione dell’essenza di quel fenomeno e la sua accurata descrizione attraverso l’esperienza vissuta ogni giorno. In questo senso la comprensione dell’umano è già un dato un dato fenomenologico trascendentale.

Per Ricoeur il traguardo ontologico finale, di questo percorso, si trova su una linea di orizzonte. Questa linea di orizzonte potrebbe essere mai compiutamente accessibile ad alcuni nostri contemporanei, allora tornando all’immagine biblica di Mosè, dopo aver attraversato il deserto, contempleranno la Terra Promessa dall’alto del Monte Nebo senza avere la possibilità di scendere ed accedere ad essa, e pur tuttavia il percorso fatto sarà comune e indirizzato alla ricerca della verità. In questa modalità apparirà anche la vera costituzione del valore che apparirà all’incrocio del nostro desiderio infinito di essere con le condizioni finite della sua realizzazione.

Potremo così superare questa sorta di implosione valoriale del sistema democratico, significato dalla crisi di partecipazione democratica, che ha come esiti o il diffondersi di movimenti estremisti e radicali o, come sottolinea Benedetto XVI, il diffondersi dell’idea che l’espressione di maggioranza sia un criterio valido per decidere su ogni materia:

in gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento.

Il criterio della maggioranza è sì un criterio fondamentale per l’esercizio democratico del potere, ma non si deve confondere il modo democratico di esercizio del potere con un processo che pretenda di stabilire quale sia la verità, creando o distruggendo i valori, con il solo criterio della maggioranza. Benedetto XVI nel suo discorso al Reichstag del 22 settembre 2011 precisa come la ricerca di ciò che sia giusto sia proprio il senso e il compito delle istituzioni democratiche e come questa ricerca fondi la loro natura. Particolarmente significativo è l’insegnamento autorevole del Pontefice sui modi con cui questa ricerca abbia, fin dalle origini, animato il cristianesimo:

come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a.C. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano (Reichstag).

Il cristianesimo si è mostrato fin dalle origini rivoluzionario: a fronte di un contesto che fondava l’ordinamento giuridico in riferimento alla Divinità il pensiero cristiano ha rimandato alla natura e alla ragione come fonti per riconoscere e conseguentemente fare ciò che è giusto. Il presupposto di questo fondamento è, per i cristiani, una consapevolezza fondante: la natura e la ragione sono fondate nella Ragione creatrice di Dio . Queste considerazioni animano e sostengono la ricerca di senso e valore in questo contesto postumano.


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L'autore

Massimiliano Marianelli
Massimiliano Marianelli
Massimiliano Marianelli insegna Storia della Filosofia presso l'Università degli Studi di Perugia.