Confessioni letterarie

A spasso con il diavolo per le vie di Mosca. Dialogo con Oliviero Diliberto

Oliviero Diliberto è un politico, giurista e docente di Diritto romano. E’ stato ministro di Grazia e Giustizia dal 1998 al 2000 e segretario del Partito dei Comunisti italiani dal 2000 al 2013.

Qual è l’autore o il libro che più ti ha colpito o oserei dire “cambiato” la vita?

Di libri che più mi hanno colpito, nella ormai non breve vita di lettore che ho alle spalle, ve ne sono innumerevoli. Ed anche che hanno, in qualche misura almeno, “cambiato la mia vita”.
Un po’ alla rinfusa: ricordo perfettamente l’impatto selvaggio (positivamente selvaggio…) dell’irruzione nella mia vita di Cent’anni di solitudine e l’innamoramento per i Buendía (ne ricordo ancora, complici riletture continue, interi brani a memoria). Così come ho ancora nettissima la sensazione della “riscoperta” di Conrad non già come autore “marinaro”, bensì come tra i più profondi indagatori dell’animo umano: Cuore di tenebra e La linea d’ombra su tutti.
Borges (pressoché tutto) mi ha rapito, L’accademico Bonnard di Anatole France commosso, il Grande Inquisitore dei Karamazov interrogato ed atterrito. Potrei continuare per lunghe serie.
Le letture si intrecciano con i diversi momenti della vita, gli amori, i percorsi professionali, i viaggi, le conoscenze e le amicizie: interagiscono con tutto ciò che sta fuori dei libri stessi, ma prepotentemente questi ultimi “si fanno sentire”, non ci lasciano soli.
Così, se devo proprio fare una scelta, isolare un libro solo, quello che leggo e rileggo e medito e suggerisco, oso proporre Il Maestro e Margherita di Bulgakov.
Lo lessi in treno, tutto d’un fiato. Direte: in treno? Possibile? E’ così lungo e impegnativo… Possibilissimo. Avevo diciassette anni, appena finita la maturità classica a Cagliari, la mia città di nascita e di formazione, e mi stavo recando – in treno appunto, da Roma – sino a Mosca. Tre giorni e tre notti. Per leggerlo mi ci volle meno. Era il remoto 1974. Ultimo anno nel quale ancora i giovani della federazione giovanile comunista di belle speranze venivano mandati a Mosca per periodi più o meno lunghi: Berlinguer non aveva ancora “rotto” con i sovietici.
Io e qualche altro centinaio di ragazze e ragazzi (in sé esperienza per me allora fantascientifica), ci recavamo a Mosca. Prima di partire, avevo prelevato il volume di Bulgakov, di cui nulla sapevo, dalla biblioteca ben fornita dei miei genitori.
Trattava della Russia: mi bastava. Ma appena iniziato a leggere, fui rapito: parola non esagerata. Il diavolo e i suoi compagni a Mosca nel periodo postrivoluzionario, un romanzo su Pilato che è effettivamente romanzo dentro il romanzo (strepitosa figura, quella del Pilato dolente di Bulgakov): insomma, mi cambiò effettivamente la prospettiva di quei mesi successivi trascorsi nell’Unione Sovietica. Confesso: più che le “meraviglie” del socialismo, cercavo i luoghi bulgakoviani, immaginavo il parco – realmente esistente – ove Woland incontra i due intellettuali che peraltro finiranno malissimo, mi ricreavo situazioni, immagini, sensazioni. Un’esperienza iniziatica. Che dura tuttora.

Come hai accennato, il romanzo si compone di vari piani narrativi, ma fornisce anche profonde trattazioni sul rapporto tra il bene e il male, l’innocenza e la colpa, il vero e il falso. Limitandoci a quest’ultimo aspetto, trovo particolarmente significativo il fatto che gli avvenimenti sconvolgenti narrati nel romanzo siano letti dalle autorità come frutto di un’ipnosi di massa. Le istituzioni si arrogano pertanto il diritto di distinguere ciò che è realmente accaduto da ciò che viene considerato falso. Non si tratta di mera finzione letteraria, dato che, come è noto, cose simili sono intercorse nella storia, producendo volutamente “vulgate” – false – ritenute all’epoca vere. Cosa rende possibile che si verifichi ancora oggi qualcosa di analogo nella società contemporanea, nonostante l’avvento delle nuove tecnologie e la conseguente nascita di canali d’informazione accessibili a tutti?

La manipolazione della realtà da parte dell’autorità politica rispetto al popolo è sempre esistita, anche se in forme di volta in volta tra loro diverse – ed oggi ben più invasive che nel passato. Un esempio celebre: Nerone che attribuisce ai primi cristiani l’incendio di Roma.

Ma la costruzione di una “narrazione collettiva” di un popolo ha trasformato un genocidio di massa, pianificato razionalmente, quale quello dei nativi americani, in “epopea fondativa”: va all’Ovest, ragazzo! Ciò è reso possibile dal controllo dei mezzi di comunicazione, la manipolazione della realtà crea il senso comune, stabilisce le idee dominanti, la gerarchia nel sistema dei valori.
Anche qui Bulgakov – che attinge al Vangelo di Giovanni – pone la domanda chiave: cosa è la Verità?, chiede Pilato a Gesù. Ma Bulgakov stesso ribalta subito la narrazione evangelica: “la verità è che ti fa male la testa”, risponde Gesù. Effetto straniante. Sublime spostamento di attenzione dall’astrazione al concreto. Per poi tornare subito all’astrazione sull’uomo e sulla vita nel successivo dialogo tra i due. Il “romanzo di Pilato” all’interno del libro è, semplicemente, struggente.

La famosa frase di Woland al maestro “I manoscritti non bruciano” è una sorta di inno alla sopravvivenza delle idee contro tutti i roghi reali e letterari di libri. A tuo avviso vale lo stesso principio per quei volumi la cui lettura ha provocato tragedie immani? Penso, a esempio, a I protocolli dei savi di Sion o a Il mito del XX secolo di Rosenberg? 

“I manoscritti non bruciano” è – almeno secondo me – una metafora ancora più potente, nelle intenzioni di Bulgakov. Non è solo (pur importantissima!) l’affermazione del valore della libertà intellettuale rispetto alla censura (e ai roghi dei libri: come ben noto, dove si bruciano i libri, prima o poi si bruciano anche gli uomini…). Secondo me – e qui sta tutta la poesia del Maestro e Margherita – si tratta del capovolgimento continuo di ogni luogo comune, ad iniziare dal diavolo che opera costantemente il bene, per proseguire con un Pilato tormentato e, sostanzialmente, “morale” (l’esatto contrario del Pilato di Anatole France, “Il procuratore della Giudea”, cinico e disincantato, tanto da non ricordare neppure di aver giudicato Gesù), con la codardia intesa come il peggiore dei peccati, il pessimo poeta che rinsavisce dentro al manicomio. Potrei continuare. Ma tutti questi ribaltamenti non esistono – appunto – nella realtà (e la stessa biografia di Bulgakov lo sta a dimostrare): possono accadere nella letteratura, grazie alla fantasia, alla poesia, all’amore.

Quali sono, a tuo avviso, i motivi che permettono di definire Il Maestro e Margherita un classico?

I critici – per circa seicento anni – si sono interrogati sul significato stesso della definizione di classico. Per quanto mi riguarda, penso che le parole più importanti siano quelle di T. S. Eliot (sintetizzo: “la tradizione non si eredita, si conquista. E’ un processo faticoso e doloroso”). Un classico è ciò che resta, ovviamente. Ma nel caso nostro, Il Maestro e Margherita è “classico” proprio perché, tra l’altro, è frutto di una “conquista” (per dirla con Eliot): l’autore rimedita, infatti, e ricostruisce, dopo averla destrutturata, tutta una tradizione precedente (si pensi solo ai racconti evangelici e alla precedente letteratura “diavolesca” cui Bulgakov attinge), ma che vive completamente di vita nuova e del tutto originale nella nuova scrittura.

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