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Giulia Falistocco intervista Christian Uva

Christian Uva insegna Storia del cinema e Tecnologia del cinema e dell’audiovisivo al Dams dell’Università Roma Tre. Fra i suoi titoli più recenti ricordiamo: «Cinema digitale. Teorie e pratiche» (Le Lettere, 2012), «Sergio Leone. Il cinema come favola politica» (Ente dello Spettacolo, 2013) e «L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta» (Mimesis, 2015)

 

 

 

Esiste una definizione per il cinema digitale?

La domanda è molto ampia e impone una premessa. Oggi l’aggettivo digitale non ha più senso così come poteva avercelo dieci anni fa perché il cinema è tout court digitale. Attualmente a fare notizia sono semmai le produzioni cinematografiche che tornano a sfruttare la pellicola (spesso nei suoi formati allargati del 65 e 70 mm) sul fronte della ripresa (si vedano, a livello internazionale, i casi eclatanti di Quentin Tarantino o dei nuovi episodi della saga di Guerre stellari) mettendo in atto un’operazione tecnologica a suo modo vintage.

La nuova tecnologia pervade oggi qualsiasi ambito della filiera di produzione e distribuzione di un film. Qualsiasi opera, non solo viene girata facendo ricorso quasi esclusivamente a dispositivi di ripresa numerici (e ovviamente montata con sistemi digitali), ma, anche nel caso dei documentari, risulta soggetta a diversi tipi di manipolazioni informatiche, a partire dalla color correction (la lavorazione che riguarda i colori e i toni dell’immagine) fino ad arrivare a tutta una serie di effetti visivi. Tutto questo significa che il cinema già da diverso tempo, come ha evidenziato tra i primi Lev Manovich, è diventato una sorta di “sottogenere della pittura”, se non addirittura dell’animazione…

A questo proposito una domanda sull’ultima saga di Guerre stellari, passata alla Disney dopo che Lucas ha venduto i diritti. In questo caso abbiamo due tipologie di effetti visivi applicate a personaggi differenti: il malvagio Snok, in Il risveglio della forza, interpretato tramite la motion capture da Andy Serkis (specializzato in questi ruoli dopo Il Signore degli anelli e Il pianeta delle scimmie) e Tarkin, in Rouge One, “interpretato” grazie alla medesima tecnologia, tramite la performance dell’attore Guy Henry, dallo scomparso Peter Cushing. Cosa ne pensi, è questo il futuro del cinema?

Si tratta di un aspetto centrale rispetto a quanto detto. Infatti, i due casi proposti dimostrano che il cinema oggi è soprattutto cinema d’animazione, o meglio di rianimazione… Ci sono ovunque effetti: nelle creature fantastiche, ma anche nei personaggi e negli ambienti reali ricreati al computer, tramite software che sono gli stessi impiegati per il vero e proprio cinema d’animazione (quello che una volta chiamavamo cartoon). Non ci dimentichiamo infatti che anche i prodotti cinematografici da te prima menzionati sono stati resi possibili, quanto a effetti digitali, grazie ad un software di renderizzazione creato da uno studio d’animazione come la Pixar (il Renderman).

Il caso specifico della motion capture e di Serkis, uno degli interpreti più capaci di usare questa tecnologia, costituisce una sorta di “pietra dello scandalo”. Infatti alcuni studiosi e critici ritengono che questa sia una tecnica d’animazione. Quindi tutto ciò che viene realizzato tramite la mocap rientrerebbe nella sfera della postproduzione, in cui c’è un animatore che manipola quei simulacri digitali rappresentando perciò il vero creatore dei personaggi. Al contrario, c’è chi sostiene che la motion capture sia puramente uno strumento posto al servizio del lavoro attoriale: ridurre tutto all’animazione significherebbe in questo caso togliere spessore alla performance artistica. Ancora oggi la questione è centrale e aperta.

https://www.youtube.com/watch?v=mbW-Zv_kR5Q

(Il video mette a confronto la performance di Serkis prima e dopo l’applicazione degli effetti visivi)

Infatti ricordo la polemica se candidare o meno Andy Serkins agli Oscar per Il signore degli anelli.

Questo dimostra che il tema è spinoso. L’altra questione, ovvero se riportare sullo schermo il generale Tarkin e quindi un attore deceduto da tempo come Peter Cushing, ci conduce di fronte ad una sfera in cui l’estetica sconfina nell’etica.

(A sinistra Peter Cushing in Star Wars. Una nuova speranza, a destra un’immagine da Rogue One, in cui le sembianze dell’attore sono state ricostruite tramite la computer grafica)

Ritengo che dal punto di vista cognitivo il pubblico non le consideri delle vere interpretazioni. Ad esempio prendiamo il caso dell’Oscar a Nikole Kidman per The hours, dove ha dovuto passare ore ed ore dal truccatore per impersonare Virginia Woolf. Invece con il digitale il lavoro è affidato ad un’altra persona. Questo credo venga visto come un disimpegno da parte dell’attore, mentre viene apprezzato di più un lavoro come quello fatto dalla Kidman.

Può darsi, ma se poi osserviamo con attenzione, alla fine l’essenza del lavoro attoriale con la motion capture è una forma di trucco digitale. Tutto quello che fino a qualche anno fa, e in parte ancora oggi, veniva risolto sul piano materiale con il trucco, con protesi ed altro (si veda il caso paradigmatico di Elephant Man), implicando interminabili ore di preparazione, viene oggi sostituito dal digitale. Questo non toglie però che sotto quel trucco digitale non permanga ancora l’anima dell’attore.

Però ritengo che si possa raggiungere un equilibrio nell’utilizzo del digitale, che l’estetica cinematografica si possa adattare alla realtà, più che crearne un’altra ex-novo. Ad esempio la differenza tra la nuova trilogia di Star Wars realizzata da Lucas e quella di Jackson de Il signore degli anelli, in cui l’utilizzo della computer grafica è più armonico. Mentre, invece, Lucas ne abusa come se non capisse più lo strumento.

Da quando mi sono messo a studiare il digitale ho sempre tentato di trovare un punto di vista equilibrato, non partigiano. Di non schierarmi né con gli apocalittici, né con gli integrati. Ritengo quindi che il digitale funzioni nel momento in cui riesce a convivere “pacificamente” con l’analogico, o anche facendosi totalmente da parte se necessario. Ad esempio, rispetto alla stessa performance attoriale, credo che taluni effetti non possano che essere realizzati alla “vecchia maniera”, ossia sul set, nel cosiddetto profilmico. Il fatto che alcuni elementi (costumi, scenografia) siano visibili e percepibili sul set può risultare fondamentale sia per l’attore che per il regista al fine di raggiungere certi risultati: non si può delegare tutto alla postproduzione.

Il tuo ultimo libro Il sistema Pixar (Il Mulino, 2017) analizza uno dei più influenti studi d’animazione del mondo. Secondo te quanto ha influito la Pixar nell’affermazione del digitale? E in seconda battuta, la Pixar prima era una componente della Lucas film e successivamente è stata venduta alla Apple di Steve Jobs. Potrebbe quasi rappresentare un passaggio del testimone tra uno dei più grandi mecenati della New Hollywood, Lucas, e Jobs, ovvero tra Hollywood e la Silicon Valley?

Intanto una precisazione: l’équipe di computer grafica della Lucas film da cui nascerà la Pixar fu acquistata nel 1986 da Jobs quando era fuori dalla Apple, quindi da lui in persona. Poi, nel 2006, la Pixar è stata acquistata dalla Walt Disney. Comunque sono d’accordo: come dici tu, “da Hollywood alla Silicon Valley”. Tanto è vero che la sede della Pixar è orgogliosamente fuori da Hollywood, a Emeryville, in un sobborgo di San Francisco, e si lega più all’atmosfera, al contesto e alla storia culturale della Bay Area che all’industria hollywoodiana. Un fattore che i pixariani hanno sempre voluto rimarcare in termini di eccezionalità, sia rispetto alla Disney che di fronte alle grandi Majors.

Tutto ciò chiama in causa la cosiddetta “ideologia californiana”, quella che forma e nutre la figura di Steve Jobs e tutta l’industria dell’information technology americana (e che comunque ha finito per influire sulla rinascita della stessa Hollywood). È una compresenza di elementi contraddittori: il potere dei processori, un’idea molto hippy della tecnologia, ma allo stesso tempo una forte spinta verso il liberalismo economico, molto più yuppy.

Anche gli stessi film rappresentano molto bene quest’ideologia, da Gli Incredibili, a Inside Out, passando per Wall-e. Insomma quale miglior immagine della pizzeria a San Francisco che vende solo pizza con i broccoli in Inside Out per spiegare l’ideologia californiana.

Una parte sostanziale del “sistema Pixar” è stato nutrito di un’”ideologia”, o meglio di una cultura, che discende da Jobs, ma che in fondo serve per spiegare tutta una serie di fenomeni legati all’immaginario contemporaneo statunitense.

https://www.youtube.com/watch?v=HN8SD3CHRuQ

(Scena tratta dal film Inside Out)

Una curiosità legata proprio a Inside Out. Se infatti nei primi film il digitale, doveva dare un’immagine perfetta, nitida e tridimensionale, in questo film le emozioni, i personaggi principali, hanno un alone sgranato. Io avevo pensato potesse riferirsi a un’auto-parodia sul digitale, oppure a un elemento nostalgico per gli anni Ottanta che ultimamente è imperante: un’estetica che quindi rimandi ai videogiochi di quegli anni.

In realtà, ciò che circonda i personaggi, le emozioni appunto, è una specie di pulviscolo. Ed è questo l’effetto sgranato che le circonda: come un’aura. È interessante in quanto la Pixar è una casa di produzione che dimostra molto bene come nell’epoca della massima riproducibilità tecnica, radicalizzata alla massima potenza proprio dal digitale, si conservi una sorta di aura benjaminiana. Ed è questa loro essenza che consente ai personaggi, agli oggetti e alle invenzioni Pixar di imporsi nella loro singolarità e personalità. Così i film della Pixar, pur essendo prodotti profondamente industriali, riescono nel contempo ad essere opere autoriali. La Pixar infatti resta un marchio dietro al quale sono presenti firme registiche importanti: John Lasseter in primis, ma anche Andrew Stanton, Pete Docter, Brad Bird e tanti altri. Sono loro che assicurano successo al film, che hanno permesso ai registi d’animazione di uscire dall’anonimato, instillando ogni volta nel pubblico un’aspettativa particolare rispetto a ciascuna opera realizzata, come succede per il cinema d’autore. Quando infatti siamo affezionati ad un autore nutriamo precise aspettative all’uscita di ogni suo film, essendo confortati dall’idea di ritrovarci ogni volta di fronte a un peculiare orizzonte narrativo ed estetico. La Pixar è riuscita a fare esattamente la stessa cosa raggiungendo la piena coincidenza tra la dimensione del brand e quella dell’Autore.

Rispetto poi alle emozioni di Inside out, alla loro estetica e ai loro stessi “costumi”, il richiamo va agli anni Cinquanta. C’è quindi questo gusto vintage, presente anche in altri film della Pixar, che le fa assomigliare a certi cartoons degli anni cinquanta (in particolare di carattere didattico). C’è insomma un preciso richiamo al passato, e in particolare a quell’Eden dei Fifties ricorrente in buona parte della filmografia Pixar (soprattutto nelle serie di Toy Story e Cars).

E invece del cinema Imax cosa ne pensi? Sarà come il 3d che dopo un forte boom ora ha avuto una flessione, non rappresentando il grande cambiamento annunciato?

Io, in verità, non sono particolarmente affascinato e interessato da questi fenomeni che, tutto sommato, mi sembrano più vicini ad una dimensione prettamente ludica, da Luna Park… Sono invenzioni che, in altre forme, abbiamo già conosciuto in passato, in altri momenti di crisi in cui il grande schermo veniva attaccato da altri competitor (ieri la televisione, oggi i nuovi media). Di fatto, pur cambiando necessariamente la propria pelle, il cinema è riuscito a sopravvivere fino ad oggi conservando la sua essenza, che è quella più arcaica: uno schermo più o meno grande, una visione bidimensionale e una sala immersa nel buio. Il cinema per chi lo ama rimane in fondo questo. Ciò non toglie poi che intorno a questo “dispositivo” si sia progressivamente aggiunta tutta una serie di altre piattaforme, non sostitutive ma integrative nella loro capacità di “espandere” il concetto stesso di cinema.

Mi sembra di capire che stai citando Netflix e il caso di Cannes.

Certamente, ma anche tanto altro, come ad esempio i dispositivi “non canonici” di produzione e fruizione rappresentati in primis dagli smartphone. Non ho alcun problema a riconoscere che un film possa essere fruito sul telefonino o addirittura girato con quest’ultimo, come dimostra l’interessante pratica artistica di un regista “difficile” quale Pippo Delbono.

Il caso Netflix ha diviso la critica, ma anche “gli addetti ai lavori”. Nolan ad esempio ha fatto delle dichiarazioni, sul caso Cannes, schierandosi contro l’emittente streaming.

Anche nel nostro paese produttori e registi devono invece capire che, messi in atto i dovuti accorgimenti contro la pirateria, lo streaming più o meno contemporaneo alla sala, invece di ucciderlo, salverà il cinema. Rispetto alla possibilità di una fruizione su diverse piattaforme, per quanto possa capire che a molte persone non piaccia, personalmente lo ritengo un’ottima sperimentazione. Tuttavia ci sono mille valutazioni da fare, soprattutto di ordine politico ed economico.

C’è da considerare, inoltre, che se Netflix lo fa, cosa vieta ad altre emittenti come la ABC o la HBO di presentare i loro film agli Oscar, a Cannes o Venezia. La strada dovrebbe essere libera per tutti, riconoscendo che anche in tv ci sono film di pari grado con il cinema.

Certamente. Però la mia idea, per tornare all’inizio di questa conversazione, è la compresenza, la possibilità di mantenere più strade aperte. Il fatto che un film venga rilasciato su una piattaforma digitale nello stesso momento in cui esce in sala non crea nessun problema a quest’ultima. Potrebbe anzi ampliare la platea di biglietti venduti, entrando in concorrenza con la pirateria.

Concordo, anzi penso che le piattaforme streaming abbiano avuto così successo in questi ultimi anni non solo ovviamente per i prodotti eccellenti e per i bassi costi, ma anche perché il pubblico più giovane è abituato a degli schemi di fruizione dati dalla pirateria (vedere un prodotto quando vogliono, vedere una serie tutta insieme, senza pubblicità, senza pause). Quindi forse è il caso di affrontare gli effetti della pirateria non solo da un punto di vista economico, ma ormai proprio di modalità di ricezione.

Ma certo. C’è tutta una serie di questioni che vanno affrontate e risolte prima di poter passare a un certo tipo di valutazioni. Però ritengo che la compresenza web-cinema sia il percorso da compiere. Non vedo altre possibilità. Ad ogni modo, la sala non morirà mai…

 

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L'autore

Giulia Falistocco
Giulia Falistocco
Giulia Falistocco è dottoranda presso l’Università degli studi di Perugia. Si occupa di romanzo storico italiano, con particolare attenzione all’opera di Vincenzo Consolo, Elsa Morante e Tomasi di Lampedusa, e di serialità televisiva. Ha pubblicato articoli usciti in rivista e in volume; ha inoltre partecipato a convegni internazionali. Dal 2016 è redattrice de La Letteratura e noi.