Memorie d'oltreoceano

Sulle orme di Circe. Marco Vitale intervista Barbara Carle

Barbara Carle è nata a Peshawar, in Pakistan, da madre francese e padre americano. Ha vissuto in Nord Africa, in Asia, in Sud America e in Europa. Si è laureata in letteratura italiana alla Columbia University di New York ed è attualmente ordinario di italianistica alla California State University di Sacramento. Ha al suo attivo numerosi lavori di critica letteraria e traduzioni di poeti contemporanei italiani (Rodolfo Di Biasio, Gianfranco Palmery, Domenico Adriano, Tommaso Lisi, Domenico Cipriano e altri) ed è autrice di poesia sia in inglese che in italiano. In Italia ha pubblicato le seguenti raccolte: Don’t Waste My Beauty / Non guastare la mia bellezza (Caramanica 2006), Tangible Remains / Toccare quello che resta (Ghenomena 2009) e, scritta interamente in italiano, Sulle orme di Circe (Ghenomena 2016).

 

Barbara, la nostra conversazione, che si incentrerà sul tuo ultimo volume di poesia appena pubblicato, non può non partire da un referto biografico che è di indubbio interesse. E che vede un nesso comprensivo da un lato del tuo avere radice in due grandi lingue letterarie come il francese e l’inglese, dall’altro della tua scelta per la poesia italiana, e in particolar modo per gli autori maggiori del nostro Novecento fino ad arrivare ai contemporanei. Per prima cosa allora vorrei chiederti come è nata ed è maturata questa scelta. E quali sono gli autori che l’hanno più influenzata. 

Caro Marco, ti ringrazio per la domanda, che mi sembra de rigueur. Potrei citarti scrittori come Nabokov, Beckett, Conrad, Amelia Rosselli e Ungaretti che scrivevano in più di una lingua e che hanno scelto di scrivere in un’altra lingua. I primi tre hanno scelto una lingua diversa da quella materna, mentre la Rosselli e Ungaretti erano trilingue. Si dimentica che Ungaretti (sua figlia me lo diceva) parlava e scriveva non solo in francese e in italiano ma anche in arabo. A volte uno sceglie di scrivere in una lingua che gli sembra più affine, che gli calza meglio. Altre volte se uno è nato tra le lingue perché rinchiudersi in una lingua sola?

Nel mio caso sono sempre cresciuta sentendo lingue diverse anche in casa e quindi la base linguistica mia era, diciamo, flessibile. Ho vissuto in Colombia per quattro anni durante un periodo molto formativo, tra i 6 e gli 11 anni e anche questo ha avuto il suo impatto. Poi ho terminato il liceo a Roma. In Italia sono subito rimasta folgorata dalla lingua soprattutto perché mi sembrava riunire tutto quello che c’era nel francese e nello spagnolo pur aggiungendo del nuovo e provai una specie di “cristallisation” per dirla alla Stendhal. Poi divenni italianista specializzandomi sulla poesia. Si può dire che uno diventa quello che fa…

Tutti gli autori che ho nominato mi hanno influenzata, ma dovrei aggiungere Leopardi, in modo molto profondo e continuo, Valéry, Mallarmé, Baudelaire, Montale, Dante, Edgar Allan Poe, Coleridge, Shakespeare, Gaspara Stampa, e tanti tanti altri. La letteratura è più che una passione per me, è la ragione di vita.

In una premessa al tuo racconto in versi Voices from the Northerner, 1860, pubblicato nel 2014 sul “Journal of Italian Translation” (vol. LX, n. 1-2) con una tua traduzione italiana a fronte che per diversi aspetti è una riscrittura, affermi: “scrivere è tradurre”. E aggiungi più avanti: “è quasi impensabile per me scrivere testi poetici in un’unica lingua. Tale dipendenza interlinguistica è nutrita dal fatto che la mia lingua materna (il francese) non è la prima lingua che ho studiato a scuola. Una formazione diplomatica in una famiglia poliglotta ha radicato più profondamente il bisogno di comporre tra le lingue.” Trovo di molta suggestione questo “comporre tra le lingue” e mi piacerebbe che dicessi qualcosa di più su questo punto.

L’espressione “comporre tra le lingue” deriva dal libro di Jean Charles Vegliante Ungaretti entre les langues, 1987, Presses Sorbonne Nouvelle. Quando si viene educati in varie lingue, si passa continuamente dall’una all’altra senza riflettere quasi, o si paragona una lingua all’altra notando
le qualità uniche di ognuna. Quando si scrive in una lingua, magari si sente la mancanza di quelle parole, di quei giri di sintassi che appartengono all’altra lingua. E quindi ci si autotraduce, cioè si scrive e si riscrive nell’altra lingua. La forma che rinasce nell’altra lingua esalta i diffetti della prima e quindi si riscrive nella prima lingua ma poi ci si accorge che si può cambiare qualcosa nell’altra e scrivere diventa un dialogo tra lingue che si parlano e si completano tra di loro. Ci sono parole che esistono soltanto in una lingua, slick in inglese, rêverie in francese, vezzeggiativo e vezzeggiare (concetto e parola) in italiano…

La tua prima raccolta poetica pubblicata in Italia nel 2006, Don’t Waste My Beauty, usciva con una traduzione italiana tua e di Antonella Anedda, il successivo Tangible Remains reca sul frontespizio questa indicazione: poesie in inglese e in italiano. Tua diviene allora interamente la scelta di cosa far passare da una lingua all’altra, e l’eventuale arbitrio, essendo tuo anche il testo di partenza, è felicemente insindacabile. Il recentissimo Sulle orme di Circe di cui stiamo per occuparci esce invece solo in italiano. Ne esiste anche, o se ne prevede, una versione inglese? 

Sulle orme di Circe è un libro diverso rispetto agli altri perché è nato in italiano. Ci sono alcune versioni inglesi fatte dopo (di alcune sezioni del libro). Ma in questo caso il lavoro sulla lingua è stato assoluto ed esclusivo. Ha subito molte riscritture e un lavoro di lima lungo e approfondito. Forse si tratta di un atto di amore verso la lingua italiana.

Tangible Remains, la tua precedente raccolta edita in Italia, era composta da brevi liriche, limerick, accorte divagazioni, e restituiva un’indagine sul mondo delle cose. Francis Ponge, citato in esergo, ne era certo referente primo. Sulle orme di Circe subisce secondo me una sensibile modificazione dello sguardo. Testo che alterna versi e prosa sposta l’attenzione sul paesaggio, sulla storia, sulla poesia e, last but not least, sull’amicizia. Cominciamo dal paesaggio e dunque da Formia, dicendo subito che le sei lettere che ne compongono il nome aprono le sei sezioni del libro. Perché Formia, nei tuoi viaggi in Italia? E perché tutta quella luce? 

Avendo finito il liceo in Italia e avendoci studiato e lavorato in seguito mi ci sento a casa e ci ritorno sempre. A Formia vive la mia seconda famiglia italiana che mi ha accolto e accudita e guidata e fortemente appoggiata da molti anni ormai. I miei ricordi e le mie radici più felici sono sempre stati vicino al mare: a Barranquilla da piccola, il Pacifico di Coronado vicino a San Diego (dove sono sempre tornata per le vacanze, ma mai vissuta) e il Mediterraneo (Marsiglia è una città della mia famiglia francese). Formia, per me in modo ideale, riunisce queste tre realtà e include quella di Patmos, il capolavoro di Rodolfo Di Biasio e premessa della mia amicizia con lui e con la sua famiglia e la città di Formia. La luce appartiene a tutti quegli splendidi luoghi.

Il paesaggio che selezioni nel tuo libro, e che solo marginalmente sembra toccato dal degrado della post modernità (penso alle automobili che circondano la Fontana romana mutilata delle sue statue e soprattutto dell’acqua, che più non getta, pag. 78-79) si presenta come un quadro di forti prospezioni nella Storia. Mi riferisco alla discesa nel Cisternone romano (prosa e poesia alle pag. 75-77), a Le voci del campanile di Gaeta (pag. 65-66) e a una poesia che trovo di particolare intensità: Vincoli (pag. 11-12). Il testo parla di due tumuli funerari che si guardano a poca distanza, quelli di Cicerone e della figlia Tulliola, quest’ultimo completamente in rovina. Ne cito l’ultima stanza: “Un tumulo di luna sfiorita / guarda verso la tomba vuota. / Tulliola la figlia si rivolge / al padre. Tra di loro tutto / è svanito tranne l’allineamento / perfetto dei vincoli sepolcrali.” In questi versi sembra rivivere la sensibilità dei grandi viaggiatori che nei secoli passati scoprivano l’Italia, ma venendo a tempi più recenti sento un’affinità con un poeta come Herbert, soprattutto per quanto sta al rapporto tra lontananza e esattezza. Ti senti di definire il significato della Storia nella tua poesia? E in essa, legato alla Storia, anche il significato del Mito?

Hai ragione a distinguere la Storia dal Mito. I due convivono sotto il regno di Circe anche se lei tende a trasformare il reale in mito e perciò nel libro si parla solo marginalmente del degrado della post modernità (tanto chi si interessa all’argomento può agevolmente leggere i giornali). La Storia per me, anche quella antica, è sempre molto concreta e visibile e continua ad agire su di noi. Essa è in atto, non un concetto astratto né accademico. Una sua manifestazione è l’architettura monumentale ma anche le sue tracce, vale a dire i resti e le rovine. Nel presente e nel passato noi siamo in grado di riscrivere e trasformare la Storia, nel senso dantesco, e come ha fatto lo storico francese Jules Michelet con la rivoluzione. La nostra realtà è un fenomeno molto complesso dove la Storia agisce sempre senza che noi ce ne rendiamo conto. Credo che sia impossibile pensare senza ricordare storicamente ma che sia ugualmente impossibile scrivere senza immaginare e ricordare e rielaborare il Mito. Per rispondere a una mia domanda (“Che cosa è la realtà per Lei?”) per un’intervista che non fu mai pubblicata Mario Luzi mi scriveva: “La realtà non è un dato, ma una conquista continua. Noi dobbiamo continuamente definire quello che è nostro, reale, e rifiutare ciò che lo era, e non lo è più. È l’azione della poesia, questa, di definire il reale”. Condivido queste parole, anzi mi hanno guidata e confermata nella mia ricerca poetica attraverso la Storia, il Mito e la letteratura. Mario Luzi mi scrisse così nel Natale del 1991.

Sono tanti i nomi dei poeti che tornano in questo libro. Lascio ai lettori, che mi auguro numerosi, il piacere di scoprirli. Vorrei citarne tuttavia almeno uno che figura, forte di tutto il suo enigma, al centro della raccolta. Il poeta che convochi, per una fugace apparizione, è lo straordinario Gianfranco Palmery (1940 – 2013) e i versi che ce lo consegnano sono una variazione sul carpe diem. Poeta ancora in attesa del riconoscimento che in misura troppo modesta gli è toccato in vita, intelligenza letteraria di primissimo ordine, che ruolo ha avuto nel tuo rapporto con l’Italia e con la poesia di questi anni? Tra l’altro di Palmery tu sei stata traduttrice (Garden of Delights, Gradiva 2010), e anche questa è un’esperienza che andrebbe raccontata. 

Si capisce che la pensiamo nello stesso modo per quanto riguarda Gianfranco Palmery e la sua straordinaria opera poetica. Ebbi la fortuna di stringere una forte amicizia letteraria e umana con Gianfranco quando cominciai a tradurre le sue poesie insieme a lui. In effetti era come frequentare un intensissimo atelier di poesia con il maestro, ma ero l’unica alunna. Lavorare con Gianfranco era molto estenuante, rigoroso, ma alla fine si imparava tantissimo e si entrava nel suo laboratorio poetico. Era un grandissimo poeta dotato di molta ironia. Da amico era molto affettuoso e sensibile. Mi manca tuttora. Sono contenta di essere rimasta amica con l’artista Nancy Watkins sua moglie, una persona estremamente raffinata che difende la memoria di Gianfranco nel modo migliore.

A condurti alle acque ipogee del Cisternone, come sui rilievi degli Aurunci a picco su un “mare che sembra inginocchiarsi” (l’immagine è “rubata” a Domenico Adriano) o semplicemente davanti a una macchina del caffè in grado di secernere prodigiose fragranze è Rodolfo Di Biasio. Il suo passo, il suo discreto suggerire, la sua presenza, hanno qualcosa di virgiliano. Notevole e appartata figura di poeta è al centro di un reticolo di affetti, forse il cuore del libro, luogo in cui i differenti piani trovano la loro ragione e il necessario equilibrio. Se sei d’accordo mi avvierei a concludere la nostra conversazione parlando proprio di Rodolfo e di cosa ha significato per te incontrarlo.

Quello che scrivi mi pare molto acuto e giusto nel senso umano e letterario. Non vorrei ripetere ciò che ognuno potrà leggere nel libro, ma Rodolfo è una specie di Virglio per me. Forse non l’unico perché sono stata fortunata in questo senso, ma quello che mi ha accompagnata di più. Mi ha sempre accettata così come sono e mi ha sempre incoraggiata a fare tutto. Il suo esempio mi ha sempre ispirato nel senso migliore (spero). La nostra amicizia è davvero di origine e di spessore letterario e attraverso il tempo ha acquistato dimensioni umane ed affettive. Lui mi ha fatto conoscere anche i poeti del sud come Libero De Libero, Lino Angiuli, Leonardo Mancino, Lucio Zinna ed altri. Quelli che mancano nelle antologie fatte a Bologna e a Milano. Rodolfo Di Biasio è un altro scrittore che meriterebbe più attenzione, anche se è molto stimato negli Stati Uniti.

Questo tuo libro, che a una prima lettura colpisce per la profonda fascinazione che rende per la luce mediterranea, rivela presto tutta l’importanza e il valore della sua struttura. Delle sei sezioni si è fatto cenno sopra, e così pure, fugacemente, dell’alternanza tra versi e prosa. Ma non si è ancora detto nulla del ritmo che così si determina, né delle corrispondenze tra le parti: la loro necessità, il loro (talvolta) ironico fronteggiarsi, le accorte dissonanze. Per fare solo un esempio citerei l’ultima sezione, aperta dalla lettera A (l’ultima della parola Formia) che introduce l’Acqua e che si conclude con la parola terrestre. Ma tanti esempi si potrebbero fare. Ti lascio la parola, per concludere su questo aspetto del tuo lavoro che a me sembra di vero interesse. 

Il cuore di questo libro è dialogico, tra luoghi, monumenti, opere, scrittori e tempi. Vuole esaltare tutto ciò che dà forma alla vita e la rende bella. Si tratta di un libro di amore verso la lingua italiana e l’Italia vista attraverso il modello mitico di Formia, una sua forma di essere.

L’ultima sezione esalta anche l’amicizia senza la quale la vita non andrebbe vissuta. La struttura deriva dai giochi degli oulipiens ed è un’impalcatura che serve a evitare i sentimentalismi e aumentare la dimensione giocosa. Ogni gioco ha la sua forma, ci fa divertire anche se le sue premesse sono serie. Spero che questo mio libro possa valere in questo senso di gioco serio con qualche tocco di magia (derivante dal Mediterraneo) e dai luoghi mitici di Circe. Grazie per le tue belle domande Marco!

 

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L'autore

Marco Vitale
Marco Vitale
Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.

È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.

(foto di Dino Ignani)