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Un amanuense e miniatore della “Commedia” a New York. Simone Casini intervista George Cochrane

L’Inferno dantesco illustrato e scritto a mano da George Cochrane è una grande impresa. Da un lato, sembra ricollegarsi consapevolmente alla tradizione illustre, tre-quattrocentesca, dei manoscritti miniati della Commedia. Dall’altro lato, si confronta inevitabilmente con la grande storia dell’iconografia e della rappresentazione figurativa della Commedia, che nel corso dei secoli ha visto cimentarsi tanti maestri. Il risultato è un raffinato libro d’arte, che un editore esperto come Thornwillow sta pubblicando in copie limitate e diversificate, con interventi a mano dell’artista.

Interview (english)

Chiediamo anzitutto a George Cochrane: come e quando è nata l’idea di Inferno illustrato e manoscritto?

Nel 2014 un mio amico, collezionista di libri d’arte, che seguiva il mio lavoro precedente (Long Time Gone), mi mise in contatto con l’editore Thornwillow Press. L’idea era di collaborare con Thornwillow Press (TWP) per il nuovo capitolo di Long Time Gone, intitolato Hades High (“High” sta per “High School”, cioè scuola media superiore), nel quale Dante compare come personaggio centrale: in quel capitolo, Dante mi guida attraverso i gironi infernali della High School mentre io ripenso al mio passato. Ma il direttore di TWP, già nel primo incontro, guardando al soggetto di Hades High, osservò che l’anno seguente, il 2015, ricorreva il 750° anniversario della nascita del poeta, e mi propose allora di pubblicare per l’occasione un nuovo manoscritto miniato della Commedia. Io accettai subito con entusiasmo, anche se non mi rendevo ben conto, allora, che cosa avevo accettato…

C’è stata – all’origine del progetto –  un’idea figurativa, un’immagine, un nucleo visivo o visionario, da cui si è sviluppato il progetto più ampio? Oppure, qual è stato il primo disegno ispirato dall’Inferno di Dante?

Non esattamente. Quando l’editore mi propose il lavoro, per prima cosa cercai di immaginare che cosa poteva essere un manoscritto miniato moderno, poiché non avevo idea di quale fosse la forma di un libro simile. Dovevo fare anzitutto delle ricerche, in vari ambiti: l’opera e la biografia di Dante, il testo dell’Inferno, la storia dei manoscritti miniati in generale, e la storia delle rappresentazioni artistiche e figurative del poema dantesco. Lessi tutto quello che potevo per crearmi un retroterra di conoscenze e di esperienze, prima di concentrarmi esclusivamente sull’Inferno. Per esempio, mi resi conto subito che dovevo leggere Virgilio prima di arrivare a Dante, e cominciai con le Georgiche e l’Eneide. Poi lessi le prime poesie di Dante, la Vita nuova, il De vulgari eloquentia e parte del Convivio. Solo dopo queste letture mi concentrai sull’Inferno e sulla critica relativa. Nel frattempo, però, procedevo con la scrittura a mano del testo (che mi ha impegnato per più di due anni), e soprattutto l’iconografia dantesca, con cui stavo prendendo familiarità, cominciò a entrare nei miei disegni, nella mia pittura, nei miei artist books, e anche nella scrittura di Hades High. Solo quando la scrittura a mano del testo fu completata, iniziai il lavoro di “miniare” il testo.

L’illustrazione dell’Inferno è un’operazione autonoma e conclusa, oppure rientra in un progetto più ampio che comprende anche Purgatorio e Paradiso?

La mia intenzione è di fare tutte e tre le cantiche. Però l’impresa si è rivelata molto più grande di quanto immaginassi, e sto cercando la strada per realizzare le altre due cantiche. Ho cominciato la scrittura a mano del testo italiano del Purgatorio, ma questa volta sto usando un diverso testo di riferimento. La mia idea è di riprendere il Purgatorio e il Paradiso da due diversi manoscritti antichi, per sottolineare l’instabilità del testo dantesco, dovuta alla mancanza di un autografo. In modo analogo, ho scelto versioni inglesi diverse, da diversi traduttori, per indicare l’impossibilità di averne una definitiva.

Per l’Inferno ho utilizzato il testo critico stabilito da Giorgio Petrocchi, anche se la sua autorevolezza oggi è diminuita rispetto agli anni in cui fu pubblicato (1966-1967). Per il Purgatorio ho scelto di riferirmi invece a un singolo codice antico, il più antico pervenutoci, il Landiano (del 1336). Per quanto ne sappia, non è mai stato trascritto. Il Codice Trivulziano 1080 (del 1337), che invece è stato pubblicato da Antonio Lanza nel 1996, sarà poi, secondo il mio progetto, il testo per il Paradiso.

Ho già cominciato la trascrizione del Purgatorio da un facsimile (ho una delle 175 copie stampate nel 1921, in occasione del 600° anniversario della morte del poeta). Mi piace moltissimo confrontarmi da vicino, ruminando lettera per lettera, con le varianti trovate in un codice che fu scritto solo quindici anni dopo la morte di Dante, e sono affascinato da questa esperienza di leggere un testo molto simile, dal punto di vista grafico, a quello che Dante deve aver scritto, cioè senza i criteri moderni di divisione delle parole e di interpunzione. Vorrei poter dare anche a un lettore italiano una nuova esperienza non solo del poema, ma anche della lingua.

Quando ho capito che ci sono differenze tra le varie edizioni del testo italiano, ho cercato di saperne di più. Le prime ricerche mi hanno condotto al testo stabilito da Petrocchi, in quanto è il più diffuso e generalmente accolto. Mi è sembrato un punto di riferimento sicuro per il progetto. Così l’Inferno segue tale versione.

Ma poi, approfondendo il discorso, sono venuto a conoscenza del grande dibattito intorno al metodo poco chiaro di Petrocchi, al piccolo numero di manoscritti da lui consultati (meno di 30 su 600 esistenti), e ai punti deboli del suo ragionamento. Allora ho cercato di sapere di più sulle nuove discussioni degli studiosi, e di vedere edizioni più recenti (la trascrizione del Trivulziano 1080 pubblicata da Antonio Lanza, la revisione del testo di Petrocchi curata da Giorgio Inglese, e la nuova edizione critica di Federico Sanguineti che si fonda su un differente stemma genealogico dei manoscritti).

A proposito di queste tre versioni, però, il problema del testo “più corretto” rimane irrisolto. Il primato del codice Trivulziano 1080 si fonda sul fatto che risale al 1337 e che fu scritto a Firenze da un copista di alta qualità. Il fatto che Dante non scrisse la Commedia a Firenze implica che il testo di Inferno, Purgatorio e Paradiso dovette “viaggiare” molto dalle città in cui fu composto, favorendo così alterazioni e corruzioni del testo secondo le abitudini linguistiche e culturali di altre regioni. Come ho accennato, intendo usare il facsimile del Trivulziano 1080 per il Paradiso, anche nelle differenze rispetto alla sua trascrizione moderna curata da Lanza. Di fatto, ho dato una “anteprima” dell’uso del Trivulziano 1080 all’inizio del canto III dell’Inferno, nel disegno dell’entrata dell’inferno, dove ho utilizzato appunto il Triv. 1080, mentre nella stessa pagina, quasi a confronto, il testo viene dall’edizione di Petrocchi.

Per quanto riguarda la “correzione” di Giorgio Inglese al testo di Petrocchi, non riesco a cogliere bene le differenze. Invece la versione di Sanguineti si appoggia con fiducia a un nuovo “stemma” che mette al centro il codice Urbinate 378 (della seconda metà del XIV secolo, più tardo dei manoscritti consultati da Petrocchi). Ho seguito con interesse il ragionamento che regge le scelte di Sanguineti (anche nella discussione che ne fa l’ottimo ma molto difficile libro di Paolo Trovato Nuove prospettive sulla tradizione della “Commedia”. Una guida filologico-linguistica al poema dantesco), ma l’appendice al testo di Sanguineti è una bibliografia che offre poche spiegazioni, come le sue note introduttive.

Così, per non finire in acque tanto oscure e agitate, ho deciso di fare quello che era stato fatto da altri prima di me: copiare un testo a mano, errori compresi…

La scelta del “Landiano” per il Purgatorio e del Trivulziano 1080 per il Paradiso deriva da alcuni fattori necessari: quali antichi manoscritti esistono in facsimile (sia il Landianoche il Trivulziano furono pubblicati nel 1921 per celebrare l’anniversario della morte del poeta), e quali sono riconosciuti come i più antichi (perché questo permette al lettore di farsi vicino all’esperienza di lettura del testo dantesco in una forma simile a quella che lo stesso Dante potrebbe aver scritto o letto). Il Landiano è ritenuto il più antico, dal momento che reca scritta la data 1336. Il manoscritto Ashburnham 828 (detto anche “l’Antichissimo”) è forse più antico di due anni, ma ha anche lui i suoi problemi e non è riprodotto in facsimile. Non mi sentivo di puntare su un testo a cui non ho accesso.

Un altro obiettivo di questa scelta di presentare il poema in una forma “originale” è che anche un lettore italiano potrà così avvicinarsi in modo nuovo al testo dantesco, e forse trovare una finestra sulla storia della scrittura della lingua. Leggere un testo nella forma antica richiede probabilmente al lettore una partecipazione più attiva, che è forse ciò che Dante desiderava.

Quando hai letto per la prima volta la Commedia di Dante, e qual è il tuo rapporto con Dante? Che cosa significa, o che cosa ha significato per te?

Ho incontrato per la prima volta la Commedia quando ero a Firenze come studente universitario. Dante non faceva parte del programma di studi, ma per curiosità comprai una copia della Commedia e provai a leggerla. Non andai molto lontano… L’edizione che avevo comprato non aveva note, e senza nessun aiuto il testo era troppo difficile. Così rinunciai. Vent’anni dopo, mentre lavoravo a Long Time Gone, mi capitò di leggere uno studio sul rapporto fra Joyce e Dante, e fui colpito da un giudizio di Joyce, secondo il quale Dante è più grande di Shakespeare. Mi sembrava impossibile: ci può essere qualcuno più grande di Shakespeare? Ogni anglofono, per formazione, è assolutamente convinto che Shakespeare sia il più grande. Era inconcepibile che un madrelingua inglese, come Joyce, potesse dire una cosa così spaventosa! (Anche se sapevo che Joyce, secondo il suo amico Italo Svevo, era capace di parlare e capire TRE forme di italiano: medievale, toscano “corretto”, e dialetto triestino). Allora mi dedicai di nuovo all’opera di Dante. Sapevo di dover cercare un’edizione con un robusto apparato di note. Ero anch’io arrivato al “mezzo di cammin” della vita mia, e allora (con l’aiuto di una buona edizione) il mondo dantesco prendeva senso: pareva che in qualche modo Dante parlasse direttamente a me. Il paesaggio dantesco ed infernale mi parve attuale, vivo e pertinente, non astratto ed intellettuale. Finalmente mi venne l’idea di fare una specie di Inferno traslocato nella scuola media superiore in cui insegnavo, con Dante come guida – come “Virgilio” – per Long Time Gone. Cominciai a studiare la Commedia sul serio. L’opera di Dante ha per me diverse ragioni di interesse: lega insieme la mia passione per la lingua, quella per l’arte, quella per la cultura, quella per la storia umana e italiana.

Una linea fondamentale della tua ricerca figurativa ed espressiva è il collegamento fra i “classici” e la tradizione del graphic novel. Quali erano state le tue precedenti esperienze? In particolare, c’è un rapporto col tuo Long Time Gone, la grande impresa autobiografica e “joyciana” a cui hai lavorato?

Come artista, ho sempre cercato di trovare strade e forme in cui posso mettere “tutto”, tutte le mie idee, tutte le mie esperienze. All’inizio della mia attività artistica ho provato il teatro, poi la musica e la poesia. Ma il risultato è stato fallimentare, meglio non parlarne… Quando finalmente ho incontrato la pittura, mi sono reso conto che quella poteva essere la strada, anche se le mancavano alcuni aspetti creativi a cui tenevo. Incontrai il Graphic Novel come forma espressiva dopo vari anni di attività pittorica e mi colpì il fatto che quella forma può contenere il “tutto” che cercavo: letteratura, poesia, musica, scenografia, disegni, pittura, e una narrazione complessa. Certo, la pittura ha spesso cercato di superare l’inevitabile singolarità dell’immagine e della temporalità figurativa in molti modi – si pensi per esempio alle immagini medievali in cui uno stesso personaggio compare simultaneamente in più luoghi. Forse, la soluzione più efficace è quella di certi cicli di affreschi, che funzionano come il Graphic Novel.

Sono cresciuto leggendo Tintin, e ho incontrato la forma del Graphic Novel tempo dopo, alle scuole superiori. Lessi allora libri suggestivi come Watchmen, The Dark Knight Returns e Batman: Year One. Molti anni dopo, mentre seguivo la ricerca di uno studente universitario sui comic books, fui colpito dall’idea di farne uno anch’io.

Da artista, so bene che il momento felice dell’ispirazione (“eureka!”) è molto sfuggente e ingannevole, e che il vero lavoro consiste in gran parte nel passare da una cosa alla cosa successiva seguendo un ritmo meccanico e quotidiano. Ma stavolta era diverso. Come in una sorta di illuminazione, stava tutto lì, davanti a me. Vidi la cosa nella sua interezza, già chiara e completa: dovevo fare un nuovo Graphic Novel ricavandola direttamente dalle mie esperienze, come ripetendo una vecchia storia. In questo modo, fra l’altro, non dovevo preoccuparmi troppo di inventare un plot.

Per colmare il baratro che si stava formando tra il mio lavoro e la mia vita in famiglia, decisi in qualche modo di collaborare con la mia figlia maggiore, Fiamma, che allora aveva cinque anni e mezzo. Le idee vennero una dopo l’altra: avrei utilizzato i 24 libri dell’Odissea di Omero come modello strutturale per le 24 ore del giorno (raccontate in 24 capitoli della durata di un’ora ciascuno), sviluppando così l’Ulysses di Joyce – una replica dello stesso schema narrativo nell’arco di una giornata, come Dublino nel 1904. Doveva esserci corrispondenza tra libri ed episodi, ma per il resto avrei disegnato in piena autonomia. Prendendo in prestito da altri testi classici costruiti su capitoli, o scene, o canti, ho ampliato il campo. Il Capitolo Primo (“L’uccello mangia il verme”) contiene riferimenti al Genesi, ad Amleto, a Moby Dick, e all’Inferno (e non solo: anche alla storia del primo fumetto americano, e alla musica di Bob Dylan, di Charlie Parker e di Lester Young).

La cosa all’inizio sembrava assurda: io non leggevo fumetti o Graphic Novels, e anni prima mi ero detto che scrivere non era per me: la mia scrittura a mano era illeggibile, e la mia tecnica artistica era interamente fondata sulla pittura, senza quasi disegni, se non come studi per la pittura.

Così, per qualche tempo, mi trovai “smarrito” in una mia “selva oscura” creativa, quando all’improvviso apparve una forma, aperta e plastica. Diversamente dalle altre forme artistiche, il Graphic Novel ha una storia recente: i primi libri illustrati senza parole sono comparsi negli anni Dieci del Novecento (Franz Masereel, Lynd Ward, Otto Nückel), e la forma ha preso un nome solo negli anni Settanta con Contract with God di Will Eisner. Naturalmente, esistevano già molti modi in cui parole e immagini sono legate insieme per raccontare una storia: dai geroglifici Maya a quelli Egizi, dai manoscritti miniati medievali ai cicli di affreschi, e via dicendo. Per prendere confidenza con la tecnica, cominciai la mia ricerca partendo dalle origini del fumetto Americano (1900-1930) e piano piano ho lavorato a mio modo attraverso l’“età d’oro” del fumetto, che inizia con la E. C. Comics tra la fine degli anni Quaranta e la metà dei Cinquanta, fino ai Supereroi degli anni Sessanta e oltre, fino al Graphic Novel. Contemporaneamente ho cominciato a studiare l’arte della scrittura, imitando molti differenti stili, già nei primi capitoli, per creare una molteplicità di voci. Alla fine, l’occhio e la mano si sono imbattuti in uno stile che deve molto al lavoro di Frank Engli in Terry e i pirati (1934-1946) e a quello di Ben Oda in Mad, in Frontline Combat, in Two-Fisted Tales di E. C. Comics. Sono stati questi i modelli di scrittura che ho usato per Inferno nelle edizioni TWP: un carattere che sottolinea le analogie tra i manoscritti trecenteschi e il fumetto.

Infine, ho trovato la forma adatta per fare quello che da sempre volevo fare: qualcosa che mi permettesse di riversare in un’opera tutto ciò di cui avevo fatto esperienza e che mi interessava. In certo senso, incontrare Joyce o Dante è stato per me come aprire una finestra sull’intera tradizione storica dell’umanità. Ho come il bisogno di leggere quello che essi hanno letto o ascoltato, e scoprire le connessioni che si stabiliscono attraverso i secoli e le culture, e che arrivano direttamente a me attraverso le esperienze della mia vita.

Stati Uniti e New York, Italia e Firenze. Quali sono stati i luoghi della tua vita, e in che modo hanno influenzato il tuo percorso?

Viaggiare ha cambiato la traiettoria della mia vita, e i luoghi hanno una forte risonanza in me. Sono cresciuto nella piccolissima città di Dublino, nel New Hampshire, e ho cominciato a viaggiare appena ho potuto. Ho fatto presto delle esperienze di viaggio molto formative: durante le vacanze scolastiche ho girato in macchina per l’America con un mio amico. Poi, prima di iniziare l’università, ho girato l’Europa un anno senza alcun piano (alla fine in Italia e a Firenze). Durante il college ho lavorato, studiato, e vissuto a Venezia, Firenze e Madrid per più di un anno. La mia prima esperienza di viaggio sulle strade d’America, molto prima dei cellulari e del GPS, mi aveva dato il senso della varietà infinita della vita. Dentro di me e davanti a me si apriva quella meravigliosa sensazione della possibilità che è propria della giovinezza, e l’unica cosa che desideravo era sperimentarla ancora, fare ancora più esperienze. Dopo gli anni di scuola, la prospettiva del college non mi attirava affatto, e prendermi un anno all’estero poteva arricchire quel sentimento.Venne il momento di frequentare l’università. Pur non avendo attitudine per le lingue (a scuola mi avevano detto che non ero portato per le lingue moderne e che avrei dovuto concentrarmi sul latino), decisi di partire, senza un’idea precisa di che cosa avrei fatto una volta in Europa. In quell’anno ho vissuto per lunghi periodi a Oxford e Northampton in Inghilterra, a Sterling in Scozia, a Parigi, ad Amsterdam, a Berlino e a Firenze. Mi arrangiavo in qualche modo, facendo l’autostop, fermandomi in ostelli per la gioventù, trovando ospitalità grazie alla gentilezza di tanti amici e di tante persone straniere. A Oxford ho fatto il lavapiatti e fingevo di essere uno studente, seguendo corsi su Keats – non si prendevano le firme di presenza! Ho lavorato come ragazzo alla pari e dando lezioni di inglese a Parigi, e poi ho studiato pittura a Firenze. Quando ho dovuto partire, ero comunque deciso a tornare per dedicare più tempo possibile durante gli anni del college.

Ho avuto poi la grande fortuna di poter vivere a Venezia lavorando come interno alla Peggy Guggenheim Collection per quattro mesi, prima dell’inizio del corso universitario a Firenze. Sebbene avessi studiato italiano nei primi due anni, quando arrivai mi sentivo perso. Fortunatamente, feci subito amicizia con una ragazza che non parlava inglese (e io non parlavo il suo spagnolo), per cui dovevo parlare italiano. Venezia, non c’è bisogno di dirlo, è un posto magico, e sono profondamente grato per aver avuto la possibilità di starci abbastanza a lungo per conoscerla da dentro. Fermarsi a vedere Tintoretto in una chiesa che è sul tuo percorso mentre vai a lavorare è una felicità indicibile. Non posso sentire il dialetto veneziano senza gioire.

Firenze, naturalmente, è il luogo dove ho molto “inventato” me stesso: non c’è niente, nelle mie ascendenze scozzesi e britanniche o nel mio retroterra “New England”, che possa spiegare un’affinità, anzi un bisogno, di cercare di entrare nella cultura italiana attraverso la sua arte, la sua lingua, la sua poesia. Eppure, in qualche modo, avevo bisogno di costruire questo altro me stesso, capace di parlare italiano e interessarsi a tutto ciò che è italiano, e mi sono sforzato di avvicinarmi alle più grandi opere dell’arte e della poesia con quella “seconda vista” che poteva venire solo da una simile applicazione. Inoltre, poiché secondo gli “esperti di lingue” della mia scuola non avrei mai potuto parlare un’altra lingua, era una mia sfida personale.

Creando un nuovo “Inferno” ho realizzato il mio desiderio di rapportarmi ai livelli artistici più profondi, più stimolanti e più entusiasmanti.

Raccontaci ora come si è svolto il tuo lavoro sull’Inferno di Dante. Come hai proceduto? C’è stata una pianificazione? E dal punto di vista tecnico, quali scelte hai fatto?

Il lavoro riguardava tre aspetti distinti e si è svolto in tre fasi: prima di tutto il testo italiano, poi la traduzione inglese, e infine il disegno artistico sulle pagine. Ciascun manoscritto (italiano e inglese) mi ha impegnato circa un anno (e molto tempo ancora per la revisione e la stampa) e poi ho fatto le illustrazioni in sei settimane per l’intero libro, lavorando con scadenze ben precise. Prima di cominciare, ho fatto varie prove sull’impaginato del testo in rapporto allo spazio vuoto sulla pagina, che doveva essere abbastanza ampio per poterci disegnare. Ho provato vari tipi di carta e di penna. Dovevo essere in grado di scrivere ovunque mi trovassi, affinché il progetto potesse andare avanti, e quindi le Comic Boards (pannelli di carta Bristol), disponibili ovunque, e una penna stilografica Pelikan sono state la soluzione ideale. Prima di poter scrivere il testo, ho dovuto disegnare le linee guida per matita, usando cioè uno strumento comune per i fumetti.

Sin dall’inizio, il progetto è stato pensato in tre parti distinte, da assemblare in fase di stampa. Quando ho finito i testi, l’editore Thornwillow Press ha preparato dei fogli con i testi stampati, contornati da margini bianchi nelle proporzioni che avevo stabilito, nel formato più grande possibile. Ho realizzato la parte artistica su questi modelli, in inchiostro India, con la penna e un pennello.

Quali modelli figurativi hai tenuto presente? Per esempio, alcuni disegni sembrano richiamare la tradizione dei manoscritti miniati: quali hai potuto consultare? E fra i grandi illustratori della Commedia, quali preferisci e quali hai tenuto presenti nel tuo lavoro?

Siccome il compito che mi ero proposto mi spaventava un po’, ho cercato di confrontarmi con tutti gli artisti che nei secoli hanno interagito con l’opera dantesca. Impresa impossibile, lo so bene, ma questo era il mio desiderio e il mio modus operandi.

Dal Novecento, sono state realizzate molte riproduzioni in facsimile di manoscritti miniati con opere di Dante, integrali o parziali. Su Internet ho conosciuto Giovanni Scorcioni, di “Facsimile Finder”, che mi ha aiutato e orientato nella costruzione della mia collezione. Grazie a lui, ho acquistato copie del ms. Poggiali 313, dell’Estense, del Codice Filippino, e della copia colorata a mano da Antonio Grifo dell’edizione Landino (1491). Insieme al Codex Altonensis, al Trivulziano 1080 e al Landiano, sono questi alcuni dei miei testi manoscritti di riferimento. Inoltre, ho studiato molti dei maggiori artisti che hanno rappresentato il mondo di Dante: Botticelli, Michelangelo, Federico Zuccari, Francesco Scaramuzza, Giovanni Stradano (Jan van der Straet), Gustave Doré, Joseph Koch, William Blake, John Flaxman, e ancora artisti meno conosciuti come Manfredo Manfredini, Ebba Holm e Antonio Zatta.

Ho una profonda ammirazione per l’incredibile lavoro di Botticelli sull’intera Commedia, per i suoi Dante e Beatrice, Gerione, e la sua interpretazione figurativa delle “bolge”. Credo che i disegni del mondo dantesco di Botticelli (e quelli di Doré) abbiano fissato, per molti, ciò che Dante deve aver visto. Anche se mi sono sforzato di sottrarmi a queste influenze, inevitabilmente sia Botticelli che Doré hanno orientato la mia visione. Michelangelo non ha lasciato materiale dantesco sufficiente per fondare su di lui la mia ricerca, ma ero deciso a lavorare sul suo Minosse nel Giudizio universale della Cappella Sistina (si dice che, come Botticelli, Michelangelo abbia illustrato tutta la Commedia, ma il suo lavoro è andato perduto in un naufragio!).

Un mio obiettivo fondamentale e costante è stato la fedeltà al testo (anche se ho fatto certamente qualche errore). Zuccari e Scaramuzza si sono tenuti molto stretti alla lettera del testo dantesco (diversamente da Blake o da Robert Rauschenberg). Io ho mescolato tutte queste fonti e tutte queste suggestioni fino a quando “andava”. Per esempio, Doré rappresenta i simoniaci nel Canto XIX in fori sul pavimento, correttamente, ma poi disegna il fuoco come se venisse fuori da sotto terra con colonne di fumo. Invece, Dante afferma: “Fuor de la bocca a ciascun soperchiava / d’un peccator li piedi, e de le gambe / infino al grosso, e l’altro dentro stava, / le piante erano a tutti accese intrambe”. Perciò nella mia versione, ho preso in prestito da Doré le aperture a forma di fonte battesimale, ma il fuoco è solo sui piedi.

La copia miniata a mano e colorata di Antonio Grifo (probabilmente un dono di nozze per Galeazzo Sanseverino e Bianca Sforza, figlia del Moro) mi ha affascinato e mi ha ispirato in molti modi. Nelle mie pagine ho ripreso molte delle sue figure deliziosamente vestite, e il suo Pluto che siede dentro una grotta a forma di conchiglia, su uno sgabello a suo modo decorato, davanti a sacchi di monete (col simbolo del fiorino, un riferimento scherzoso a un celebre personaggio dei fumetti, Scrooge McDuck, cioè Zio Paperone, e ai suoi sacchi col simbolo del dollaro). Avrei voluto inoltre valorizzare il lavoro di alcuni artisti dimenticati come Manfredini, le cui incisioni colgono la vastità del paesaggio infernale. Ho preso qualcosa dai suoi panorami vertiginosi per l’arrivo di Gerione (raffigurato alla maniera di Botticelli) e per altre scene. Nel corso di questa ricerca visiva e figurativa, ho incontrato opere affascinanti che mi erano completamente sconosciute, e che non fanno parte del ‘canone’ artistico. Per esempio, nel 1901 a Firenze ci fu una esposizione con 31 artisti del tempo che interpretavano il poema (tra i quali il più conosciuto è forse Giovanni Fattori), in vari locali della “Società fiorentina delle Belle Arti”. In queste collezioni (pubblicate nel 1902 in splendidi volumi dai Fratelli Alinari), le pitture di Ernesto Bellandi e di Giovanni Buffa hanno lasciato un’impronta nei miei disegni.

La trascrizione a mano del testo – italiano e inglese a fronte – è stata probabilmente un’impresa molto faticosa, che però ha ripetuto e “rivissuto” l’esperienza degli scriptores dei codici del tempo di Dante. Come è nata l’idea? E quale “font” hai utilizzato o elaborato? Più che un tipo di carattere della tradizione, sembra infatti una scrittura del moderno fumetto.

Copiare a mano l’intero Inferno, in inglese e in italiano, è stata un’idea dell’editore. All’inizio ho provato vari caratteri, compresa una versione dei caratteri “Roman” che avevo elaborato per Long Time Gone, nella sezione “La Villa di Adriano” del capitolo 5, dal titolo “Lost in Lotusland”. Alla fine ho capito che lo stile “antico” nella grafica dei caratteri era anacronistico, e perciò rischiava di apparire kitsch. Quando l’editore alla Thornwillow Press vide le lettere che usavo per i fumetti, decidemmo di usare quel font. È uno stile che deve molto a disegnatori di fumetti come Frank Engli e Ben Oda.

L’esperienza di ricreare dei manoscritti è stata veramente particolare. Ogni giorno, per più di due anni, mi sono svegliato pensando a come avrei realizzato quel giorno la pagina da fare (in media, 42 righe per pagina richiedono un’ora e dieci minuti per la scrittura di caratteri). Con i fogli per i fumetti, la guida per le lettere, il testo, e la penna “Fountain”, ero completamente libero di muovermi, e ovunque potevo procedere nella scrittura: stazioni ferroviarie (ma non treni in movimento!), biblioteche, la tavola di cucina, il fienile di mio padre, il mio studio (anche durante le vacanze estive, dai miei suoceri, dovevo naturalmente andare avanti – così cominciavo a lavorare nello studio di mio suocero alle cinque del mattino). In questo senso, non c’era un limite materiale a condizionare il lavoro, potevo svolgerlo ovunque con lo stesso livello di qualità. Ma mi resi conto subito che la mano non poteva fare più di quattro pagine al giorno (circa un canto). Inoltre, facevo meno errori se lavoravo la mattina sul presto.

Certo, ho letto di monaci amanuensi che copiavano manoscritti tutto il giorno, e con risultati di alta qualità. Si dice che, interrompendo il lavoro ogni ora, alzandosi, cantando (o altre simili attività) e poi tornando al lavoro, erano sempre freschi e mai stanchi (è infatti la stanchezza che induce gli errori). Ma ho letto anche che veniva commesso almeno un errore per pagina, anche dai migliori copisti. Per esperienza, posso dire che questo è verissimo!

Non posso certo parlare dell’esperienza di lettura degli altri, ma speravo che disegnando le lettere con una specie di precisione moderna, il lettore potesse sentire sentito meglio l’esperienza contemporanea della lettura di Dante, rendendo la grafia del testo più “irregolare” e quindi, spero, più avvicinabile.

Il testo dantesco è meraviglioso, potente, pieno di suggestioni, e permette di immaginare le singole scene in modi molto diversi. Ogni situazione narrativa del viaggio di Dante e di Virgilio permette soluzioni figurative molto differenti fra loro. Facciamo qualche esempio?

L’inizio del terzo canto con la porta dell’Inferno mi ha posto una serie di problemi, e ripercorrere il metodo di lavoro che ho seguito può dare ragione delle forme che ho utilizzato e un’idea del processo artistico. Dante dà solo una scarna descrizione della forma dell’entrata, e questo ha permesso agli artisti e ai commentatori di immaginarla in una gran varietà di modi durante i secoli: come una stretta apertura in una parete rocciosa, come una porta delle mura di una città, o come un arco di trionfo. Ho scelto quest’ultimo per le sue grandi suggestioni poetiche.

L’iscrizione sulla porta ha una forma grafica differente rispetto a quella del testo moderno, come figura nel Codice Trivulziano 1080 (come ho già detto, uno dei più antichi manoscritti, risalente al 1337), che è probabilmente più vicino alla forma originale di Dante. Ciò ribadisce ancora una volta il dibattito critico sulla difficoltà di focalizzare la forma testuale “corretta” del poema.

I singoli elementi sull’entrata sono ripresi da fonti diverse. Nel disegno a gessetto nero e rosso di Federico Zuccari (1585-1588), un arco trionfale include dei teschi cornuti sulla volta. Il Codex Altonensis 2 Aa 5/7 (1350-1400), un manoscritto trecentesco con miniature, lo correda di un pipistrello e di un gufo (animali cui al tempo di Dante si attribuivano qualità diverse, più orrifiche: il “saggio” gufo per esempio era considerato un sinistro e silenzioso latore di morte). L’incisione che apre l’edizione Landino (Venezia 1491) presenta, sull’entrata dell’inferno, un grifone con la coda arricciata e un motivo di bastoni. Nella versione di Jack Kirby, del 1972, un personaggio comico, un Demone, è seduto fra i teschi che cingono l’arco e prefigura le creature infernali che Dante incontrerà poi nel racconto. La celebre incisione di Gustave Doré, che rappresenta l’entrata in fondo a una discesa, aggiunge sullo sfondo il profilo di un paesaggio.

Uno dei primi commentatori di Dante e suo contemporaneo, l’“Ottimo”, nel suo commento del 1334, meditando sull’entrata agli inferi osserva che “stretta è la via che conduce alla vita e larga è la via che conduce alla morte” (citando Agostino che riprende Matteo, 7, 13-14): “seconda cosa è da sapere, che l’Autore pone in questo principio l’entrata allo ’nferno essere per una porta senza serrame, a dinotare, che l’entrata de’ vizij è aperta e larga, però che quinci entrano li fanciulli, li garzoni, e grande parte della etade umana, e molta della umana generazione. Onde dice Santo Agostino: stretta è la via che mena a vita, e per opposito larga è quella che mena a morte…”. Questo concetto è invertito nel mio disegno: una stretta via, anche se trionfale, conduce al vasto mondo infernale. Ho voluto sottolineare infatti la natura astratta e concettuale della Porta dantesca collocandola isolata in un paesaggio desertico, in qualche modo surreale, togliendole così la funzione di separare due spazi. È importante il fatto che tutti vi passano, a indicare con un sottile gioco di parole il trionfo della morte.

Un problema che ho incontrato, sempre nel terzo canto, è quando Dante incontra gli “ignavi” e vede una “insegna” volante: “E io, che riguardai, vidi una ’nsegna/ che girando correva tanto ratta,/ che d’ogne posa mi parea indegna” (III, 52-54). Anche se Dante non dice che l’insegna è portata da qualcuno, in tutte le illustrazioni che ho visto c’è una figura o un demone che la tiene alta. Qui ho sentito la necessità di correggere la tradizione, e ho evidenziato, nel mio disegno, il fatto che la bandiera vola per sua natura.

Anzitutto, puoi dirci quanto ha contato per te la suggestione delle parole italiane, e quanto ha contato l’aspetto narrativo del racconto dantesco?

In generale, ho cercato di “raccontare le cose come sono”, orientando cioè le illustrazione secondo il racconto di Dante, ma l’ho fatto dal punto di vista del personaggio di Dante. Mi ero dato come regola – e ho sempre cercato di rispettarla – di disegnare soltanto ciò che Dante poteva vedere, e non ciò che l’autore (o il lettore) sa. Per esempio, all’inizio del canto IV (“Vero è che ’n su la proda mi trovai / de la valle d’abisso dolorosa / che ’ntrono accoglie d’infiniti guai”), Dante anticipa ciò che ancora non può vedere attraverso il buio profondo e nebbioso, e cioè l’origine dei lamenti. Così, diversamente da molti illustratori che ho visto, non ho rappresentato figure di dannati, per dare al lettore l’“esperienza” della “cecità” di Dante. Ma come accade sempre alle regole, ho dovuto infrangere la mia in qualche caso, mostrando cose che il personaggio Dante non poteva aver visto. Per esempio, ho rappresentato Paolo e Francesca mentre leggono (nel canto V) e ho disegnato la figura del “gran veglio” (nel canto XIV), prendendo a modello in questo caso una scultura cretese di un vecchio, che si trova al Metropolitan Museum di New York.

Il mio italiano non è approfondito abbastanza per cogliere certe sfumature e certe variazioni linguistiche della Commedia, ma dove i commentatori sono costretti a fermarsi per approfondire una difficoltà del testo, ho cercato comunque di arrivare a una comprensione persuasiva in modo da compiere una scelta sul piano artistico (per esempio, “…nazion sarà tra feltro e feltro”, nel canto I, o la Porta degli Inferi nel III). Nella raffigurazione di Gerione, come dirò poi, sono arrivato a una mia idea.

In altri casi, ho dovuto fermarmi di fronte a certi dubbi. Per esempio, nella descrizione di Cerbero al canto VI, Dante non fa menzione alcuna della sua coda, mentre Virgilio nell’Eneide lo descrive con serpenti intorno al collo: “cui vates, horrere videns iam colla colubris, melles oportam et medicatis frugibus offam obicit” (6, vv. 419-21). L’artista inglese John Flaxman pensò che Dante per la sua scena prendesse a modello quella di Virgilio (con la Sibilla che getta nelle fauci del mostro a tre teste un boccone drogato invece di terra) e disegnò il suo Cerbero con serpenti alla coda, come appare in Virgilio, ma non in Dante. Seguendo l’esempio di Flaxman, ho disegnato gli stessi elementi.

La “selva oscura” del canto I, la “porta” d’ingresso del canto III, la “selva dei suicidi” al canto XIII, l’“alto burrato” di Gerione ai canti XVI-XVII, le Malebolge (canto XX-ss) la ghiaccia dei canti XXXI-XXXIII, e infine la visione delle “stelle” alla fine del viaggio infernale… Le tue visioni dei paesaggi infernali sono molto forti, e spesso contengono citazioni nascoste. Puoi dirci qualcosa su come li hai immaginati, o su quali versi danteschi o quali parole dantesche ti hanno ispirato?

Ho accennato a questo parlando di come ho “costruito” la Porta dell’Inferno, e come ho pensato l’insegna del canto III, ma naturalmente si possono fare molti altri esempi.

In alcuni casi, i canti rendono possibili molte allusioni e citazioni, che vengono spontaneamente. La “selva dei suicidi” è un buon esempio. La scena, che si distende su due pagine, riprende come “citazioni” le foglie da Botticelli e gli alberi da Scaramuzza, da Zuccari, da G. B. Galizzi. La pagina seguente continua con altri alberi sul modello di Scaramuzza e di Doré, e poi con l’episodio di Lano da Siena e Iacopo da Sant’Andrea, che ho “rubato” a Luigi Markò (ma con un disegno nella maniera dell’artista di comics Reed Crandall), e un albero e funghi da Manfredini. Galizzi, Markò e Manfredini sono artisti meno conosciuti, che ho incontrato nel corso delle mie ricerche, e le cui “visioni” ho trovato molto stimolanti e fresche. Infatti, come ho detto sopra, Manfredini coglie la vastità opprimente del paesaggio infernale come nessun altro, e da lui ho preso liberamente in prestito le ampie vedute del mondo sotterraneo, come pure l’“alto burrato” in cui incontriamo Gerione.

Come modello per immaginare la sua coda e la sua figura complessiva di creatura alata, ho guardato a Botticelli. Comunque mi sono assunto la responsabilità e molte libertà nella sua rappresentazione, che potrebbe essere anche il risultato di un mio fraintendimento del testo di Dante: “Nel vano tutta sua coda guizzava / torcendo in sù la venenosa forca / ch’ a guisa di scorpion la punta armava”. La maggior parte degli illustratori dipinge la coda con un’estremità a pinza biforcuta, che corrisponde all’espressione “venenosa forca”, ma io ho fatto una scelta diversa. Cercando su internet immagini della coda dello scorpione, ho capito che la forma tipica della coda di scorpione non è forcuta, ma si arriccia su se stessa con un singolo pungiglione – “la punta”, come scrive Dante.

Dunque, come sta la cosa? Forse Dante ha sbagliato la descrizione dell’animale? Come poteva la coda al tempo stesso essere “forcuta” e “armare la punta” (non “le punte”)? Avevo sbagliato io la mia ricerca su internet? Com’è possibile che tanti artisti avessero fatto tutti lo stesso “errore”? Come succede spesso con Dante, non emerge una risposta sicura, e il dubbio rimane. Perciò, a proposito della “venenosa forca”, ho scelto di affrontare il problema da un punto di vista metaforico, non letterale. La coda serve allo scorpione per due (forcuti…) scopi: uno è quello di proteggersi dal nemico, e l’altro è quello di portare i suoi piccoli con cura paterna. Gerione è come uno scorpione, nel mondo di Dante: per un verso, egli è un micidiale mostro cui solo Virgilio, all’inizio, può avvicinarsi; per l’altro, è come un padre per Dante e Virgilio quando scendono ai gironi più profondi dell’Inferno cavalcando sani e salvi sulla sua groppa. In questo caso, insomma, sono andato contro Botticelli e quasi contro ogni altro artista tra quelli da me visti, e gli ho dato la coda di uno scorpione, con un solo pungiglione.

Hai fatto riferimento alle “stelle”, alla fine della cantica. Quell’ultima immagine si riconnette alla prima, perché entrambe condividono lo stesso profilo dei monti, per suggerire così la circolarità e le profonde simmetrie che strutturano la Commedia nel complesso. Alcuni celebri artisti hanno legato la loro identità figurativa a una montagna: mi vengono subito in mente il Mount St. Victoire di Cezanne, o il monte Katahdin di Marsden Hartley. Io sono cresciuto a Dublino nel New Hampshire, all’ombra del Mount Monadnock (la seconda montagna più percorsa al mondo, si dice), l’unica montagna della regione. In quel disegno, ho rifatto il suo familiare profilo. Quando Dante e Virgilio riemergono finalmente a “riveder le stelle”, guardano il paesaggio purgatoriale, prefigurando il viaggio della seconda cantica. Qui, ho nascosto un piccolo “scherzo”: in distanza, si intravede la torre della cattedrale di San Romolo, sui colli di Fiesole. Quando da studente ho vissuto a Firenze, abitavo sotto la collina di Fiesole, e così, di nuovo, ho inserito un legame personale nel paesaggio dantesco. Lo scherzo consiste nel fatto che Dante ha espresso un giudizio severo sui “fiesolani”, e immagino che vedere la città collocata nel regno purgatoriale gli sembrerebbe una scelta appropriata.

Dal punto di vista iconografico, le tue figure di Dante e Virgilio sono piuttosto tradizionali (l’abbigliamento, l’alloro e la toga per Virgilio ecc.). In Dante, in particolare, hai sottolineato le espressioni e le reazioni di fronte ai vari spettacoli infernali.

Come dici, ho certamente ripreso gli stereotipi figurativi di Virgilio e di Dante, evitando peraltro improprietà e anacronismi come mettere una corona d’ulivo sulla testa di Dante, cosa che hanno fatto Doré e altri: il personaggio Dante non era certo così lodato dai suoi contemporanei al tempo dell’Inferno (doveva ancora fare gran parte del suo viaggio, compresa la scrittura del poema!). Virgilio invece li indossa perché per Dante egli è un poeta riconosciuto e di prima grandezza.

Sotto molti punti di vista, Dante è il lettore. Per questo ho cercato di dargli la maggior varietà possibile di emozioni e di espressioni: sorpresa, ammirazione, paura, orgoglio, rabbia, debolezza, gioia, compassione, arroganza, tristezza – tutto. Il linguaggio visivo dei fumetti è utile proprio perché apre un mondo di possibilità espressive.

Nella raffigurazione dei demoni e dei mostri infernali, a quali modelli figurativi ti sei ispirato? Mi sembra che qui la scelta di richiamarsi al comic book sia particolarmente efficace.

Grazie! La storia dell’iconografia demonica è piena di sfrenate fantasie artistiche, e io per il mio lavoro ho guardato a certe particolari direzioni. Hai ragione a vedere qui l’influenza del comic book, soprattutto nella frequente ripresa da parte mia di Demon di Jack Kirby (1972). I mostri dei canti XXI-XXII riprendono altre invenzioni di Kirby, tratte dalle sue opere e dai suoi fumetti di mostri degli anni Cinquanta, insieme a molti ricavati da lavori più antichi, dalle opere di Scaramuzza, Flaxman, Bartolomeo Pinelli e Franz Stassen.

Nel canto XXVII, quando incontriamo corpi smembrati, ho fatto riferimento ad alcuni classici del fumetto horror americano, Tales from the Crypt, Vault of Horror e Haunt of Fear, pubblicati negli anni Cinquanta da E. C. Comics, con i disegni di grandi artisti come Graham Ingles, Johnny Craig e Reed Crandall.

Personalmente, sono rimasto colpito molto dai tuoi paesaggi infernali; e anche moltissime tue rappresentazioni figurative: per esempio Caronte, Ciacco di spalle (VI canto), i “cherci” coi loro massi (VII canto), la visione della Città di Dite (VIII), l’affacciarsi di Cavalcante (X canto), i centauri (XII), e molte ancora. Quale immagine ti ha dato più problemi immaginativi e figurativi?

Le “sfide” sono state molte, ma forse la più difficile è quella del canto XXV, in cui l’anima dannata passa dalla forma umana a quella di serpente, e poi di nuovo in quella umana, in un processo senza fine di trasformazioni. Qui, senza poter utilizzare gli stacchi fra vignette come nel fumetto, ho dovuto affidarmi soltanto al movimento degli occhi del lettore sulla pagina, da sinistra a destra, per esprimere la sequenza.

Ho cercato di creare un ritmo generale unitario attraverso l’opera, che potesse legare tutto, dalle illustrazioni dettagliate a tutta pagina, alle pagine con disegni solo sui bordi. Allo stesso modo, buona parte del contenuto narrativo dell’Inferno riguarda le conversazioni tra Virgilio e Dante, e mi sono appoggiato all’esperienza del fumetto per la rappresentazione di questa particolare “ripetizione” visiva.

Wallace Wood, uno dei più grandi artisti comic d’America, è stato fonte costante per l’ispirazione e per la tecnica del visual storytelling. Negli ultimi anni della sua vita, un suo assistente ha raccolto 24 sue vignette sotto il titolo umoristico Wally Wood’s 22 Panels That Always Work, or some interesting ways to get some variety into those boring panels where some dumbwriter has a bunch of lame characters sitting aroung talking for page after page! [“22 vignette di Wally Wood che funzionano sempre, ovvero: modi interessanti per portare un po’ di varietà in queste noiose vignette in cui uno stupido scrittore ha messo un sacco di personaggi zoppi che se ne stanno seduti a parlare per pagine e pagine”]. È una serie che comprende idee visive davvero stimolanti per rappresentare figurativamente una discussione tra personaggi. Ovviamente, Dante non è affatto uno “stupido scrittore”, ma spesso mi sono trovato nella necessità di variare i dialoghi tra i due personaggi. Le intuizioni di Wood sono state un punto di riferimento costante nel mio lavoro, e possono spiegare molte delle mie scelte compositive.

Per quanto riguarda le immagini che hai citato, i “cherci” (canto VII) sono ‘prelevati’ direttamente dalle xilografie di Ebba Holm, del 1929, e dalle miniature di Antonio Grifo, del 1491. La “Città di Dite” è una contaminazione fra l’immagine di un castello in Prince Valiant di Hal Foster (un comic americano della fine degli anni Trenta) e il profilo della “città” in Flaxman. I centauri riprendono qualcosa da Ernesto Bellandi e da Scaramuzza.

Per quanto riguarda l’episodio con Cavalcante, nel canto X, mi sono chiesto come dovevano essere queste tombe, e il commento di Charles Singleton (sul passo dantesco “sì come ad Arli”) mi ha suggerito di guardare alle forme del cimitero di Aliscamps ad Arles. Diversamente dalle tombe che si aprono sul terreno di Dorè, quelle di Arles si elevano sopra, e ho ripreso liberamente le loro forme e i loro motivi.

La traduzione inglese di Antony Esolen, che – se non sbaglio – è stata pubblicata per la prima volta nel 2003, è molto bella (fedeltà al testo, scansione parallela del verso inglese con quello italiano, uso di un linguaggio chiaro e moderno ma nobile e sostenuto). Quali sono state però le considerazioni che vi hanno indotto a scegliere la traduzione di Esolen, rispetto ad altre, pure autorevoli, diffuse nel mondo anglosassone (da Longfellow a Bergin a Singleton a Mandelbaum ecc.)?

Il testo inglese è stato scelto seguendo alcune precise indicazioni poste dall’editore: doveva essere una traduzione recente, di autore vivente, che avesse completato le tre cantiche – insomma una vera e propria edizione contemporanea. Poche traduzioni risultano conformi a questi parametri, e quella di Esolen era particolarmente interessante perché nasce da una solida cultura e al tempo stesso è ricco di una fraseologia contemporanea.

La mia traduzione preferita è quella di Singleton, per la sua attenzione alla lingua e per la sua accuratezza storica, e anche perché non cerca di imitare lo schema della terza rima dantesca, ma procede per blocchi di testo in prosa (alle traduzioni inglesi manca la forza sintetica dell’italiano di Dante, e risultano perciò di versi più lunghi e irregolari – un aspetto di cui dovevo tener conto nel disegnare le pagine). Purtroppo Singleton è morto qualche anno fa.

L’editore Thornwillow Press ha assunto con spirito di vero mecenatismo un’impresa artistica e culturale di valore. Come ha influenzato e promosso il tuo lavoro?

Certo, non credo che per conto mio mi sarebbe venuta in mente l’idea di una simile impresa. Perciò sono grato a Thornwillow Press per avermi proposto tale grande opportunità. Sinceramente, nessuno di noi due all’inizio sapeva che cosa ne sarebbe nato. L’idea iniziale dell’editore era che io facessi da tre a cinque illustrazioni a tutta pagina al cui interno collocare il testo manoscritto. Ma dopo aver visto certi codici miniati, come l’Estense che ha disegni su ogni pagina, ho capito che anch’io dovevo fare lo stesso. Così le cinque pagine di illustrazioni sono cresciute a 230. L’editore mi ha appoggiato, in questa espansione del lavoro artistico, e io ero ormai deciso a trovare il modo di realizzarlo.

Il programma editoriale di TWP è realizzare nuove edizioni di opere letterarie importanti, antiche e moderne, al più alto livello di qualità nella confezione del libro a mano. Così, una rivisitazione di Dante per TWP non è un fatto sorprendente, mentre lo è il fatto di realizzarla con un artista che proviene dai comics.

Sono previste stampe del tuo Inferno molto diversificate, nella rilegatura e nella rifinitura a colore. Anche da questo punto di vista, l’impresa ricorda molto quella degli antichi codici miniati, ognuno dei quali era diverso dagli altri. Puoi descriverci le varie scelte, ed eventualmente i diversi destinatari?

TWP ha pubblicato cinque differenti versioni del libro, stampate dalle stesse lastre tipografiche in acrilico, che imitano idealmente modelli originali: i manoscritti italiani e inglesi, e i disegni a inchiostro. La prima tiratura ha una rilegatura in cui, sulla copertina, è raffigurata una versione circolare della mia Mappa dell’Inferno, stampata tipograficamente su carta rossa pesante. Il secondo gruppo è su cartonato in stoffa, con la mappa su tutte e due le facce, e il terzo è rilegato in pelle – per metà o interamente – con disegni differenti sulla coperta, per esempio la testa di Dante, di Virgilio, o di Cerbero stampate in oro. Ci sono poi le copie a tiratura singola, in pelle con inserti di pietre colorate su carte diverse. Usando l’acquerello e inchiostri colorati, ho colorato a mano alcune sezioni di varie pagine delle copie in pelle, e in alcune ho disegnato a inchiostro un’immagine originale della “selva oscura” sulla pagina a metà piastrella. Le copie per metà o interamente in pelle, come pure i libri ‘unici’, sono già stati tutti venduti. Molti vanno a collezionisti privati e a biblioteche universitarie come quelle di Harvard, della Columbia, e del Vassar College. In questo momento, sono disponibili presso TWP soltanto le copie in stoffa e quelle in carta involucro.

Ora che l’Inferno è concluso e stampato, il progetto sta prendendo un’altra direzione ancora. Ho un certo numero di copie non rilegate del libro, stampate su una carta diversa e più pesante. In questi fogli, sto preparando copie uniche, integralmente colorate a mano con acquerello fatto a mano, che ho fatto cioè con pigmenti anticamente disponibili al tempo di Dante (spesso acquistati da Zecchi, a Firenze, per aggiungere un elemento di bellezza e di autenticità). Tutto ciò elimina dalla mia tavolozza un gran numero di bellissimi colori moderni, tra cui il blu cobalto e i gialli e i rossi cadmio. Addirittura vorrei usare soltanto il finissimo lapislazuli (il cosiddetto “blu Frate Angelico”) per la veste della Vergine Maria, per i caratteri dei titoli, e per pochi altri luoghi ben precisi. Inoltre verrà applicato oro vero dove occorre, come per il tesoro di Pluto, per le aureole e per le corone.

Idealmente, mi piacerebbe che il colore di queste copie, proprio perché uniche e fatte a mano, possa confrontarsi con i manoscritti miniati del tempo di Dante. La colorazione manuale e l’aggiunta di ulteriori disegni – come nell’incunabolo decorato da Antonio Grifo (1491) che ho spesso consultato – era un modo abituale di aggiungere valore e interesse alle edizioni a stampa in bianco e nero, e ne sono giunti fino a noi diversi esempi. C’è anche un aspetto personale, in questo ritorno sul mio stesso lavoro. Come se riflettessi su me stesso, il colore mi permette di chiudere il cerchio: a quello che ho disegnato, ormai definitivo e stampato sulla pagina, rispondo ora col colore.

Davvero, l’edizione riproduce la mia scrittura amanuense e il mio lavoro artistico, ma non come facsimile, quanto piuttosto come una versione trasformata.

Il tratto della mia penna subisce una leggera modificazione passando per il “vectoring”, un programma per il design process che converte caratteri e disegni in forme da cui viene poi ricavata una superficie tipografica a rilievo. Tutto ciò ha conseguenze sulla forma finale, in quanto molte delle mie linee più sottili vanno perdute durante questo procedimento (per esempio, il turbine che trascina le anime dei dannati nel canto V è stato disegnato accumulando tanti finissimi tratti di penna, i quali però sulla lastra tipografica risultano molti meno e più spezzati). Quando disegnavo, sapevo benissimo che questo sarebbe avvenuto, e non sono affatto deluso per questa alterazione della stampa. Al contrario, è stata funzionale al mio lavoro attuale col colore.

Certo, si impone adesso una questione che prima non avevo considerato abbastanza: quale colore devono avere le cose?  In qualche caso è il testo stesso a dare una risposta, come per gli occhi rossi di Caronte, ma altrove dobbiamo affidarci a ipotesi e congetture. Che colore avranno gli abiti della Vergine Maria? La Bibbia non ce lo dice, ma durante i secoli ella è stata dipinta col pigmento più prezioso, il lapislazuli, per indicare il suo posto supremo nella gerarchia cattolica. E santa Lucia? Rosso. E Beatrice? e Mosè? e  Cristo? Da risorto, è stato sempre dipinto di bianco. E Omero? Quando è possibile, cerco sempre una risposta nella storia, e quando le indicazioni della storia sono insufficienti, guardo alle principali interpretazioni coloristiche di altri artisti.

In questo momento, sto cercando di collocare queste copie singole presso cultori entusiasti di Dante, collezionisti privati o istituzioni. La biblioteca dell’Università di Miami pochi giorni fa ha acquistato una delle copie singole non rilegate e miniate interamente a mano, e ho un gran desiderio di conoscere chi, come me, è appassionato alle illustrazioni della Commedia.

È possibile in futuro anche una versione commerciale, che possa arrivare a un pubblico più ampio delle edizioni d’arte TWP a tiratura limitata, e sto anzi cercando un editore potenzialmente interessato a questa operazione. Vediamo.

Secondo la tua esperienza di lettore, di artista, e di docente universitario, che cosa significa Dante oggi? In particolare, quale interesse ha nella cultura americana contemporanea? In che modi viene conosciuto nelle scuole americane?

Anche se ho studiato molto Dante e la sua opera, non credo di poter dire molto sulla diffusione di Dante nella cultura americana nel suo insieme. Posso parlare della mia esperienza, del fatto cioè che a scuola Dante non mi è mai stato proposto, a nessun livello di studi. Certo, al college c’erano dei corsi di studi danteschi, ma io semplicemente non ne seguii nessuno. L’Inferno viene letto pressoché in tutte le università (più raramente alle scuole superiori), ma non credo che le altre due cantiche ricevano molta attenzione. Alcune nozioni sui gironi dell’Inferno di Dante fanno parte della cultura e del discorso comune, ma questo non implica affatto la conoscenza del testo. Le altre sue opere – Vita nuova, Convivio, De vulgari eloquentia, Monarchia, le rime – sono lette poco o nulla.

Io insegno Arte alla Farleigh Dickinson University a Florham Park, nel New Jersey, e ho cercato di portare Dante nella mia università, con una serie di lectures, su un mio progetto. Grazie ad alcune presentazioni con slides, a una serie di incontri alla FDU con un professore di lingua italiana e studioso di Dante, e all’editore di TWP la mia storia con l’opera di Dante è diventata parte integrante della vita universitaria del nostro college. Inoltre ho tenuto alcune lezioni analoghe a Sarah Lawrence College a Bronxville, New York, in occasione di una esposizione di opere d’arte originali e di manoscritti che si è tenuta la scorsa primavera nella galleria della biblioteca.

Come artista, mentre lavoravo all’Inferno, il mondo di Dante ha cominciato a penetrare e coinvolgere profondamente il mio, e ho realizzato una serie di disegni e libri d’arte (unici e fatti a mano) in cui Dante compare come personaggio e che ho esposto a Brooklyn nel 2017. La forza del giudizio che caratterizza la Commedia ha preso forma in alcune immagini in cui Dante compare nella New York di oggi: Dante seduto sugli scalini fuori del mio appartamento a Brooklyn, oppure in piedi davanti alla Trump Tower nella 5th Avenue, o a una marcia di protesta. Ho ripreso anche personaggi danteschi, come il Bertran de Born di Doré, quando ho raffigurato Donald Trump che tiene in mano la propria testa mozzata, a significare che anche lui ha diviso la nazione col tradimento, col veleno delle sue parole e con le sue politiche repressive.

Leggere Dante costringe a confrontarsi con aspetti fondamentali e costanti della condizione umana. I toni cupi dell’Inferno hanno a che fare col peggio della natura umana, e non c’è bisogno di cercare lontano per capire la condanna di Dante contro i chierici e altri rappresentanti della Chiesa, pensando all’attuale crisi morale della Chiesa (quella Cattolica come quella Evangelica Americana). Abuso di potere, avidità sfrenata, lussuria si vedono benissimo nei leader politici dei nostri giorni, da Berlusconi a Trump. Quanto si è visto nelle elezioni americane del 2016 ha raggiunto livelli che calzano perfettamente alla violenta e sprezzante condanna dantesca dei traditori, nei canti finali.

Ci sono poi molti punti in comune, secondo me, tra Dante e Joyce (l’Ulysses è un riferimento fondamentale nella mia opera). Anzitutto, in entrambi i casi, se vogliamo capire in profondità la loro opera, dobbiamo prender familiarità con le biografie di tante figure altrimenti oscure e dimenticate. Così facendo, si acquista una comprensione più acuta della condizione umana, tanto nella sua specificità individuale quanto nella sua dimensione archetipica. E quando riconosciamo in figure contemporanee quegli stessi tratti biografici o caratteriali, non possiamo che ammirare ancora più profondamente le straordinarie intuizioni di Dante. Come avviene con Joyce, l’incontro con Dante porta subito il lettore in un vastissimo orizzonte letterario e storico. Nel suo racconto risuona l’eco di infiniti eventi passati e di un gran numero di opere canoniche, dalla Bibbia ai poemi di Omero e di Virgilio e agli scritti di Aristotele (per non citare che i maggiori). Una lettura attenta richiede non soltanto una grande biblioteca (!), ma anche una partecipazione attiva per approfondire la complessità dell’opera.

Mentre fatico per raccontare la mia storia nel Graphic Novel Long Time Gone, sento spesso che la poesia di Dante mi parla direttamente, orientando le mie elucubrazioni verso un progetto artistico: per esempio, con la rappresentazione di “se stesso” come personaggio, con i suoi richiami sui pericoli dell’orgoglio (anche artistico), con la scelta del “volgare” come veicolo di espressione.

Per concludere, entrambi gli scrittori insistono sulla centralità dell’amore e della grazia, e questo è un forte messaggio di speranza, più che mai necessario oggi, nei tempi oscuri che viviamo.

Tu conosci molto bene l’Italia e l’Europa. Che cosa il tuo Inferno vuole dire alla cultura italiana?

Anzitutto, voi siete fortunati ad avere una lingua nata a un livello così alto (prima che noi avessimo Shakespeare passarono molti anni). A quanto mi risulta, la Commedia è letta già nelle scuole medie, e questo deve avere l’effetto di radicare Dante in ognuno, in vari gradi. Che dono straordinario! Qualche anno fa, un mio amico italiano, essendo molto stanco del viaggio, per descrivere quello che avrebbe fatto appena arrivato nella camera dell’hotel, esclamò: “e caddi come corpo morto cade”.

Questa familiarità con Dante rende il pubblico italiano esperto e competente. Che cosa posso dire a un lettore italiano? Non so bene, dal momento che sono troppo immerso nel mio lavoro per dare un giudizio complessivo. Ma posso parlare di quali sono gli obiettivi del mio lavoro creativo (e adesso che comincio ad avere qualche feedback, ne sono naturalmente curioso).

Il mio obiettivo fondamentale è stato trovare il modo di rendere il poema (attraverso la scrittura amanuense e il disegno di tradizione comic) con una sorta di freschezza accessibile al lettore, restando fedele figurativamente al testo, e con un forte senso dell’importanza della Commedia anche nella storia dell’arte. Accostando la tradizione moderna del comics a quella degli antichi manoscritti miniati, ho voluto portare una certa “luce” capace di produrre “smiling pages”, pagine che fossero come un sorriso.

Comunque, ho sempre avuto il timore costante di non essere “in grado” di fare quello che tentavo di fare, e che alla fine il risultato sarebbe stato difettoso. Pensando al mio italiano arrugginito, alle lacune nelle mie conoscenze sulla storia della Commedia (stampa, disegno, pittura, affresco), avevo la sensazione che il mio tentativo sarebbe fallito. Ma poi ho pensato che dovevo smettere di preoccuparmi, di nascondermi per coprire le mie lacune o per non far sorridere chi avesse familiarità con Botticelli, Michelangelo e altri. Ho cercato di far emergere le note di umorismo o di pathos sempre presenti nei dialoghi e negli scambi fra Dante e Virgilio, spesso come una scenetta da comic, ed è stato un modo per avvicinare lettori vecchi e nuovi. Questo mio tentativo di realizzare un lavoro aperto e accessibile attraverso la tecnica figurativa del fumetto è il mio modo di sottolineare la natura sempre contemporanea della Commedia: non dobbiamo cioè restare intimiditi davanti al poema, ma dobbiamo saltarci dentro, per scoprire il nostro mondo attraverso gli occhi dell’altissimo poeta.

http://www.georgecochrane.net/

 

 

 

 

L'autore

Simone Casini
Simone Casini
Simone Casini è professore ordinario di Letteratura Italiana all’Università degli Studi di Perugia. È membro della commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Nievo, e dal 2000 su incarico di Enzo Siciliano cura per Bompiani la nuova edizione delle Opere di Alberto Moravia, del quale ha pubblicato vari volumi e testi inediti. È autore di monografie e saggi sulla letteratura del Sette, dell’Otto e del Novecento e di alcune edizioni critiche (tra cui Le Confessioni d’un Italiano, Classici della Fondazione Bembo, 1999). Si interessa in particolare di narrativa, con un’attenzione specifica ai rapporti tra storia e letteratura, sotto vari aspetti. Ultimamente ha pubblicato Pascoli georgico. Un percorso dai poemetti latini ai poemetti italiani (Patron 2018), la nuova edizione dell’Uomo come fine di Alberto Moravia (Bompiani) e il volume della narrativa di Moravia degli anni Settanta (Bompiani 2021).

2 thoughts on “Un amanuense e miniatore della “Commedia” a New York. Simone Casini intervista George Cochrane

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