Edoardo Fontana è nato nel 1969 a Milano dove ha lo studio nel quartiere più cosmopolita della città. Si dedica da anni alla xilografia, ma è artista molto versatile. Le sue incisioni sono state esposte in numerose sedi italiane; sono possedute da alcune importanti istituzioni e fanno parte di note collezioni d’arte contemporanea. In occasione della mostra Solo Xilo, xilografie 2002-2017, tenutasi alla Galleria La Scala di Milano, è stato stampato, dal tipografo Rodolfo Campi, un catalogo con sue xilografie originali. Ha disegnato una tavola (2015) per Le avventure di Pinocchio, volume impresso dalla casa editrice Alberto Tallone di Alpignano; illustrazioni e copertine per Il Muro di Tessa, editore di Milano, Babbomorto Editore di Imola, per la rivista romagnola «La Piê» e per le edizioni Henry Beyle di Milano. Ha anche progettato libri per private presse (Edizioni Accessorie, Edizioni Buh, Exigua Books) ed è il grafico della rivista «ALAI» e delle edizioni Il Muro di Tessa. Scrive per molte mostre e in diverse riviste.
Quando e come ti sei avvicinato all’incisione e, in particolare, quando hai capito che la xilografia, madre di tutte le espressioni grafiche ad intaglio, era il mezzo con il quale meglio avresti espresso il tuo pensiero, la tua arte?
Sono sempre stato affascinato dai sistemi di riproduzione seriale di testi e immagini e nello stesso tempo posseduto dal demone del disegno. Ma fu quando vidi su di un catalogo un’immagine incisa da Emilio Mantelli che compresi quale fosse la mia vocazione. La figura occupava una porzione diagonale della composizione, attraverso un grafismo spigoloso e con il suo equilibrato alternarsi di pieni e vuoti, nell’apparente approssimazione del disegno esprimeva una forza e una eleganza che mi affascinava. Quei pochi tratti, di primitiva e acerba grazia, solo in seguito, compresi fossero una xilografia. L’opera di Emilio Mantelli si intitolava La bimba ed era uno dei più alti esiti della xilografia italiana.
La xilografia giapponese che ho imparato a conoscere durante alcuni viaggi è un’altra fonte della mia ispirazione.
Di certo la semplicità del processo di realizzazione e stampa di una xilografia, semplicità solo esteriore ché la stessa complessa grammatica dell’incisione è forma di riflessione ambigua che nel ‘disegnare togliendo’ confonde il cervello, sono stati determinanti nella scelta. Forse anche la lentezza nella sua esecuzione ha contribuito alla mia inclinazione. La xilografia diviene una forma di meditazione sul senso stesso dell’arte. Essa si pratica attraverso uno scavo profondo della matrice. Questo scavare è metafora di una ricerca persistente opposta a quella superficiale che il web ci ha imposto. La xilografia è un linguaggio anacronistico in un contesto di esasperata ricerca per nuovi media, non permette che gesti compunti, una sintassi precisa e immutabile. L’inattualità dell’incisione ha per me una valenza pervasiva.
Mi consta che sei laureato in lettere e che non hai mai insegnato, mentre da diversi lustri sei impegnato nella ricerca artistica coniugata con le tecniche di stampa. Risulta infatti che hai un dossier cospicuo sia come incisore del legno sia ancora come grafico che stampa non unicamente per sé, ma svolge attività di consulenza grafica per terzi e nel contempo scrive di storia e tecnica dell’incisione. Come è avvenuta la tua preparazione in questi vari settori che ricordano il bagaglio di alcuni designer del passato, e come avviene il tuo costante approfondimento?
Premetto che per vari motivi ho iniziato a lavorare molto presto, quando ancora studiavo e questo mi ha portato a sviluppare la mia ‘carriera’ in maniera poco convenzionale. Ho ripreso a incidere dopo una lunga pausa, attorno ai trent’anni e a scrivere quasi dieci anni dopo, sollecitato da Mauro Chiabrando, direttore allora della rivista “Charta”, figura che ritengo chiave nella mia crescita personale. Nel corso del tempo ho ricevuto spunti e insegnamenti da parte di artisti, come gli xilografi Lucio Passerini e Francesco Parisi, e tipografi come Alessandro Zanella, Enrico Tallone, Rodolfo Campi. Da circa vent’anni mi interesso di design tipografico. Ho approfondito la storia e la tecnica della tipografia con la lettura di saggi e manuali come i testi classici di Raffaello Bertieri e Carlo Frassinelli e altri di respiro internazionale: Eric Gill, Robert Bringhurst (Lucio Passerini ha fatto delle ottime traduzioni di questi testi), Jan Tschichold e Stanley Morrison. Ma anche il confronto con editori che hanno fatto loro il gusto per il libro bello come Vincenzo Campo (Henry Beyle) sono stati fondanti.
Essendo un collezionista di libri spesso sono stati gli oggetti che avevo e ho tra le mani a influenzare la mia estetica. Considero l’incisione come uno strumento dell’editoria, non ho mai trovato uno iato tra tipografia e xilografia considerandole come una disciplina unica. Forse la peculiarità dei miei lavori sta in questa conoscenza trasversale; in questo mio essere una creatura ibrida, con un ruolo e una competenza un po’ sfuggente ma supportata da mestiere e passione, da una efficienza e una razionalità svizzera come quella dei grafici del Novecento che amo maggiormente, Max Huber, Albe Steiner e Paul Renner. In fondo l’incisione si nutre di un retroscena, di una quinta fatta di suggestioni visive, di immagini scovate nei libri di un background letterario che fa parte anche del mio bagaglio intellettuale.
Nelle tue xilo è la figura umana l’espressione alla quale sei maggiormente legato. Ed è soprattutto nell’incidere le figure femminili che maggiormente si apprezzano le tue qualità. Il tuo ductus fa riemergere il passato, ma riappropriato e sconvolto secondo personali coordinate. Nel tuo retroterra, oltre a Schiele, riferimento che appare immediato, ma di cui tuttavia rifiuti l’esasperazione e il suo grottesco, quali altri artisti, compreso i classici, hanno maggiormente colpito la tua fertile immaginazione e condotto il tuo bulino?
Mi sono interessato sempre e solo alle figure umane, figure femminili nella cui anatomia trovo un equilibrio e una eleganza che non vedo altrove. Le mie figure, come dici tu, sono estrapolate dal tempo, non sono inserite in una realtà contemporanea, sono avulse da qualunque contesto. Sono sospese nel vuoto, sono Segni sospesi come il titolo di una mia mostra, la prima, che feci alcuni anni fa. Non sono contestualizzate, anche se di recente − soprattutto nel campo dell’illustrazione − sono stato costretto a trovare qualche contesto per motivi didascalici. Fuggono da una facile semplificazione etica, da una categorizzazione, da un inquadramento. Eppure per la loro manifesta fragilità si inseriscono nelle coordinate del contemporaneo, perché poste sull’orlo di un abisso, in una stabilità precaria, distante dall’equilibrio rinascimentale che però ricercano.
È evidente il mio collegamento ad un certo disegno di Egon Schiele, così come sono vicino alla rappresentazione dolente e alla spigolosità della figure di Adolfo Wildt e al disegno misterioso e vagamente esoterico del primo Felice Casorati, del quale ho talvolta imitato le xilografie da matrici in legno compensato stampate con inchiostro bianco su carta nera.
Parlando di xilografi importanti nella mia ricerca devo citare Charles Ricketts, un artista svizzero che ha sviluppato la sua carriera nell’Inghilterra del primo Novecento a cui si deve, con William Morris, la rinascita della stampa, oppure alcuni xilografi italiani come Francesco Nonni ed Emilio Mantelli. Di recente ho riscoperto le cupe xilografie dello spaesante incisore praghese Frantisek Kobliha.
Il mio immaginario poetico è strettamente legato all’estetica liberty e simbolista così come a quella dei preraffaelliti inglesi: Dante Gabriel Rossetti e Edward Burne Jones, che rileggevano in chiave moderna un medioevo idealizzato.
Come è noto, l’arte a volte straziante di Schiele ha una spiccata coloritura autobiografica, e così avviene per molti altri artisti. Anche nelle tue donne, spesso dolenti e che vibrano di erotismo seppur ‘composto’, si può intravedere un riferimento alla tua storia personale?
Sicuramente le figure femminili che disegno sono spesso frutto del mio vissuto, appartengono al mio immaginario ma allo stesso tempo alla realtà.
C’è in loro una idealizzazione che non ha nulla a che vedere con uno standard tipico. Ricerco soprattutto nei volti, ma anche nei corpi, la trasposizione più contorta di bellezza, un’idea personale e più erotica di sensualità. Infine lo studio dell’armonia della struttura sostituisce e surclassa il disegno dal vero. L’erotismo contenuto che sembra emanare dalle mie figure si nutre di una malinconia che è la mia. L’effetto straniante dovuto alla totale assenza di una prospettiva spaziale crea un esito di alienante e misteriosa sospensione e attesa. A differenza di artisti come Schiele, come Klimt, come Aubrey Beardsley che vissero una contemporaneità in qualche modo straziante per le loro vicende personali, le guerre la malattia, la stasi che caratterizza la mia attualità costringe ad una riflessione più misurata ma non per questo il mio vissuto è privo di forti contraddizioni e di una sofferenza che trova le basi su avvenimenti minimi. Spesso sono descritto come irrequieto, ma forse è proprio il senso di approssimarsi della morte – ben visibile nei miei disegni, i quali celebrano nell’incanto, la caducità, più della giovinezza e dell’armonia – esorcizzato attraverso la persistenza dei corpi che, fermati dalla grafite, non possono più subire il degrado della decomposizione. Sono incubi succubi che nascono dal mio subconscio ma spero sia tu a dare una lettura dei miei disegni sensibile e distaccata in un solo tempo che forse li spieghi anche a me.
È la tua mano che attraverso la sgorbia sa esprimere e fa generare l’intaglio nel legno di pero, l’unico tipo di matrice che mi sembra usi così come avveniva nel lontano passato, o invece, è prima la matita a sorreggere la tua ispirazione? Parallelamente all’incisione ti sei specializzato nel concepire l’armonia della pagina a stampa, come provano le molte attività che svolgi per importanti editori non solo di nicchia e per alcune private press. Che cosa ti ha permesso di sovraintendere con così forte acume all’impaginazione? È stato il torchio a mano che usi per le tue xilo, strumento che prevede un addestramento complesso fondato sulla precisione del suo utilizzo per raggiungere vera profondità di espressione, ad aver fatto da volano?
Incido pochissime xilografie e malgrado appaiano semplici hanno un tempo di elaborazione molto lungo. Partono da una messa in pagina fatta con schizzi fino ad un disegno accurato che realizzo con una matita su carta colorata: le luci sono spesso poi rialzate a pastello bianco. Questa operazione mi aiuta per le xilografie in bianco e nero ma è fondamentale per il progetto di incisioni policrome. Di solito riporto il disegno in modo molto accurato sulla matrice e lo incido cercando di discostarmi il meno possibile dalla traccia originale. Considero importantissima la tecnica. Per fare un esempio, l’arte, la poesia, la musica non credo siano il prodotto tempestivo della rivoluzione tecnologica e la conoscenza del mestiere non è limitante, come pare suggerire la moda, bensì di supporto; quale è la lingua per un poeta.
Il legno che preferisco è il pero di filo, che incido principalmente con le sgorbie giapponesi che hanno lame in ferro e non in acciaio come quelle occidentali. Il ferro benché tenta poco il filo è più facile da affilare, ricavando punte molto taglienti, ciò mi permette maggior precisione nei segni più sottili.
I legni di pero che uso sono di solito matrici tipografiche del primo Novecento che preparo per ottenere superfici molto omogenee. Questi legni che hanno più di cento anni di storia sono ottimi per l’incisione.
Stampo spesso le xilografie a mano con un osso di balena, ma è chiaro che l’uso di un torchio e la precisione che esso richiede è un punto di partenza per comprendere come debba essere impaginata una forma tipografica. Non so quanto io sia bravo ad impaginare ma costruire un libro per me è divertente quanto incidere una xilografia. Tra l’armonia che si costruisce attorno a un disegno e quella dei bianchi e dei neri di una architettura tipografica non trovo alcuna differenza. L’alternanza di pieni e vuoti ancora una volta mi rammenta il Giappone e la sua architettura tradizionale di legno e carta, di rettangoli chiari e scuri che si avvicendano − la memoria immediatamente va al libretto di Arturo Martini, Contemplazioni, che nessuno meglio di te conosce − compilando un codice astratto ma non asemantico, una lingua, fondata sul ritmo, subito intellegibile all’occhio perché universale. Come il disegno, come la tipografia.
E da ultimo, come si è detto, scrivi d’arte, ovvero sei nel contempo un artista e un interprete di altrui manifestazioni. Contestualmente, infatti, porti avanti una fervida attività critica, con articoli pubblicati su varie pagine. Quanto conta il tuo personale bagaglio, soprattutto nell’arte dell’intaglio, nel motivare le tue riflessioni?
L’incisione e la tipografia sono i due temi principali dei miei scritti. In alcuni casi ho ampliato il mio campo di ricerca all’editoria. Spesso gli incisori sono anche critici e storici: ricordo Bartolini, Soffici, Boccioni e nel recentissimo passato Furio de Denaro del quale ho recentemente curato una mostra a Trieste. La mia analisi si basa spesso sulle modalità che sottendono la realizzazione di un’opera d’arte poiché sono convinto di come la proprietà stessa della tecnica, di volta in volta usata, sia integralmente parte del linguaggio stesso. Ma in fondo c’è una osmosi tra la ricerca storica, l’analisi critica e il mio fare. Se da una lato il fatto di essere un incisore mi permette di comprendere i processi e le scelte degli artisti in maniera diversa, non per forza più accurata ma certamente attenta a sfumature che altrimenti passerebbero inosservate, dall’altro l’incontro di volta in volta con artisti nuovi mi costringe a riconsiderare il mio lavoro alla luce del loro, mi dà spunti creativi che mi pervadono in una continua, dinamica ed eccitante dialettica.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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