Nata nel 1936, Giulia Napoleone è fra le artiste italiane viventi una delle pochissime a vantare un percorso espositivo in patria molto importante, e forte affermazione anche in ambito internazionale.
Alle sue spalle vi è un articolato “viaggio” sia di studio – dopo i diplomi delle Accademie italiane, ad Amsterdam (1967) si perfezionò nel campo grafico presso il Rijksmuseum – sia di ricerca, che l’hanno portata all’insegnamento, e, nel contempo, le hanno consentito un costante approfondimento con la possibilità di esporre in diversi e rilevanti spazi pure all’estero. Attualmente e fino al 6 gennaio 2019, se ne consacra la carriera con la mostra antologica presso la prestigiosa Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, dove i 104 pezzi esposti “narrano” la Realtà in equilibrio del suo lavoro dal 1956 al 2018, titolo dato alla rassegna che invita a molte considerazioni.
Hai sempre avuto per interpreti critici illustri, fra cui Giuseppe Appella che ti segue da molti anni, i quali hanno commentato il tuo cammino nell’arte, sottolineandone i molti momenti di ricerca e di approdo. Numerosi sono altresì i cataloghi che ti riguardano. Sembrerebbe impossibile pertanto rivolgerti domande per scoprire lati del tuo lavoro non ancora indagati. Ma in chi ti segue e insegue da tempo e con profonda ammirazione di amateuse dell’arte contemporanea quale mi sono sempre dichiarata, restano ancora non sufficientemente espressi, più che chiariti, alcuni punti che considero nodali del tuo luminoso percorso. Comincerò pertanto col chiederti a grappolo: il tuo talento si è manifestato a quale età in quali forme? Quando e come hai avvertito il concepimento, la scintilla che ha preso fuoco nel tuo inseguire l’arte e farla propria, e con quale delle tecniche in primis ti sei espressa?
Non c’ è stato un “momento” preciso. Ho avuto periodi di grande inquietudine e ricerca. Tanti interessi e troppe le cose che volevo seguire, il disegno, la musica, la fotografia. Tutto mi incuriosiva e soprattutto volevo viaggiare, ma non sapevo scegliere. Volevo andare per il mondo portando dentro di me quella linea ininterrotta, orizzontale del mare che mi accompagna da sempre, insieme alla visione dei due Monti abruzzesi, la Maiella e il Gran Sasso che da sempre custodisco e fa vibrare in me note profonde.
Per anni ho frequentato a Pescara la Scuola di San Silvestro di Ferdinando Gammelli, scultore che si era formato all’Albertina di Torino e che viveva in una grande casa, su una collina sul mare, con moglie, figli, tanti animali e noi allievi che passavamo intere giornate a copiare modelli e alberi. Gammelli ci insegnava la costruzione della figura, la sensibilità del segno, la sintesi. Poi a Roma, alla Scuola del Nudo con Barriviera e Maccari.
Non c’è stato un momento in cui ho scelto. La decisione è arrivata col tempo, naturalmente. Una volta ho detto “quasi fosse un respiro”.
Ricordo sempre i momenti quando Ennio Flaiano, che frequentavo con assiduità da quando ero a Roma e che ascoltavo con convinzione, mi ripeteva con insistenza “la versatilità è un difetto”.
È da lui che ho imparato ad avere fede nel fare ed è questa fede nell’operare che mi ha portato a decidere di dedicare la mia vita, i miei tempi e le mie energie a dare forma alle mie immagini interne, alla ricerca di quella luce e quella vibrazione che fa vivere ogni più piccola parte dell’immagine “come granello di un immenso pulviscolo”, come spesso mi capita di ripetere.
I miei primi lavori alla Scuola di San Silvestro erano eseguiti ad olio su tela, ma tutte le prove, i bozzetti, gli studi erano su carta. Ed è la carta, ancora oggi, il mio supporto preferito.
Germina (1967)
Per ogni suo prodotto l’artista credo debba ascoltare non solo ciò che avverte nel profondo ma pure ciò che vive nel presente. Picasso è universalmente noto non solo per avere rivoluzionato l’arte contemporanea, ma per averla sempre colta e intrecciata con la propria vita. L’autobiografismo di Picasso è una costante da cui non si può prescindere in nessuno dei suoi “periodi”. Nella tua biografia vi sono pagine che pensi abbiano avuto un ruolo importante nei particolari affondi della tua ricerca, e in cui vi è stato, nel contempo molto avvertito, anche il bisogno di sperimentazione e innovazione?
Nel mio percorso le cose importanti sono:
1) il lavoro in tutte le sue forme;
2) il rapporto con gli animali e la natura;
3) la necessità e la passione per il viaggio.
Provo a spiegarmi:
1) I tempi del lavoro coincidono con i tempi della vita e ripeto spesso che lo scopo è dare valore e qualità ai propri giorni. Per questo un ruolo determinante hanno l’ascolto della musica e la lettura della poesia. La sperimentazione fa parte del lavoro. Nasce dall’analisi dei diversi componenti del tipo di tecnica che scelgo. Non è mai casuale, ma corrisponde alle necessità interne di quel linguaggio espressivo. Che si tratti del punzone o di linee realizzate dai numerosi passaggi del berceau nella maniera nera, dei tratti e tratteggi dei disegni a china, delle dissolvenze e velature degli acquarelli e dei pastelli o delle sottili progressioni dei toni nei lavori ad olio. L’immagine nasce e vive dalla disposizione di piccole particelle e dall’addensamento e rarefazione di queste all’interno della composizione. Gli anni di sperimentazione passati alla Calcografia Nazionale di Roma hanno segnato profondamente la mia ricerca che proprio in quegli anni perdeva ogni riferimento naturale per assumere come naturale il suo stesso sviluppo.
2) Gli animali hanno avuto e hanno un ruolo determinante. Oramai i cavalli che hanno rallegrato e impreziosito la mia vita, non ci sono più. Andavano col vento, io li seguivo a volte ignara, spesso consapevole. Resta un “sentimento del tempo” perché con loro ho vissuto in una natura dove il fluire e il trascorrere del tempo si avvertiva nella varietà e mobilità di ogni elemento naturale. Una campagna per me luogo di affetti profondi e dove era ancora possibile un vero rapporto con il reale.
La gatta Camilla ha condiviso i viaggi e la permanenza in Siria. Ora due gatte mi hanno adottato, Cordelia e Folletto, vivono con me tra casa e giardino.
3) Il viaggio è un bisogno profondo che placa ogni inquietudine, ogni desiderio di mutamento, ogni forma di esperienza o conoscenza. Non è più il tempo delle peregrinazioni e dei lunghi viaggi nelle regioni solitarie del Nord o nei deserti senza confine dove il silenzio accompagna il cammino, ma la necessità del viaggio resiste e fa ancora parte di me.
La scuola come allieva e poi come docente: mi ha sempre colpito la consapevolezza con cui un artista passa, a volte repentinamente, da fasi di apprendimento spesso assai differenti e raggiunga la meta d’ insegnare arte e immagine, svincolandosi finanche dal proprio bagaglio concettuale ed esperenziale per sviluppare le doti intrinseche di propri allievi. Anche nell’arte contemporanea vi sono casi famosi di conquistate autonomie, grazie al tributo di apprendimenti accademici non di maniera. Con quali armi hai saputo sviluppare nei tuoi allievi la loro precipua inclinazione? In chi ti riconosci per avere interpretato al meglio il tuo personale magistero e essersi nel contempo creato un proprio autonomo spazio?
I miei rapporti con la Scuola sono piuttosto complessi: come allieva sono stata attenta ma taciturna, caparbia e chiusa in un mondo che mi premeva dentro, dove nessuno aveva accesso. Come docente non credo di avere avuto più fortuna.
Solo in due casi mi sembra di aver raggiunto un qualche risultato che ancora mi fa pensare in modo positivo a quelle esperienze ormai lontane.
In Calcografia il mio compito era “insegnare e fare ricerca”, così recitava il permesso del Ministero che mi prestava all’Istituto come ‘maestro incisore’.
Insegnare per me ha voluto dire interrogarmi fino in fondo sulle possibilità espressive delle tecniche incisorie. Ho insegnato lavorando e questo ha creato rapporti profondi che durano nel tempo. Artisti che ancora incontro e con loro non abbiamo bisogno di parole per ricordare l’intenso e vivace legame che ha unito le nostre esperienze.
I rapporti più veri li ho avuto più tardi, in Siria, dove per sette anni ho dedicato quanto più potevo all’insegnamento, solo allora ho avvertito come e quanto segnavo e indirizzavo le vite degli allievi. Si parlava una lingua che non apparteneva né a me né a loro, eppure sentivo – e ora so – quanto ho trasmesso e come e quanto loro hanno recepito.
Io mi sono immersa nella loro cultura, ho studiato la lingua e la calligrafia, ho visitato con loro i siti, i musei, le città morte, i ristoranti, le chiese e le moschee. Ora li seguo da lontano, dal Marocco, dalla Germania, Svezia, Belgio, Armenia, Stati Uniti. Qualcuno è tornato ad Aleppo, altri non l’hanno mai abbandonato.
Lavorano tutti, mi mandano immagini dei lavori, pensieri, ricordi, foto dei figli…..
Il tuo politecnicismo lo hai sempre espresso in contemporanea o, strada facendo, hai usato le tecniche che hai ritenuto maggiormente in sintonia con ciò che volevi sapere, o, meglio, volevi riuscire a dimostrare?
Ho sempre lavorato intorno almeno a due tecniche.
La costante è il disegno, nelle sue varie articolazioni, grafite, pastello, inchiostro. Questo accade quasi sempre durante la fase di progettazione. Solo quando devo concludere una fase di lavoro, per mostre o per definire un momento di ricerca, mi dedico a una sola tecnica, per non distogliere energie, per concentrarmi sull’esecuzione che, come sai, procede con estrema lentezza, perché quanto intuisco e progetto con relativa velocità, si svolge poi nel tempo e richiede tutta la concentrazione possibile. Tutto ciò non esclude poi che la notte, prima del sonno, mi conceda un momento di riflessione e di brevi appunti che in qualche modo placano il bisogno di altre immagini, mettono a posto dentro di me desideri e sentimenti e permettono al pensiero di prendere forma.
Si parla spesso del tuo particolare pointillage che si manifesta in profondità così come in superficie, in particolare nel ‘tuo’ blu ma non solo di quel colore. A volte è riferito alla tua ricerca formale, altre volte viene legato ai “viaggi” della tua memoria, ai tuoi “paesaggi” dell’anima. Le particolari forme lenticolari e i loro supporti sono stati accostati inoltre ad artisti celeberrimi, ma per quanto mi è dato sapere, non a certi movimenti, come l’optical art, sviluppatasi nei tuoi stessi anni di profondo studio e applicazione, in cui alcune tue opere potevano favorire letture pure di «instabilità percettiva» propria dell’arte cinetica. Consideri ardito il ricorso alla “instabilità” in merito alla lettura di tue opere, quando, invece, il lavoro di tutta la tua vita viene ad essere considerato all’insegna dell’ “equilibrio”, come suona il titolo della tua mostra in corso?
In tutti i miei lavori c’è un piccolo elemento che si ripete, si assembla, si moltiplica con un ritmo di volta in volta teso a rappresentare un’idea, una forma.
I punti sono lo specifico del punzone, la dimensione dipende dall’intensità del colpo sullo strumento. L’unione dei punti può essere linea o superficie, anche suggerire profondità. Utilizzare i punti sul rame non è molto diverso per me dall’utilizzare linee nella maniera nera e disporle per suggerire luminosità e percorsi differenti.
Negli acquarelli sono piccole forme, quadrati, rombi, sottili linee che addensati rendono vibrazioni luminose. Nei lavori ad olio sono spesso tasselli che si rincorrono o linee che cambiando valore ogni volta suggeriscono dissolvenze sulla scala di un solo colore che quasi sempre è un azzurro. Nei disegni a china piccoli tratti sovrapposti, un segno dopo l’altro, creano stesure, dal grigio al nero, modellano le superfici e suggeriscono profondità, campi uniformi o ritmi concitati.
L’immagine è spesso definita già dall’inizio del lavoro, ma il processo di chiarificazione è sempre stato ed è ancora accidentato e si fa lentamente, nel tempo.
Nei primi anni Settanta, quando sperimentavo l’utilizzo della plastica, fogli di metacrilato con puntini eseguiti con il trapano a colonna o tondi lavorati al tornio, fogli sovrapposti per utilizzare le trasparenze proprie di quel materiale, mi sono in qualche modo avvicinata alla cosiddetta “arte optical”. È stato un momento, un passaggio momentaneo, un interesse tridimensionale. Allo stesso modo avevo aderito a un certo informale negli anni Sessanta. In realtà erano brevi deviazioni da un percorso definito che riprendeva il proprio corso. “L’instabilità” propria dell’arte optical non mi appartiene.
Il mio lavoro, potrei dire la mia vita, è un andare verso, verso la Perfezione, verso la Bellezza. È in realtà una ricerca di Equilibrio, tra ordine e caos, tra geometria e natura, sentimento e ragione, realtà e sogno.
Si entra con l’ultima risposta all’interno della ‘confezione’ dei tuoi libri d’artista, prodotti che hai sempre continuato a realizzare, e che contribuisci ad avvalorare nella accezione più classica con cui si indicano per i diversi aspetti artistici uniti a pagine d’autore, senza stravolgimenti formali. La forma-libro non è solo immaginifica visione estetica ma fusione di differenti segni, e soprattutto reciprocità di interpretazione fra testo e immagine. Come e quando nasce la particolare sincronia fra il tuo studio della poesia antica e soprattutto contemporanea e la percezione visiva resa con la tua grafica?
Il Libro d’Artista copre una parte notevole del mio lavoro. Il rapporto con la parola, con la poesia è complesso, a più livelli e dura da sempre.
Il 1974 è la data della mia prima edizione con incisioni. Ma da molto prima, potrei dire da sempre, ho fatto manoscritti, con testi, immagini, copertina, colophon, tutto fatto a mano. Manoscritti rimasti più o meno segreti per anni perché li consideravo una sorta di diario per immagini. Sono stati oggetto della mia mostra dal titolo Dialoghi, all’Istituto centrale per la grafica dello scorso anno, e ora fanno parte delle collezioni dell’Istituto.
Quando progetto un libro, manoscritto o no, penso sempre all’esortazione di Massimo Bontempelli che raccomanda di non attenersi ai tipi e ai fatti del narrato, ma agli stati d’animo che ne derivano.
La creazione di manoscritti ha scandito i miei tempi, nati da necessità e non da casualità, consentendomi di progredire, perché li considero indagini sulle sensazioni, i contrasti, le contraddizioni che si celano intorno ai segni e alle parole.
È un processo dove segni e colori sono elementi fondamentali per scandagliare le mie “geometrie interiori” e dare forma alla pura emozione di ricerca della verità, con le parole di Leonardo Sinisgalli: UOVO. TRIANGOLO. FOGLIA.
La Geometria che incontra la Natura, spesso rinnovata dal tempo e dal filtro della memoria. È necessario un pensiero lucido, una consapevolezza del ritmo, il dominio degli spazi. Ho sempre cercato di rendere l’intensità e il peso delle parole, indagare sulla solitudine e sullo smarrimento di fronte alla natura, tenendo sempre vivi in me il ricordo e la presenza del mare, la vastità del cielo, la stratificazione della sabbia del deserto.
Anche la tua presenza nella mostra “Di Carta” voluta da Officina della Scrittura, emanazione della ditta Aurora di Torino e aperta fino agli inizi di febbraio 2019, ha permesso agli ideatori e organizzatori di porre sul tappeto un altro aspetto legato strettamente alla grafica: l’utilizzo di certe carte per un particolare manufatto artistico. Qual è il tuo rapporto con il o i supporti, e quale con gli strumenti che permettono il fendersi o l’inverarsi dei tuoi segni?
La mostra “Di Carta” a Torino è il risultato di un progetto dedicato alla carta, quindi al Segno e alla Scrittura. Una mostra sulla Storia dell’ Uomo non poteva non affascinare chi per una intera vita ha scelto la carta come supporto principale del proprio lavoro per dare vita ad un complesso sistema di segni. È questo uno dei motivi della mia totale partecipazione, anche accettando con convinzione di mostrare parte degli esempi del mio lavoro: carte a mano con segni di inchiostro o grafite; carte adatte a ricevere inchiostri dalle lastre incise a punzone o quelle alquanto più rare per la stampa della maniera nera; le carte a mano con grana ruvida che scelgo quanto più lo strumento che traccia segni è sottile; superfici adatte a ricevere finezze e evanescenze.
Le carte sono tante e numerosi gli strumenti capaci di far vivere i segni. La scelta, sempre operata con cura, scaturisce anche dal desiderio di scoprire possibilità nuove e potenzialità differenti. Ho lavorato ai miei manoscritti su carte sempre diverse, molte non si trovano più, altre riposano nei cassetti, in attesa di essere scelte. È una materia viva che mi accompagna da sempre e che continuerò a cercare, visitando cartiere vecchie e nuove, incuriosita dalle filigrane e dai bordi intonsi, dalle superfici morbide o vellutate, opache o trasparenti, dagli spessori molto leggeri o molto pesanti, cercando spesso la sintesi di un dialogo ininterrotto e misterioso tra la percezione di un infinito e la ricerca di un assoluto.
Ed infine, cara Giulia, quali possono essere le parole che un astro del firmamento artistico come sei tu si sente di lanciare a giovani dotati per instradarli, in un cammino tuttavia dove spesso ci si scontra con l’illusione o le incomprensioni?
Consiglierei di non avere fretta, di lavorare senza speculazioni seguendo necessità e non arbitrio, visitare i musei, considerare e ascoltare solo quanto hanno dentro di sé.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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