scrivere nelle varie lingue d'Italia

De Andrè, il genovese

Il ventennale della morte di Fabrizio De Andrè ha implicato, come è giusto che sia e come ci si poteva aspettare, una serie di manifestazioni e di celebrazioni che certificano il rilievo del cantautore nel panorama italiano, e che suscitano ulteriori dibattiti sulla sua figura e sulla sua opera. Da ascoltatore distratto di canzoni, quale sono, mi guardo bene dall’azzardare una valutazione personale sul complesso della produzione canora di De Andrè: posso solo dire che alcuni pezzi hanno segnato la mia gioventù, come quella di tanti coetanei, mentre altri rimangono per quanto mi riguarda sostanzialmente estranei al mio gusto musicale (che è, ripeto, alquanto primitivo) e poetico. Mi frastorna un po’, piuttosto, il culto che oggi, a livello nazionale e con parossistico fervore locale, si tende a tributare a quello che secondo alcuni è stato addirittura il più grande poeta italiano della seconda metà del Novecento, se non del Novecento tutto: un giudizio che si potrà confermare o smentire, immagino, solo quando la cronaca sarà diventata storia. Da linguista e dialettologo posso invece azzardare, intanto, qualche appunto su una componente particolare, e rilevante, dell’opera, quella che a partire da Creusa de mâ (1984) si è espressa in genovese. Vale forse la pena di chiarire, anzitutto, che la scelta di adottare il genovese non ebbe quel carattere “dirompente” e innovativo che a volte le viene attribuito. De Andrè infatti aveva già “annusato” questo tipo di espressione, musicando insieme a Pietro Reverberi, nel 1972, i versi di Ballata triste di Vito E. Petrucci per Piero Parodi, un popolare chansonnier locale: un testo di accorata e forse un po’ ingenua denuncia civile, nel quale la lingua era ancora, effettivamente, quella viva di un proletariato irrequieto, di un ambiente portuale e operaio nel quale il mugugno sui problemi locali evocati dal testo si saldava con un orizzonte più ampio e complesso di tensioni. Ma dodici anni dopo, il panorama linguistico, genovese e non solo, stava cambiando: l’espressione locale, da “eversiva” qual era stata negli anni Settanta (non solo in Liguria, anzi, qui assai meno che a Milano, ad esempio) cominciava a essere “rivalutata” da una certa cultura ufficiale, forse proprio per il fatto di essere avviata, nei fatti, a una inequivocabile decadenza. Erano gli anni in cui la RAI aveva ripreso a trasmettere il teatro di Eduardo, ad esempio, sdoganando anche il Mistero buffo di Dario Fo con le sue decise inflessioni dialettali: nella trasmissione inaugurale della terza rete televisiva, qualche anno prima, si sente Lina Wertmüller affermare un po’ retoricamente che il nuovo canale avrebbe dovuto dialogare con i venti dialetti delle regioni d’Italia (che sono più di venti, e che in realtà trovarono ben poca sponda nelle trasmissioni regionali), e intanto stava crescendo lo pseudoautonomismo leghista, che sul recupero delle lingue locali spargeva non poca retorica. C’era in giro, insomma, una certa voglia di “dialetto”, e dubito che De Andrè non abbia tenuto conto (opportunamente, non opportunisticamente, sia chiaro) di questo clima, nel momento in cui decise di avventurarsi nell’uso del genovese. Lingua, il genovese (così lo definisce sempre, ad esempio nel bellissimo video-documentario, in larga parte girato a Carloforte, che accompagnò l’uscita di Creusa de mâ), alla quale De Andrè non era avvezzo e che tuttavia amava tenacemente: chi la conosce, si rende subito conto che essa è, sulla sua bocca, il frutto dello sforzo volontario di una persona lontana dall’intonazione del vero parlato, circostanza che corrisponde del resto alle scelte lessicali, morfologiche e sintattiche profuse nei suoi testi. A riprova di ciò, possiamo prendere ad esempio la canzone forse più bella dell’album, quella che ha dato il titolo alla raccolta. Qui scito, ad esempio, corrisponde etimologicamente in genovese all’italiano ‘sito’, ma significa ‘proprietà immobile’, a seconda dei casi ‘appartamento’ o ‘campo agricolo’, e non ‘sito, luogo, posto’ (“un luogo dove la luna / si mostra nuda…”); Paciugo sta sì per ‘pasticcio’ ma non si usa in locuzioni come ‘pasticcio di carne’, vale solo nel senso di ‘guazzabuglio’ o ‘impiastro’ (oltre a essere il nome di un gelato tipico genovese); bacan non è ‘padrone’ in senso generico, ma significa di volta in volta ‘persona autorevole’, ‘vecchio di casa’ (anche ‘padre’!), ‘datore di lavoro’, e risulta francamente ostico nella frase ‘padrone della corda / marcia d’acqua e di sale’; levre de coppi per ‘gatto’ è una locuzione difficilmente ambientabile a Genova (dove di coppi, tradizionalmente, non ce ne sono) ma ben diffusa nell’Italia settentrionale (me la segnalano a Trieste, ad esempio); in ægrodoçe, il passaggio di a– ad e aperta non è registrato nell’uso. Anche l’opposizione donde / dove (“da dove venite / dov’è che andate”) è arbitraria, in quanto i due termini sono sinonimi (dove peraltro è italianeggiante) e non distinguono nell’uso il moto da luogo e il moto a luogo. L’uso dei clitici è poi altalenante, in genovese prima di “si mostra nuda” ci vorrebbe il pronome (a se mostra nua) come avviene correttamente nella frase successiva (a n’à pontou ‘ci ha puntato’). Lo stesso vale più avanti per “il mattino crescerà” (che dovrebbe essere o mattin o crescià, a prescindere dal fatto che mattin in genovese è femminile). Anche certe rese fonetiche non sono corrette (l’articolo genovese è o [u] e non ou [ow] come si legge nei testi e come De Andrè tende effettivamente a pronunciare; a quei che do loasso dovrebbe in realtà corrispondere quelli che do loasso, anche se ovviamente ciò farebbe saltare il metro. Senza entrare nel merito della grafia, che è materia opinabile in genovese, ascoltando la pronuncia di De Andrè si nota frequentemente che il cantante ha difficoltà a pronunciare la e chiusa del genovese dove nelle corrispondenti parole italiane è aperta (e dice quindi tèsta invece di tésta, per intenderci), che nasalizza alquanto le vocali davanti a velare (uso riviereasco e in parte tabarchino, ma non genovese), che fa fatica a mantenere l’alternanza di vocali brevi e lunghe caratteristica della prosodia genovese, e che spesso, più in generale, pronuncia brevi le vocali lunghe e viceversa, circostanza di notevole impatto sulla resa orale del genovese. Tutte queste osservazioni (e altre analoghe si potrebbero sviluppare su tutti i testi liguri di De Andrè), lungi dall’essere, come spiegherò più avanti, il livoroso risultato di una disamina da puristi, ci aiutano a formulare qualche considerazione generale: perché se quella di De Andrè è in larga misura una lingua artefatta e a tratti improbabile, proprio in questo sta la sua importanza, e in larga misura la sua bellezza. De André scrisse e cantò infatti un genovese immaginato, meno lingua di Genova che lingua del Mediterraneo. In questo modo stuzzicò certamente la voglia di esotismo portuale del pubblico italiano divulgando mitologie linguistiche e identitarie molto al di là, probabilmente, delle sue stesse intenzioni; ma ai genovesi fece anche un dono importante, proponendo un assunto eversivo che ancora non cessa di infastidire gli italianisti da salotto: lavorare su una lingua “minore” non significa tradirla. Del resto (e a prescindere dalla considerazione che il genovese è un linguaggio artistico elaborato da circa ottocento anni, come fa fede una tradizione letteraria ininterrotta) a chi si interroga sulle motivazioni artistiche della scelta del genovese da parte di De Andrè salta subito all’occhio un dato evidente. Il cantautore non se ne servì per raccontare una Genova storica né tanto meno reale, osservata quest’ultima (più che vissuta) attraverso i versi di molte belle canzoni (Via del Campo, Bocca di rosa…) scritte in italiano, sua lingua materna: se ne servì invece per immaginare uno spazio mediterraneo nel quale il genovese poteva essere proposto (non diversamente da altri idiomi, ma lui aveva questo a disposizione, e altrove usò indifferentemente il calabrese o il gallurese) come metafora dell’incontro tra culture, con le sue frequenti voci esotiche e con la sua stessa pronuncia, da lui arricchita di assonanze levantine. D’altronde la stessa lettura “storica” del Mediterraneo è, in De Andrè, piegata a una visione in certa misura irenica, purtroppo smentita da secoli di conflitti e di tensioni. Nelle vicende “genovesi” rievocate da canzoni come A pittima, A domenega o Sinan Capudan pascià c’è quindi molto di “pittoresco” ma poco o nulla di realmente “popolare”, riprendendo piuttosto un’aneddotica in larga parte inventata e ripescata sui libri di divulgazione storica locale. Sono tutte narrazioni che non andrebbero prese alla lettera, anche se molti, soprattutto a Genova, hanno finito per confondere la realtà storica con le affabulazioni presenti nelle canzoni di De Andrè, fino a sovrapporre la sua Genova / Mediterraneo a quella reale di un confuso passato. Il fatto è che Creusa de mâ (tolta la canzone finale Da-a mæ riva, che è una specie di chiosa) tutto è meno che un album “intimo” fatto di nostalgie identitarie: vi è semmai una dimensione “epica”, la volontà di un recupero che non è affatto memoriale / personale, ma che vorrebbe essere invece corale, di una mediterraneità mitologica e ristrutturata, dalla quale, per forza di cose, l’autore si colloca all’esterno. D’altronde, proprio perché nessuno si aspetta verisimiglianza e cura filologica in una creazione artistica (se De Andrè avesse voluto far parlare il “marinaio” Cigala con la lingua del suo tempo, avrebbe dovuto utilizzare il genovese cinquecentesco di Paolo Foglietta), anche il mito caro a qualche commentatore secondo cui quello di De Andrè sarebbe un genovese “arcaico” risulta quanto meno discutibile, considerando che esso è a base moderna, novecentesca, per quanto aperto all’accoglimento quasi parossistico di un lessico (ma solo di un lessico) spesso e volentieri recuperato dai vocabolari più che dall’uso. Sono valutazioni negative queste? No, soprattuto nella misura in cui accennavo al grande dono lasciato da De Andrè ai genovesi: la consapevolezza appunto che la “spontaneità” non è l’unico orizzonte di una lingua “minore”. Non meno di quella di qualsiasi altro autore letterario, il genovese di De Andrè è lingua costruita, e faticosamente, per comunicare idee e per sollecitare emozioni: se queste ultime sono condivise da un pubblico ampio, italiano e internazionale, in virtù delle sensazioni che nascono dall’elaborazione sapientemente prodotta dall’artista, al pubblico genovese e ligure rimane anche l’acquisizione di un programma poetico e intellettuale che non a caso, infatti, proprio a partire dagli anni Ottanta nell’espressione regionale è andato in larga parte in controtendenza, sia rispetto alla produzione “dialettale” tradizionale che a quella “neodialettale” largamente in voga nel panorama italiano. Sulla lingua, dicevamo, si lavora. La lingua si elabora, si crea, si fa, liberamente, senza complessi e senza giustificazioni oltre a quella di avere qualcosa da dire e di cercare le parole per dirlo.

ftoso@uniss.it

L'autore

Fiorenzo Toso
Fiorenzo Toso
Fiorenzo Toso (Arenzano, 1962) vive tra la Liguria, dove risiede, e la Sardegna, dove è professore ordinario di Linguistica all’università di Sassari. Dialettologo, è specialista dell’area linguistica ligure, alla quale ha dedicato numerosi studi, con riferimento in particolare al contatto linguistico tra genovese e altri idiomi e alle varietà d’oltremare, alla storia linguistica e letteraria e a vari temi relativi al lessico: tra gli altri Il tabarchino. Strutture, evoluzione storica, aspetti sociolinguistici, Milano, Franco Angeli, 2004; Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale, Recco, Le Mani, 2008; La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali. Profilo storico e antologia, Recco, Le Mani, 2009; Piccolo dizionario etimologico ligure, Lavagna, Zona, 2015. Si occupa anche di minoranze linguistiche in Italia e in Europa, con riferimento agli aspetti sociolinguistici e glottopolitici e alle tradizioni letterarie (Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2006; Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008), di etimologia italiana (Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia, Cagliari, CUEC, 2015) e di metalinguaggio della linguistica. Libero docente di Filologia Italiana, collaboratore tra l’altro del Lessico Etimologico Italiano fondato da M. Pfister e dell’Atlante Linguistico del Mediterraneo, di La cultura italiana diretta da L. Cavalli Sforza (2009) e della Enciclopedia dell’italiano diretta da R. Simone (2010), dirige il progetto del Dizionario Etimologico Storico Genovese e Ligure. È anche traduttore dallo spagnolo e dal francese in italiano, dallo spagnolo e dall’italiano in genovese; in quest’ultima lingua è autore del volume di poesia E restan forme (2015).

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