In primo piano · scrivere nelle varie lingue d'Italia

Vera Lúcia de Oliveira intervista Franco Loi

Il testo riproduce l’intervista pubblicata sulla Revista da APIESP – Associação de Professores de Italiano do Estado de São Paulo, Insieme, n.7, San Paolo, Brasile, 1998-1999.

 Che cos’è per te la poesia, dal momento che hai scritto in un verso del componimento Se scriv perchè la mort se scriv perchè la vita la sia vera” (“si scrive perché la vita sia più vera”)?

Quel verso ha significati molteplici. Per me, e non so per altri, lo scrivere è insieme conoscere e conoscersi di più. Sembra quasi che la parola scavi dentro di noi, togliendo incrostazioni e impedimenti di varia natura sino ad agevolare il rapporto tra la nostra coscienza e la memoria inconscia – che è memoria del corpo, delle emozioni e dei pensieri che tutto il nostro essere elabora indipendentemente dalla nostra consapevolezza. E in questo senso ci aiuta ad avere un rapporto più vicino alla verità, sia con noi stessi, sia con il prossimo, sia con le cose e la natura. Quindi a rendere la vita più vera. La poesia, che è insieme parola significante, musica e ragione, è la forma di un nostro modo di essere spesso ben oltre quanto presumiamo di noi. Ma è anche l’unica possibilità di vero dialogo con l’altro, giacché coinvolge l’ascoltatore nella comune ragione e nella comune emozione oltre gli impedimenti caratteriali e ideologici. Un mio caro amico, Davide Bracaglia, ha scritto: “Non è che il dono prometeico di una scintilla comune di verità condivisa sul piano creaturale. Poesia non è tanto, o solo, forma, contenuto, simboli o immagini, non tanto un’etica o un’identità, quanto un’elargizione, senza attendere nulla in cambio, di se stessi. Poeta è chi si offre, da guarito, per la salute di ogni lettore, di ogni altro uomo-poeta”. E per guarigione, credo che il mio amico intenda il rinnovato rapporto con la vita, con l’amore, con la verità. Infatti quando il mio amico dice “guarire dalla letteratura”, vuol dire emanciparsi dalle menzogne della mente, dai pregiudizi, dagli ostacoli di varia natura che frapponiamo ai nostri rapporti con gli altri (e con noi stessi). Dobbiamo rendersi conto che la mente è menzogna nel suo orgoglio di dominare la nostra persona e la nostra vita, di farci credere che l’immagine che abbiamo di noi sia vera. La poesia smaschera questa menzogna, rivela oltre la persona (la maschera) un volto diverso e non sempre piacevole di noi. In questo la poesia rende vera, vicina alla verità la nostra presenza nel mondo.

Hai pubblicato il tuo primo libro solo nel 1973, a più di quarant’anni; ma quando hai cominciato a scrivere?

Avevo 9 anni quando ho preparato per un gruppo di amici una riduzione teatrale dei “Tre moschettieri” di Dumas. Sapevo già leggere a 4 anni, quando mia madre mi regalò due libri alla Fiera di Sant’Agata a Genova. A scuola ci facevano scrivere le “cronache” al posto dei “temi” e ricordo che a 16 anni, mentre tornavo in bicicletta dallo Scalo Merci di Milano Smistamento dove lavoravo, ebbi un gran sconforto per la perdita di un pacco di miei scritti che portavo nel portapacchi dietro il sellino. Non ricordo periodi della mia vita che non siano intrecciati allo scrivere. Così scrissi versi per la pace che avevo 17 anni e liriche d’amore quando m’innamoravo – tutto in italiano. Cominciai invece a scrivere poesie in milanese quando nel 1965 mi capitò tra le mani la raccolta dei Sonetti del Belli. Il Vigolo dice che la stessa cosa capitò all’arcade Belli, quando a Milano fece la conoscenza della poesia del Porta. Posso dire con ironia che è una specie di scambio o remunerazione storica. Per me, comunque, non si “comincia a scrivere” – è illusione degli sperimentali, che intendono lo scrivere come una costruzione mentale o una “produzione letteraria”. Credo che scrivere sia, almeno per me, così “insieme” alla vita e nello stesso tempo così lontano, da non esserci inizio – io non ne ho memoria precisa. È un modo di essere ed è un modo di capire, e questo lo si fa sin dalla nascita. Non c’è poi molta diversità tra la consapevolezza di un bimbo e quella di un adulto. Spesso l’adulto si allontana dalla consapevolezza di sé per costruirsi una realtà rassicurante e conformistica. Ripeto che lo scrivere è comunque un mezzo per recuperare consapevolezza di sé. Quindi, non ha inizio. Quando vado nelle scuole chiedo sempre: chi scrive? E più si va indietro nell’età e nel tempo e più numerosi sono quelli che scrivono. Dunque si dovrebbe semmai chiedere: quando si smette e perché? Cioè capire che il “non scrivere” è una perdita. 

Con la scelta di scrivere poesie in milanese, hai cercato di ridare dignità al dialetto che in Italia è stato per molto tempo la lingua degli umili, delle classi meno privilegiate. Quello che usi però è un dialetto un po’ particolare, nel quale confluiscono elementi di altri dialetti, come lo stesso genovese natio o l’emiliano. Che cosa rappresenta per te questa lingua che è stata definita come una “lingua privata”?

Non ho scelto il dialetto. Qualcuno ha scritto che “il dialetto ha scelto me”. E non ho cercato di “ridare dignità al dialetto”, che ne ha già una sua, grande, nell’uso e nella storia popolare. C’è una significativa serie di sonetti di Carlo Porta sulla “dignità e il valore” del dialetto. Semplicemente, quando, per un motivo estetico, mi son trovato a dar voce a un giovane soldato milanese – che non potevo far parlare in italiano – ho capito due cose: di aver dentro di me il milanese al di là della mia consapevolezza; e ho capito di aver dentro di me la poesia, cioè questa strana connessione tra suono, contenuti ed emozioni. Che poi la mia lingua non sia “privata” mi sforzo inutilmente di dirlo da anni. Certo, in un altro senso la lingua di ogni poeta è privata. La gente non ha mai parlato la lingua di Leopardi o di Dante. È successo, semmai, che la gente ha capito la ricchezza della lingua dopo aver letto Dante o Leopardi. È tanto poco privata che spesso versi interi delle mie poesie sono raccolti dalla parlata popolare. per non parlare dei tanti neologismi o di alcune espressioni. Qual è del resto il confine tra pubblico e privato in un poeta e in una poesia? Viviamo la cultura degli uomini e viviamo in mezzo agli uomini. Anche volendo, non c’è niente che sia completamente privato. Il milanese rappresenta semmai la mia vita e la mia storia in Milano, mentre il colornese rappresenta l’amore per la lingua e la terra di mia madre, e il genovese la memoria della mia prima infanzia a Genova e della lingua di mio padre. Le classi privilegiate milanesi, un tempo, parlavano milanese. Non si deve dimenticare che all’unità d’Italia (1870) soltanto il 2,3% degli italiani parlava italiano, e che soltanto dopo gli anni ’50, per l’avvento della televisione, l’italiano è diventato lingua della maggioranza. Gli italiani ricchi non hanno mai parlato il toscano di Dante, ma quello scolastico. La lingua del potere politico non è del resto mai una lingua poetica. Occorre dimestichezza con la comunità e con lo Spirito che gli uomini di potere non hanno mai avuto, almeno dalla rivoluzione francese in poi. Una volta che si capisce la poesia come “offerta di sé” e forma di una verità sconosciuta, si capisce anche la menzogna nascosta nella contrapposizione lingua-dialetti. La verità, come il dono, sono indifferenti alla lingua. Leopardi scrive nello Zibaldone che occorre star vicino al popolo che parla perché “è più vicino alla natura e privo di logica” – io traduco dalla imposizioni della mente. E Dante parla di poesia come lingua materna – non in quanto della madre – ma delle origini, cioè delle Spirito. Dunque per me la lingua è un tramite alla verità e alla conoscenza, una voce di me, della gente che ho conosciuto, che ho amato e mi ha amato, dei luoghi in cui ho vissuto, ma anche della cultura mondiale che ho avvicinato – dico spesso che forse, oltre Salgari e Verne e la fisica di Einstein e il Corriere dei Piccoli e Socrate e Kant, anche Shakespeare, Dostoevskij, Cervantes e Drummond de Andrade hanno contribuito con Dante, Belli e Carlo Porta, a risvegliare la mia voce.

Che senso ha scrivere in dialetto oggi in Italia? Non si rischia, con questa scelta, di contribuire in qualche modo a minare ancora di più la già fragile unità italiana?

Che c’entra “la fragilità dell’unità italiana” con il dialetto in poesia? L’unità non è una questione di lingue ma di coscienze. Viene prima la vita poi la lingua. Si sta insieme e si parla una lingua comune quando si comprende che siamo figli di una stessa matrice, che ogni uomo è il suo prossimo, che l’altro è come noi nel profondo di se stesso, quando si capisce che ognuno deve saper sacrificare qualcosa nel rapporto con l’altro. L’unità d’Italia è in pericolo sin dagli inizi, perché è stata un’unità voluta dalla politica internazionale – gli interessi inglesi e francesi contro l’Austria – ed è stata sin dagli inizi supremazia di una regione (il Piemonte) contro le altre regioni, o almeno senza tener conto della volontà dei popoli italiani, e, soprattutto, l’imposizione di una lingua di minoranza potente (il becero toscanismo di Manzoni) 2,3% nel 1870 contro le lingue parlate (lombardo, veneto, ligure, napoletano ecc.) dal 97,7% degli italiani. L’italiano si parla a maggioranza solo oggi. E non per una questione di “unità” o di “comuni interessi” ma per la diffusione televisiva. Ed è un italiano povero, inespressivo, del tutto adeguato alla finta unità e allo stato attuale delle coscienze. Non vedo proprio come l’uso o l’apprezzamento del dialetto possa incrinare l’unità nazionale. È semmai vero, come scriveva il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli, che l’unità italiana e l’accesso ad una lingua nazionale non può che avvenire attraverso la conservazione e la crescita delle varie lingue regionali. Se la lingua è legata alla coscienza degli individui, come si può immettere una vera coscienza nel patrimonio nazionale negandone le lingue? L’Ascoli diceva: si parla meglio italiano insegnando ai popoli a leggere e scrivere nei loro dialetti. Ne è prova la ricchezza della narrativa italiana, che ha fatto largo uso dei dialetti in ogni epoca: dal siciliano del Verga, al triestino di Svevo, al piemontese di Fenoglio e Pavese. La gente crea lingua mentre vive e lavora. Non si può imporre una lingua dall’alto. Se c’è semmai un segno della decadenza, non solo dell’unità della nazione, è nella perdita continua della creatività, semiscomparsa dell’artigianato e del lavoro manuale – e nell’aumento della passività umana nella produzione e nella disattenzione del centro alle periferie. La gente non attiva le proprie facoltà inconsce, diminuisce l’attenzione a sé, alla natura, alle materie, all’importanza dell’altro. I dialetti scompaiono, e l’italiano diventa burocratico e impoverito. La gente non inventa più la lingua. Qui è la radice dello sgretolamento, della dissoluzione. È lo Spirito che dà sapore al pane, come diceva l’antica sentenza. Diceva un mio traduttore portoghese, “è più facile che c’intendiamo in milanese che in italiano”. E io correggo dicendo: ci si intende in dialetto, in italiano e in inglese quando l’amore ci porta alla comprensione reciproca.

Come si pone il poeta in rapporto al proprio tempo? La poesia è testimonianza storica, è partecipazione civile? O è visionarietà, è capacità di andare oltre la realtà apparente delle cose, di poter scorgere, l’al di là delle limitazioni e contingenze quotidiane, il senso più profondo della vita e anche della morte?

Lo sappia o non lo sappia il poeta è nel proprio tempo. Ma qual è il tempo? Per me è contemporaneo Dante, ed è mio contemporaneo anche Platone. Dunque il tempo è l’arco di una civiltà. Come scriveva qualcuno “un europeo d’oggi è cristiano anche quando non lo sa”, e aggiungo anche quando non lo vuole. Ma cos’è il cristianesimo, se non la faccia ebraica di una religione e di una cultura ancora più antiche? Allo stesso modo non si può non avere partecipazione civile. Viviamo nella città e, in modo attivo o passivo, ne partecipiamo il destino. È la divaricazione degli interessi economici, con tutte le loro facce ideologiche e culturali, che scinde la città e quindi le vicende umane. Il poeta non è fuori da questa vicenda storica. Sicuramente non si comprende la funzione della poesia, se non si comprende anche la sua natura politica. Il che non significa un uso della poesia, ma un’accettazione della più profonda essenza della poesia. Rivelando all’uomo ciò che non conosce e non sa, di sé, della natura, del mondo, la poesia rivela alla società una presenza al di fuori delle ideologie, delle dottrine, delle culture intellettuali. La proposta del poeta è dunque proposta incessante di un uomo al di fuori degli schemi culturali. La cultura ufficiale di una città è messa in crisi dalla poesia e la città accresce la sua visione di sé e delle proprie motivazioni sociali accogliendo la parola dissacrante del poeta. Voglio dire che una società, nel più alto significato della parola, è quella che ascolta il poeta. Accettare la poesia è accettare il diverso. La poesia e la religione non dicono mai: “Questo è il mondo”. Ma semmai: “Questo è il mio modo di essere nel mondo”. La poesia, come la religione, dice: “La conoscenza della mente non è sufficiente a disegnare il mondo”. Così l’apporto della poesia alla città è apertura verso il possibile e verso l’altro da sé. Il senso più profondo della vita e della morte viene dall’uomo stesso. La poesia è figlia dell’uomo, non è un’astrazione letteraria. La poesia è il modo in cui l’uomo tiene vivo in sé e quindi nella città la verità dell’essere e del vivere. la civiltà si misura appunto nell’accettazione che una città fa dell’altro, dello sconosciuto, dello straniero, del diverso. Quindi della poesia. I greci hanno dato tanto, eccessivo, spazio alla mente per paura delle Erinni, cioè dell’imprevisto, dell’ignoto, di ciò che è “evento improvviso e inaccessibile”. La poesia è questo evento, questo ammettere in sé e fuori di sé il mistero. E la morte e la vita sono congiunte nel mistero dell’essere. Le limitazioni e contingenze quotidiane sono tali solo nella nostra mente, nell’eccesso delle paure, nel bisogno di sicurezza, nelle mancanze d’amore. Il desiderio è l’ombra della morte. Come dice Dante, nel “desìo” c’è il segreto dei nostri bisogni più profondi. Ma noi abbiamo “passione”, cioè diventiamo passivi nel desiderio e confondiamo il desiderio col fine. Crediamo che le cose e le persone o le situazioni desiderate siano lo scopo di ogni nostro desiderio. Perciò siamo sempre delusi quando otteniamo ciò che riteniamo di volere. La città apparente è quella che ruota attorno ai desideri, la città reale è quella che guarda più in là. La poesia richiama dunque incessantemente la città allo sguardo. Questo è il compito politico della poesia. È come se qualcuno guardasse soltanto da un lato e lo si prendesse per le spalle e gli si mostrasse l’altro lato. Così la poesia allarga alla visione.

 

 

L'autore

Vera Lucia de Oliveira
Vera Lucia de Oliveira
Vera Lúcia de Oliveira è professore associato di Letterature Portoghese e Brasiliana all’Università degli Studi di Perugia. Ha diversi libri di poesia e saggi e ha partecipato ad antologie poetiche in vari paesi. Scrive in portoghese e in italiano e ha ricevuto prestigiosi premi letterari sia in Italia che in Brasile. Fra i saggi, citiamo Poesia, mito e história no modernismo brasileiro, São Paulo, Editora UNESP, 2015; Storie nella storia: Le parabole di Guimarães Rosa, Lecce, Pensa Multimedia, 2006; Narrativas brasileiras contemporâneas em foco (con Eunice P. Vial) Editora da Universidade Federal de Santa Maria, 2012. Ha tradotto e curato antologie poetiche di Lêdo Ivo, Carlos Nejar e Nuno Júdice. sito: http://www.veraluciadeoliveira.it