L’Italiano fuori d’Italia

La lingua italiana nella molteplicità (emiratina) degli infiniti mondi possibili. Un racconto da Abu Dhabi

Per Italo Calvino le fiabe: “sono vere e sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto”. (Italo Calvino, Fiabe Italiane, Mondadori, Milano, 1993, p. 18).

Non è un caso allora che il nascente Istituto Italiano di Cultura ad Abu Dhabi (da quest’anno diretto da Ida Zilio Grandi) abbia inaugurato i suoi primi ufficiali passi, in occasione della diciannovesima edizione della settimana della lingua italiana nel mondo, promuovendo una rappresentazione teatrale curata (con straordinari arrangiamenti) da Cà Luogo D’Arte (in scena sul palcoscenico Francesca Bizzarri e Dario Eduardo de Falco) di alcune delle più belle favole italiane raccolte da Calvino in un volume uscito per i tipi dell’Einaudi nel 1956 e dal significativo titolo originario Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino.

Francesca Bizzarri dialoga con i numerosi bambini italiani al termine dello spettacolo
Francesca Bizzarri dialoga con i numerosi bambini italiani al termine dello spettacolo

Mettendo insieme alcune parole-chiave dell’interpretazione delle fiabe fornita da Calvino si evidenzia la consapevolezza che il racconto fiabesco sia macrocosmo (quel “tutto” di cui parlava lo scrittore) e al contempo microcosmo (i dialetti che puntellano la tradizione orale e scritta della narrazione fiabesca e che caratterizzano ogni singola regione come fosse un universo autonomo) e sia soprattutto un’immersione nell’immaginario inteso alla maniera di Karl Kerényi quando ci spiega che i miti e le fiabe appartengono con le loro radici misteriose a quell’anelito umano di rappresentare e rappresentarsi il visibile e l’invisibile per cogliere il complesso e plurale mondo nel quale si è immersi e, non ultimo, per elaborare un compromesso con la realtà o per traghettarsi senza strappi, senza catastrofi dalla fictio della fiaba alla realtà che ci circonda (Károly Kerényi, Miti e Misteri, Bollati Boringhieri, Torino, 1979).

Il tempo della fiaba è tempo remoto, primitivo ma non inteso come categoria temporale bensì funzionale: ecco perché non invecchia e non si usura ma preserva quell’ordine (o quel disordine) del mondo che ha tracciato e voluto e narrato come mondo possibile e sempre attuale.

La fiaba dunque intesa come progressivo “disvelamento”, per usare un’espressione di Heidegger, della verità sottesa alla realtà e come occasione di momentanea (e talvolta felice) fuga da questa per un capovolgimento dei rapporti usati e usurati o per un’esasperazione degli stessi rapporti.

E allora nella trama intricata e nel plot articolato della fiaba, è possibile, è oltremodo plausibile ed è dato vedere come una donna possa salvare i suoi fratelli e non viceversa, come una noce possa nascondere ricchezze, come un amore possa essere concepito tra uomini e animali, come un oggetto inanimato possa prendere vita e forma e realizzare sogni e desideri.

Nei corsi e ricorsi (talvolta vichiani) della fiaba, che assorbe e amplifica l’eco remotissima di storie ancestrali e già narrate o abilmente occultate (nel racconto dell’amore messo alla prova vi è sempre una variazione sul tema del mito di Amore e Psiche, dell’anima che vuole guardare in faccia la tangibilità dell’amore e che, prima di farlo, deve superare sette infiniti passaggi quasi catartici, così come nel “villano” che attraversa mari e monti si nasconde e si cela sempre l’archetipo di Ulisse), si può tuttavia trovare un filo conduttore che, nonostante la sua natura variegata, sta lì e dimora, ovvero la lingua, o meglio il “sentimento della lingua” direbbe il linguista Luca Serianni (Il sentimento della lingua, il Mulino, Bologna, 2019).

Quel sentimento che va oltre il “lessico fondamentale” individuato da Tullio De Mauro (La fabbrica delle parole, UTET, Torino, 2005) e che coinvolge lo stare al mondo, la postura che si assume nel mondo e che solo la lingua, o un’appartenenza linguistica, possono conferire.

Soggiornare in una lingua, abitare una lingua con consapevolezza, con la familiarità del nativo e dell’accolito, significa abitare un mondo e assumere uno sguardo ben preciso sulla realtà, altrimenti inarrivabile: una lingua che nelle sue strutture grammaticali possiede il duale inevitabilmente possiede una Weltanschauung duale, secondo Wilhelm von Humboldt (The Heterogeneity of Language and its Influence on the Intellectual Development of Mankind, tr., Cambridge University Press, 1999), così come, diremmo noi, una lingua che possiede tanti dialetti permette uno stare al mondo che contempla inevitabilmente la molteplicità e la pluralità, ammettendo l’una e l’altra senza soluzione di continuità.

Una molteplicità di idiomi che è prisma del mondo sull’interpretazione del mondo e che si rivela anni luce lontana dagli stereotipi che talvolta ingabbiano un popolo e una lingua producendo  approcci fuorvianti: non a caso nel corso della rassegna emiratina della settimana della lingua italiana nel mondo, e che quest’anno era dedicata all’italiano sul palcoscenico, nella cornice della New York University di Abu Dhabi è stato ospitato un monologo teatrale di Francesca Bizzarri, scritto con Goffredo Puccetti (La lezione di teatro) che ironicamente, e magistralmente, racconta gli stereotipi linguistico-strutturali e l’intrinseca bellezza del patrimonio culturale, teatrale e linguistico italiano.

Locandina de “La lezione di teatro”
Locandina de “La lezione di teatro”

L’Istituto Italiano di Cultura di Abu Dhabi sembra aver individuato con Calvino un paradigma per “un’opzione fondamentale” che sappia e voglia salvaguardare la pluralità e la molteplicità, la varietà e la bellezza delle infinite possibilità e posture sulle realtà: se la fiaba rappresenta un micro e un macro cosmo, la lingua italiana, che da oggi soggiorna stabilmente negli Emirati Arabi Uniti e vi soggiorna come capitale linguistico, relazionale e umano, nelle sua infinita modulazione grammaticale e regionale che racchiude una sinfonia di voci, possiede in sé l’apertura alla molteplicità, alla diversità, alla possibilità sempre aperta del futuro.

Uno scenario che si coniuga benissimo con un paese come gli Emirati che sta tutto proiettato, con lo sguardo e con la postura glo-cale, nel futuro possibile e anche in quello che si può solo immaginare come un racconto fiabesco ma “intrinsecamente, strutturalmente vero”, direbbe Calvino. E dunque realizzabile.

angela.arsena@unifg.it

L'autore

Angela Arsena
Angela Arsena
Angela Arsena ha insegnato Storia e Filosofia nei Licei del Salento. Si è laureata presso l’Università di Lecce e ha conseguito un dottorato in Filosofia presso l’Università Pontificia Antonianum di Roma, discutendo una tesi in epistemologia con il filosofo Dario Antiseri. Si interessa di mistica e filosofia della religione; si è occupata del fondo scritti Schott-Kerényi, conservato nell’archivio della Biblioteca Augusta di Perugia. Nel 2012 ha vinto la prima edizione del premio Elémire Zolla per la ricerca. Ha contribuito alla voce “Mistica” nel Dizionario Zolliano edito dall’Associazione Internazionale di Ricerca Elémire Zolla. Si occupa di interpretazioni del mito nel pensiero filosofico contemporaneo e di didattica della filosofia.