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Sotto il muro di Berlino: sembra ieri ma sono passati trent’anni

Mostravo tempo fa ad alcuni amici una mia foto in bianco e nero mentre fumo la pipa. Qualche tempo dopo mentre parlavo di mio padre, un mio collega mi disse che ce l’aveva presente e mi mostrò quella foto. Gli replicai che quello ero io non mio padre che, oltretutto a quell’epoca, già non c’era più, purtroppo. È una foto scattata a Berlino est l’11 novembre del 1989, al mercato russo, atto finale del muro di Berlino. Mi ricordo l’organizzazione del viaggio. Mi chiamò un compagno di scuola del Mamiani, Francesco, e mi disse: “stanno buttando giù il muro di Berlino, andiamo, dobbiamo esserci anche noi”. Si fece convincere anche Marco, un altro compagno di scuola (quello che sta vicino a me con la pipa nella foto). E partimmo. Venne pure un amico di Francesco, che studiava con lui Filosofia all’Università di Pisa, Silvano. La mattina dell’8 novembre, una Golf turbodiesel accese i motori, destinazione Berlino. La prima sosta fu a Ivrea. Là passammo a salutare Lorenza, e ci fermammo per pranzo. La conversazione, grazie a Dio, fu sul carnevale di Ivrea, visto che quanto andavamo a vedere ci lasciava su fronti opposti. Francesco infatti era un ex attivista della FGCI, al momento senza spiccati orientamenti politici, almeno diceva lui, ma comunque sempre di sinistra, Silvano, da buon pisano, era della sinistra storica. Marco ed io liberi  pensatori. Lorenza non amava la politica, così tra un tomino e l’altro ci parlò del lancio delle arance di Ivrea, un carnevale abbastanza strano, al punto che qualcuno ci rimetteva anche gli occhi. La mattina seguente, dopo colazione, partimmo per Bayreuth. Avevamo la smania di arrivare al più presto, pensavamo fosse come un miracolo quello che si stava per compiere e ci saremmo stati anche noi. La mattina del 10 novembre tra Bayreuth e Lipsia una fame da svenire: non mi ricordo perché eravamo partiti da Bayreuth senza fare colazione. Per la strada passavano dei camion militari russi, sembrava una ritirata di massa, e tra un camion e l’altro spuntò un’insegna dove si vedeva una tazza di caffè e un wurstel. Pensai a un bar, ci sarebbe stato qualcosa da mangiare. Accostammo, e quello che ci trovammo avanti fu un chiosco molto spartano, dove potevi comprare a destra una tazza di caffè e a sinistra un wurstel, dato in mano senza carta e impacchettamenti vari. L’insegna era insomma assolutamente realista. Chi cercava di togliere la pelle del wurstel coi denti, era un soldato russo che armeggiava in un camion che si era fermato proprio al lato di questo ristoro da campo. Non me lo posso scordare: colbacco con la stella rossa, mani sudice di grasso di macchina, una tazza di caffè in una mano e un wurstel sbocconcellato nell’altra. Imprecava qualcosa a me incomprensibile. Probabilmente non riusciva a far ripartire il camion: la tecnologia sovietica a volte faceva acqua. E di acqua ne fece tanta quella mattina del 10 novembre 1989: ormai a pochi chilometri da Berlino, incominciammo a vedere, nelle corsie opposte, colonne di Trabant che uscivano all’impazzata da Berlino Est. Ma la maggior parte di queste macchine a due tempi era ferma perché l’acquazzone le aveva sorprese, e le Trabant sotto i temporali si bloccavano spesso. Anche Francesco dovette ammetterlo: era una fuga di massa. Avevano aperto le porte dell’Est e chi poteva era uscito di casa solo coi vestiti che portava addosso. Sembrava un esodo, una fuga sfrenata, come per attraversare un Mar Rosso che si era aperto all’improvviso, ma che si poteva richiudere subito senza lasciar passare più nessuno. Questa era l’impressione che dava quella moltitudine di macchine giocattolo, che cercava di guadagnare qualche metro dal confine. Dopo tanta pioggia, il sole e finalmente arrivammo a Berlino. La notte sulla Zoologischer Garten, la città era la ville lumière della Mitteleuropa, birrerie e chioschi aperti, mille luci, piena di concittadini della parte est della città, che si bevevano i trenta marchi dati in segno di accoglienza dal governo Kohl. Anche noi entrammo in una birreria. Al tavolo al lato c’erano quattro signori anziani ed entrò una bellissima ragazza in salopette da sci. I signori le dissero qualche cosa, delle boutades sicuramente e la ragazza rispose con un sorriso. Subito dopo ne entrò un’altra, sempre con lo stesso abbigliamento da sci e di nuovo battutine e sorrisi. Pensammo che quei vecchietti ci sapevano fare, non avevano perso un colpo nell’agganciare due ragazze così carine. Ci sentivamo incapaci. Poco dopo uscimmo e, come posso dimenticarmelo, per la Zoologischer Garten c’era una sfilata di ragazze in tenuta da sci, proprio al bordo del marciapiede. Le macchine si fermavano e loro sorridevano. Allora capimmo, anche perché i vecchietti erano stati così valenti. Erano ragazze della notte che regalavano un sorriso a tutti i berlinesi, in tenuta da sci ovviamente, anche perché stare sul marciapiede a Berlino in minigonna, in quel novembre abbastanza rigido, non sarebbe stato possibile. Dormimmo nella Rosenthaler Strasse, dalla finestra dell’hotel si vedeva quella storica cattedrale gotica (Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche), della quale restava un unico campanile smozzicato, ricordo dei bombardamenti dell’ultima guerra. Ma ora gli orrori sembravano finiti, il muro lo stavano buttando giù e la guerra era solo un ricordo lontano. Il giorno dopo decidemmo di passare a Berlino Est. Una sosta di quasi un’ora al posto di blocco, erano le ultime ore della polizia sovietica. Arrivò il nostro turno, i poliziotti frugarono nei bagagli, nella macchina e, vedendo sul sedile dei manifesti di cantanti italiani, ci dissero che era materiale sovversivo e che lo dovevamo consegnare. Al che Francesco, malgrado il suo passato “figiciotto”, non riuscì a trattenersi e in tedesco, che parlava già molto bene disse “Molto democratica questa vostra repubblica”. Io divenni bianco come un cencio, perché quella polizia, anche per molto meno, qualche giorno prima ci avrebbe sbattuto dentro senza tante spiegazioni. Passato il posto di blocco, l’atmosfera era diventata di colpo grigia, sembrava di essere in un’altra epoca e in un altro mondo. Le luci e i colori e l’allegria di quei giorni della parte ovest sembravano non aver ancora intaccato lo squallore fumoso e sinistro di Berlino Est. Non fu per caso che misi nella mia macchina una pellicola in bianco e nero, proprio perché era così che stavo vedendo quel pezzo di città. Sotto una parte del muro, c’erano dei russi che si vendevano quello che avevano: scarpe, camicie, sciarpe, noi comprammo due pipe. Un vento gelato si infilava sotto i capelli, una sensazione che sento ancora. Tutti fummo colti da un senso di oppressione, scattammo ancora qualche foto e di corsa tornammo alla parte ovest della città. Io pensai che se era squallida ancora in quel momento la parte est, ora che il muro lo stavamo demolendo, come doveva essere quando era stretto dalla morsa della dittatura comunista? Dava i brividi solo a pensarci.

Lungo il muro della parte Ovest c’erano ragazzi venuti da ogni dove, alcuni si erano portati anche il piccone e si scattavano le foto mentre davano inutili picconate al muro. Alla porta di Brandeburgo al tramonto, canti in tutte le lingue del mondo, brindisi abbracci, erano abbracci pieni di speranza, mentre si sentiva in lontananza il rumore delle ruspe che abbattevano il solido cemento armato di quello che era stato il muro più famoso al mondo.

 

wildoalberto@yahoo.com.br

L'autore

Guido Alberto Bonomini
Guido Alberto Bonomini
Guido Alberto Bonomini, è nato a Roma e insegna  Lingua e Letteratura italiana presso l’ Universidade Federal Fluminense (UFF) di Niterói, Rio de Janeiro, dal 2002. Proviene dalla Sapienza di Roma, dove ha seguito i corsi di filologia romanza col prof. R. Antonelli ma si è poi laureato in Letteratura Brasiliana con la Prof. Luciana Stegagno Picchio. Ha un Master in linguistica applicata ottenuto presso l’Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ) e un dottorato in Letterature Comparate della Universidade Federal Fluminense (UFF). Si occupa prevalentemente di studi storici linguistici e teoria della traduzione.