Interventi

Il mio Dante

Dopo l’intervento di Monica Berté, il regista bolognese racconta il suo nuovo film su Dante

“L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero. Quando vengo intervistato sull’idea che è alla base di una delle storie che racconto balbetto risposte confuse. Saper risalire al momento esatto in cui sei stato “fecondato” da quella suggestione è impresa sempre impossibile. Per quanto concerne Dante credo che la lettura che mi ha indotto a interessarmene sia la Cronica di Dino Compagni, non tanto per quello che ci dice del sommo poeta ma per quello che ci dice di quel contesto storico remoto, angusto e intriso di una violenza senza pari. Credo di essermi deciso dopo quella lettura a rileggere quella Divina Commedia che il liceo mi aveva reso insopportabile, andandone a scoprire l’immensa bellezza. Tuttavia per riuscire a provare per l’Alighieri quell’ammirazione sconfinata del mio oggi, il cammino doveva essere ancora periglioso. Troppo radicato in me quel pregiudizio umano dovuto lombrosianamente all’iconografia che lo riguarda. Dovuto a quel profilo sdegnoso e improbabile con il quale ci troviamo a fare i conti. Quel profilo di un essere umano in netto contrasto con il ragazzo che si era confidato così tanto nella Vita Nova. Insomma non mi rassegnai e decisi, accadeva più di vent’anni fa, di dedicare molto del mio tempo e parte delle mie finanze nel tentativo di smontare quel preconcetto che me lo teneva lontano. Furono anni bellissimi, lo sono sempre quelli della ricerca da autodidatta, vissuti assolutamente in solitario in caccia di tutto quanto si potesse leggere su di lui. Fra le cento scoperte, la commozione che provai quando attraverso Mare Magnum individuai una copia del Codice Diplomatico Dantesco di Piattoli a Toronto, è ancora in me!

Tuttavia quella gioia rosselliniana che avevo avvertito nello scrivere il mio Magnificat, quella smania di condividere tutto ciò che andavo scoprendo attraverso un film, andava regolarmente a cozzare con la “dismisura” dantesca. Con quell’essere Dante Alighieri genio così assoluto, al di là del pensabile, da non permettere alcuna sintesi. A questo punto è entrato nella mia vita, sapendosi indispensabile, Giovanni Boccaccio da Certaldo. Vi è entrato non solo con il suo Trattatello e le sue Esposizioni ma soprattutto con la sua commovente devozione per Dante. So di non offenderlo nel definirlo la mia password, quella password che mi ha dato il coraggio di pensare a Dante assumendo Boccaccio, in una similitudine che non dovrei permettermi, come il mio Virgilio. So bene, avendo nel tempo avuto rapporti meravigliosi con esimi dantisti, da Mazzoni a Raimondi che ci hanno lasciato, ai contemporanei, come ogni studioso abbia il suo Dante personalissimo, come ognuno nei riguardi del Trattatello viva una ragionevole diffidenza. Tuttavia Boccaccio non è solo il primo biografo di Dante ma è anche colui che ne ha scritto da “contemporaneo”. Contemporaneo dello stesso Dante per i primi otto anni della sua vita e quindi dei suoi figli, dei suoi amici o nemici, dividendo la casa con una parente di secondo grado di Beatrice ed essendo figlio di quel Boccaccio di Chiellino che era associato alla compagnia dei Bardi, dei quali proprio Beatrice sposò Simone. Che poi Boccaccio sia incaricato di portare alla figlia di Dante, monacata a Ravenna, dieci fiorini d’oro come risarcimento per il male che i fiorentini avevano fatto al padre, mi parve da subito spunto narrativo straordinario. Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film. Film che vorrei avesse come esergo quello che considero il verso più bello della letteratura di ogni luogo e tempo : “e io ch’alla fine di tutti i desii”.

L'autore

Pupi Avati
Pupi Avati è tra i più noti registi italiani. Vincitore di svariati David di Donatello, nel 2020 gli è stato conferito il Premio internazionale "Città di Penne" per la sezione Scrittori dal cinema.
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