conversando con... · In primo piano

Inma Otero intervista Berta Dávila

Entrevista en galego

Il volume Raíz da fenda
Il volume Raíz da fenda

Berta Dávila (Santiago de Compostela, 1987) è una delle più significative voci emergenti nell’attuale panorama letterario galego. La sua produzione, narrativa e lirica, ha meritato l’attenzione di premi prestigiosi, come il Premio “Johán Carballeira” assegnato alla Dávila per il suo Raíz de fenda, opera già insignita dall’Asociación de Escritoras e Escritores en Lingua Galega come migliore opera lirica del 2013 e vincitrice, inoltre, del Premio Critica Española. Come novellista si è affermata grazie al Premio “Biblos de novela” nel 2008 con Bailarei sobra a túa tumba e con il Premio di “Narrativa Breve Repsol” del 2013, assegnato a O derradeiro libro de Emma Olsen. Nel 2019 ha ottenuto, invece, il XXXI Premio “Novela Manuel García Barros” con Carrusel. Questi sono solo alcuni dei premi e dei testi pubblicati da un’autrice con una proposta molto personale e in cui si avverte con forza il potere dell’autoreferenzialità.

Nel tuo percorso, uno degli aspetti che colpisce è la tua duplice natura di poetessa e di narratrice, molto produttiva in entrambi i generi, ricompensata da numerosi premi. Come consideri questa tua doppia identità? Credi che influenzi in qualche misura il tuo modo di scrivere?

Mi sembra inevitabile che lo influenzi. Io concepisco la scrittura letteraria come un lavoro artigianale, spesso come un’arte. Intendo dire che ho una relazione quasi tangibile con i processi della scrittura e con il linguaggio, con la metafora, come se fossero degli attrezzi da lavoro. Questo è qualcosa che va certamente oltre il genere letterario, come se lo stesso genere letterario fosse una formula o una base con cui trattare il materiale. Il processo della scrittura, nel mio caso, è molto legato allo spazio concreto, tanto quello domestico quanto quello cittadino. Le immagini, le idee che si producono, le annotazioni, i quaderni, i ritagli, si depositano in un luogo concreto. Di fatto, ci sono momenti in cui preferisco scrivere fuori casa, così che i luoghi in cui vivo non siano contaminati dal lavoro letterario, e viceversa. Ho scritto una raccolta di poesie appendendo i testi alle pareti del corridoio, perché erano troppi per poter essere gestiti solo nella mia testa e perché avevo bisogno di tenerli presenti, circondarmene, per poterci pensare. Da questo punto di vista, gli oggetti sul tavolo di lavoro si contaminano materialmente uno con l’altro, così che, in qualche modo, nelle mie novelle ci possono essere inevitabilmente tracce del mio lavoro poetico, e viceversa. Mi sembra che la mia narrativa sia più interessante della mia poesia, che è qualcosa su cui non avrei scommesso quando cominciai a scrivere e la narrativa non era ancora neppure ben pianificata. Ciò nonostante ci sono strumenti della poesia che sono molto utili per me nel momento di scrivere narrativa: la densità, l’immagine, usare una parte per parlare del tutto. Negli ultimi anni ho scritto alcune poesie che penso si potrebbero riunire in un volume, però non ho chiaro se questo volume sarà una vera e propria raccolta di poesie o piuttosto un poema unitario; ho l’impressione che mi stia convertendo in un’autrice di poemi e non di raccolte di poesie, e questo è qualcosa che ha molto a che vedere con la mia natura di narratrice. La narratrice non concepisce l’idea che ci sia da dire qualcosa utilizzando troppe unità separate di significato (come sono le poesie in una raccolta). Non so se è comprensibile ciò che dico: i capitoli di una novella non sono l’equivalente delle singole poesie di una raccolta, perché non sono indipendenti uno dall’altro. I poemi sono unità complete. Una novella coincide, o dovrebbe, con un solo poema.

La critica ha già sottolineato la tua attenzione nell’elaborazione delle immagini, la tua preoccupazione per il linguaggio e per la creazione degli ambienti, degli spazi e dei loro “oggetti squisiti”, per usare un’espressione di Carrusel, che vanno a rafforzare le idee di bellezza e dolore. Qual è la funzione di questa costante attenzione stilistica?

Io non la vedo come un’attenzione stilistica. Credo che la cosa abbia a che vedere con il mio personale modo di ascoltare il mondo e la vita, e che non sia qualcosa che si possa associare solo al mio modo di fare letteratura. L’idea della bellezza e del dolore, o l’idea di ciò che è sublime e di ciò che è miserabile, sono tutte idee che nascono prima della letteratura, perché la letteratura non ha la pretesa di trattare, ricreare o ricostruire la bellezza e il dolore; sono la bellezza e il dolore che vogliono mostrarsi a qualcuno, in un dato momento, attraverso la letteratura. Credo che non riuscirei a spiegarlo bene, per quanto possa sforzarmi, e che, a priori, sembra non esserci differenza tra i due enunciati che ho appena opposto, ma per me la letteratura si adopera sempre per un significato ultimo, che quasi sempre ha molto a che vedere con la trasmissione di un’emozione ben precisa. Nella mia letteratura non c’è una sublimazione di un mondo che diventa letterario, né una pretesa di edificare ciò che è semplice e comune a tematiche sublimi. Il fatto è che il semplice e il comune mi attraggono in ogni momento e questo ha, per sé stesso, un significato affascinante o sublime. In Carrusel, ad esempio, quando la bambina è attratta dalla fragilità e dalla bellezza di una figura di cristallo, la figura di cristallo non è necessariamente una metafora costruita per esporre la fragilità della bambina e per mostrare il concetto di effimero come un bene prezioso. Non ho l’intento di creare la figura di cristallo per spiegare queste cose, eppure una volta che si vede la figura di cristallo ci si rende conto che quella figura parla proprio di quei temi. E questo è quello che accade anche con le parole che scelgo.

La tua ultima opera, Carrusel, nonostante tratti di un argomento molto diverso da O derradeiro libro de Emma Olsen, ricorre ancora alla prima persona, incarnando una protagonista scrittrice che narra una situazione di un grande impatto emotivo, da un punto di vista da cui traspare molta sincerità. Perché hai scelto questo espediente?

Mi è costato fatica arrivare alla narrazione in prima persona ne O derradeiro libro de Emma Olsen, perché la scelta comportava delle retrospettive letterarie complesse, ma finì per essere un’esperienza di scrittura molto interessante. Dopo ciò, l’ultima cosa che avrei voluto era scrivere un’altra novella in cui una protagonista scrittrice parlasse in prima persona, però questo è Carrusel, anche se in fin dei conti i due libri non hanno nulla in comune. Chiaramente desideravo scrivere un libro distinto dal precedente, un libro che scoprisse altre dimensioni, e sapevo che comunque un libro sarebbe stato paragonato all’altro. Però poi mi resi conto di quale enorme pretesa fosse quella di dover sempre presentare proposte letterarie diverse, con voci narranti diverse, con protagonisti che riflettono realtà differenti. Io non ho la missione o l’obbligo di essere versatile o di offrire repertori vari, con diversi stili, e pensati per essere il catalogo letterario di una casa editrice. Avevo voglia di continuare ad esplorare la prima persona, continuare a narrare seguendo questa voce finché non ne sarei stata stanca. Avevo voglia di farlo dal punto di vista della scrittrice, così come accade per molti protagonisti di Woody Allen, che agiscono e sono collocati nel mondo del cinema. Probabilmente tutto ciò è un modo egocentrico di scrivere. In ogni caso è un egocentrismo che non si deve nascondere. Preferisco questo a un altro tipo di egocentrismo in cui i personaggi sono scritti come se fossero schiavi delle nevrosi dell’autore.

Riprendendo il filo della domanda precedente, in Carrusel si confonde, nel patto narrativo, il confine tra letteratura e vita, e nello stesso tempo si legittima la libertà di chi scrive. “La vita è una cicatrice”, dice il testo. Quale credi che sia, o qual è per te, la relazione tra la letteratura e la realtà?

Mi rappresenta molto l’intravisione, la piccola scia di luce che entra dal bordo della porta quando resta socchiusa e che ci avvicina all’immagine che c’è dietro quella porta, che è reale e ricostruita allo stesso tempo, che può essere una fantasia o meno, sublime o miserevole, che può essere ciò che è o ciò che vogliamo vedervi, perché solo si intuisce, e non si conosce, cosa c’è dietro. Questo spazio è lo spazio in cui si può fare letteratura. Ed è uno spazio avvincente, come tutte le zone di frontiera.

In questa storia si percepisce una tensione tra molti contrari: la vita e la morte, il movimento e la paralisi, il presente e il passato, così come tra l’irrazionalità e la logica matematica o medica. Si può spiegare tutto con la scienza? Anche ciò che è una contraddizione?

Sicuramente la scienza è in grado di spiegare alcune contraddizioni meglio di quanto possa fare la letteratura, soprattutto perché la letteratura non ha, in sé, il compito di spiegare nulla. In ogni caso io non intendo la scienza, la matematica o la medicina come dei contrari dell’irrazionalità, e ancora meno come un’antitesi alla letteratura. A me interessa l’universo simbolico creato dalla matematica. Le scienze matematiche sono una costruzione umana e questo è qualcosa che mi spaventa e che mi meraviglia allo stesso tempo. Le scienze sono affascinanti come una figura di cristallo.

Tutta la tua produzione, e anche questa novella, provoca una commozione in chi legge. Ci si avvicina ai limiti del dolore, così come ad altre zone di confine. L’arte deve creare dolore, per poter essere arte?

No, non credo questo, e non credo nemmeno che i miei testi abbiano a che vedere solo col dolore o con cose terribili, se è così non ho raggiunto i miei scopi (e può darsi che sia così). Credo che ci sia un bisogno di bellezza, di meraviglia, ed è un bisogno che inseguo anche nella vita di tutti i giorni. Soprattutto mi sembra di ricercare l’onestà come un’ossessione. Quando si scrive con un bisogno di onestà (e con onestà, chiaramente, non intendo una relazione dettagliata della realtà) si raggiungono cose che non sono sempre piacevoli da mostrare, ma che sono vere. In ogni caso, non sono molto sicura di questo…

La tua opera è stata collocata nella letteratura dell’io. Ti senti a tuo agio in questa posizione? Qual è la letteratura, o l’autorialità, che senti più vicina a te?

Credo che quando scrivo cerco istintivamente un posto in cui mi sento scomoda. Non so se questo deve essere necessariamente così o meno. Molte volte penso di scrivere questa storia o quest’altra, di scrivere cose più confortevoli per me e per le persone che le leggeranno, perché è complicato farlo ed è bello ed è una sfida interessante e sarebbe stupendo poterlo farlo. Ma di fatto è qualcosa che ancora non ho mai fatto.

(traduzione di Silvia Corelli)

L'autore

Inma Otero Varela
Inma Otero Varela
Inma Otero Varela (Carral, 1976) è attualmente professoressa di Lingua e letteratura galega nelle scuole superiori. È stata lettrice di galego nell’Università “La Sapienza” di Roma dal 2003 al 2008. Collabora come critico letterario in “Grial” e “Novas do Eixo Atlántico*. Ha pubblicato studi sulla narrativa galega in svariati volumi e riviste scientifiche (“Critica del Testo”, “Anuario de Estudos Literarios Galegos”, “Boletín Galego de Literatura).