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Ilaria Dinale intervista Antonella Anedda

Antonella Anedda (Anedda Angioy) vive attualmente a Roma. Si è laureata in storia dell’arte a Roma studiando successivamente a Venezia e a Oxford. Ha lavorato con musicisti quali Paolo Fresu e artisti come Jenny Holzer. I suoi libri di poesia, da Residenze Invernali (Crocetti 1992) al recente Historiae (Einaudi 2019), hanno ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui i premi Montale, Viareggio e, recentemente, Bodini. Le sue traduzioni di poeti moderni e classici sono riunite nel volume Nomi distanti (Empiria 1998). È autrice di prose e saggi quali La luce delle cose (Feltrinelli 2000) e La vita dei dettagli (Donzelli 2009). I suoi libri sono tradotti in varie lingue da poeti come Jamie McKendrick, Jean-Baptiste Para ed Eiléan Nì Chuillenàin. Nel settembre 2019 le è stato conferito un dottorato honoris causa per l’opera letteraria dall’Università della Sorbona.

Voce di spicco nel panorama letterario italiano e internazionale, a distanza di anni dalla prima intervista, abbiamo nuovamente la possibilità di parlare con lei. Argomento principale di questa conversazione è il rapporto che intercorre tra poesia e ambiente, soggetto molto presente nei componimenti di Antonella Anedda. L’occasione di questo nuovo incontro è il Festival europeo della poesia ambientale, cui la poetessa prenderà parte.

«Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente. […] Al di là dall’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle persone colte, la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano» scriveva pochi anni fa Cvetan Todorov (La letteratura in pericolo, Garzanti, 2008). Nella sua esperienza, in che modo ritiene che la letteratura abbia contribuito alla sua formazione da un punto di vista umano?

Forse preferisco il verbo leggere al sostantivo letteratura.  Ricordo un libro che mi appassionava a nove anni, si chiamava La tela di Carlotta era la storia di un ragno femmina e di un maiale e della loro amicizia. Amavo lo spazio che quella storia scavava nella mia mente, era una forma di raccoglimento. Da allora alcuni libri continuano a procurarmi le stesse emozioni come un libro che si chiama Your Inner Fish: il suo autore, Neil Shubin, un paleontologo, parla della scoperta del tiktaalik, il fossile di un pesce che testimonia il passaggio dalle acque basse alla terra, dalle branchie al respiro. È riuscito a farlo grazie al fatto di aver sviluppato nelle pinne la forza di quelli che sarebbero diventati i gomiti. Qui trovo poesia. Detto questo, non sono sicura che essere diventati umani sia una conquista. Molte disumanità sono state compiute in nome dell’umanità e la letteratura ne è stata spesso e purtroppo complice. Molti problemi derivano dal crederci padroni dell’universo, da un antropocentrismo che ci fa pensare che il mondo sia fatto per noi, però leggere, scrivere possono renderci più consapevoli delle nostre insufficienze, arroganze, miserie, fallimenti. Credo nella lettura come saggio di se stessi.

Che cosa significa per lei, in veste di poeta, l’ambiente? 

Dipende da cosa si intende. Se è ciò che ci circonda per chi scrive significa tutto. Scriviamo di ciò che vediamo e sperimentiamo, siamo cultori dei fenomeni, amanti della meteorologia – osservatori del fluire delle cose.

Ritiene che la poesia ambientale possa avere un ruolo sociale?

No, non credo la poesia in genere debba avere un ruolo. Ogni definizione mi lascia perplessa, come qualsiasi altro aggettivo, allo stesso tempo tutta la poesia è ecologica proprio nel senso di una casa che accoglie le relazioni tra umani, animali, piante, pietre.

Scrivendo sappiamo che la geografia è continuamente ferita, il paesaggio offeso, che la storia è un ininterrotto massacro, ma allo stesso tempo che la natura è forte. È la riflessione che attraversa l’opera di Zanzotto. I poeti non sono vati ma conglomerati.

In che modo la sua esperienza personale ha contribuito alla sua produzione poetica, in cui il tema dell’ambiente è spesso centrale?

Chi scrive, chi scrive poesia non può non dirsi ambientale. Proprio per questo credo di non essermi tanto “avvicinata” a questo tema quanto di essere stata sempre e fin da subito lì, in quella “casa”. Nel corso degli anni si è intensificata la mia coscienza ecologica e quindi politica. la riflessione sul paesaggio e sulle sue ferite. Come Sarda sono particolarmente sensibile alle offese nei confronti del territorio che hanno purtroppo una lunga tradizione: basterebbe pensare al disboscamento sistematico, allo sfruttamento dell’isola a partire dalla fine del Settecento da parte del regno di Sardegna. Penso che una riflessione sull’ambiente non possa prescindere da una denuncia della logica di profitto e sopraffazione che domina il pianeta e riguarda tutti ma in particolare i soggetti più deboli.

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Sapereambiente

L'autore

Ilaria Dinale
Ilaria Dinale
Ilaria Dinale si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” con una tesi dal titolo “Scritture poetiche e narrative nei social network. Panorami italiani”. Presso il medesimo ateneo attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Linguistica.

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