Interventi

Di peccati veniali, mortali e di una piccola indulgenza. Gunnar Gunnarsson, Beati sono i semplici

In un’età in cui l’escapismo trae nutrimento dalle nostre paure sui mutamenti climatici, pandemie e altre disgrazie provocate dall’homo sapiens, uno dei luoghi primigeni per eccellenza (ritenuto tale, ma che di edenico oramai non ha più nulla), in cui espiare – almeno mentalmente – le nostre colpe nei confronti della deturpata Natura, è sicuramente l’Islanda. Va di gran moda, l’isola posta fra continente europeo e Groenlandia. Basti osservare le vendite di guide turistiche, resoconti di viaggio, numeri monografici, per rendersi conto che quella terra non è più remota (come invece si ostinano a venderci pubblicitari e agenzie viaggi) e che oramai è affollata, nei mesi estivi, al pari della riviera romagnola: nella patria del Sangiovese ci si denuda per la tintarella, laggiù ci si spoglia per immergersi in vasche termali e spalmarsi di fango, ma il pigia-pigia è analogo!

Tutto già scontato, allora, tutto già bruciato? Direi di no. Basta cercare un po’. Usciamo dai clichés, allontaniamoci da geysir, dalle cascate, dalle “imperdibili” esperienze con gipponi (salvo premunirsi di batterie per il cellulare, non si sa mai che non si rimanga inchiodati in un guado o giù per una scarpata!). Abbandoniamo il sublime, l’esperienza di aver parlato con il più sperduto pescatore di aringhe che vive -apparentemente! – isolato perché debbo compiere l’esperienza unica, irripetibile e, soprattutto, quella che nessuno ha già vissuto. Basta, non se ne può più di questa Islanda finta e stereotipata!

È la letteratura islandese che ci riserva le vere sorprese, l’avventura vera. Non sto parlando delle saghe nordiche (anche qui, però, guai a pubblicare quelle complicate, che poi non si capiscono!) ma di tanta produzione che raramente raggiunge l’italiano, prigioniera di un idioma certamente complesso: recuperabile solo tramite traduzioni in qualche altra lingua scandinava o, al limite, in tedesco, più raramente in inglese, francese, e così via. Perdiamo ancora tanto di quel patrimonio letterario, che solo la lungimiranza di editori avveduti può colmare almeno in parte.

Un esempio per tutti. Se andate nelle librerie di Reykjavík farete fatica a trovare le opere di uno scrittore che ha invece spopolato nella prima metà del Novecento, Gunnar Gunnarsson (1889-1975). Le recupererete invece con facilità nelle librerie antiquarie, quasi che ci si sia voluti liberare di lui: chi proprio vuole leggerlo, se lo vada a cercare tra le polveri degli scaffali. In effetti Gunnar ha commesso due peccati, uno veniale, l’altro mortale.

Partiamo dalla pena lieve: è lo scrittore dell’idillio pastorale, ovverosia appartiene a quella corrente letteraria, fortissima tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, in cui si decanta l’islandesità pura, che va cercata nelle campagne, nelle fattorie, dove la vita trascorre armoniosa in un rapporto solidale tra persone, animali e ambiente naturale. Tutto falso, ovviamente: l’Islanda è stato uno dei paesi occidentali più poveri in assoluto (a causa anche di un terribile monopolio commerciale imposto dal regno di Danimarca che ha governato, meglio dire colonizzato, l’isola fino al 1944): nelle campagne si abitavano stamberghe di torba, si dormiva accalcati in un’impressionante promiscuità uomo-animale. Sarà Halldór Laxness (1902 – 1998) a smontare, pezzo per pezzo, quell’idillio immaginato e a proporre ai suoi lettori una realtà ben diversa: bigotta, ignorante, povera, insomma, da riscattare alla luce della modernità.

Ma a causa di una certa predilezione per l’idillio, che a lungo ha accompagnato la nostra letteratura nazionale, Gunnar Gunnarsson ha incontrato traduzioni di alcune sue opere a partire dagli anni ’30 (L’uccello nero, 1936, Mondadori, trad. Giacomo Prampolini) ma soprattutto negli anni ’40: La famiglia di Borg (1942, trad. Augusto Guidi); Navi sul cielo (1943, Bompiani, tradd. Gianni Puccini e Vittoria Nobile): questi ultimi due conoscono addirittura più edizioni sino al 1945. Traducono dal danese, però, perché Gunnar, trasferitosi in Danimarca alla fine dell’adolescenza, adotta la lingua di Andersen per le sue opere. Successo grandioso; i danesi colgono in quei lavori un che di esotico, che piace: Islanda, terra remota e magica, si direbbe (siamo ancora al quel punto nel 2020, meditate, gente!). Dal danese i suoi lavori arrivano all’islandese, talvolta ci mette mano lui stesso ma, soprattutto, trova spazio editoriale nella confinante Germania e l’approdo al tedesco gli dona sì la fama, ma lo trascina nel faustiano peccato mortale, quello che gli guadagnerà poi un ostile ostracismo culturale.

Berlino, 1940 - Gunnar Gunnarsson dinnanzi al Cancellierato
Berlino, 1940 – Gunnar Gunnarsson dinnanzi al Cancellierato

Nel 1936, lo stesso anno in cui Jesse Owens trionfa, dinnanzi a uno stizzito Hitler, sulla sabbia olimpica di Berlino, un filologo germanico, Helmut de Boor, propone la versione tedesca di Advent (Advent im Hochgebirge), breve romanzo del nostro Gunnar. Esce addirittura prima in tedesco e soltanto un anno dopo in danese e, infine, in islandese. Helmut de Boor, docente a quel tempo all’università di Berna, non nasconde di certo le sue simpatie naziste, anzi, è informatore dell’ambasciata tedesca in Svizzera sulle tendenze politiche dei suoi colleghi, ragione che gli causerà l’allontanamento dall’università elvetica nel 1945. Gunnar non è da meno: simpatizzante del nazionalsocialismo, aderisce alla Lega Nordica che, con l’ascesa al potere di Hitler nel 1933, diventa uno strumento di penetrazione culturale (meglio dire, pseudo-culturale) nell’area scandinava, favoleggiando la necessità di rinsaldare quel Germanentum, quella comune matrice identitaria germanica e pagana che univa tedeschi e nordici. Gunnar tiene conferenze in Germania e Danimarca sul tema del germanesimo, si fa servo del nuovo ordine (ci sono anche fotografie compromettenti che lo immortalano mentre esce dal Cancellierato tre mesi prima dell’occupazione tedesca della Danimarca nel 1940), ma proprio allo scoppio del conflitto mondiale se ne torna in Islanda, dove si era fatto costruire una villa nelle campagne, intendendo ricreare quell’idillio agreste di cui aveva tanto scritto. La realtà, ovviamente, lo deluderà: finirà i suoi giorni, negli anni ’70, inurbato a Reykjavík. Lasciato il continente europeo non scriverà pressoché più nulla: il peccato mortale dell’abbraccio con il male assoluto condanna i suoi libri alle polveri dei magazzini: non lo si ristampa quasi più, a parte Advent, che diviene una sorta di strenna natalizia di grande successo, tradotta in più lingue (finalmente anche in italiano nel 2016 da Maria Valeria D’Avino col titolo Il pastore d’Islanda, Iperborea). Nel trentennio in cui chiude la sua vita sull’isola natia, si dedica pressoché solo all’autotraduzione in islandese dei suoi lavori: fuori dal tempo, dimenticato all’estero, valutato con imbarazzo in patria: un suo conterraneo, Jón Kalman Stefánsson, sta spopolando nei festival letterari e nelle librerie, nel momento in cui scrive una postfazione ad Advent non accenna mai al pesante passato di Gunnar. Eloquente imbarazzo.

Perché allora vale la pena occuparsi di uno scrittore macchiatosi di peccati veniali (che gli permettono la sua noiosa sopravvivenza nei manuali di storia della letteratura islandese) e dei più gravi peccati mortali (a meno che non ci interessi rispondere all’interessantissima domanda se l’arte e le convinzioni politiche debbono essere trattate separatamente)? Vedi i casi ben più noti di Ezra Pound, o, per restare in area nordica, di Knut Hamsun. Gunnar non è sempre stato cantore dell’idillio e nazista, questo interessa. Altro infatti si coglie fra gli interstizi della sua vita di scrittore rendendolo di un’attualità sconcertante.

Difficilmente qualcuno di voi avrà  incrociato questo titolo: Salige er de enfoldige (Beati sono i semplici), opera in danese di Gunnar pubblicata nel 1920, poi tradotta in islandese nello stesso anno da Vilhjálmur Þ. Gíslason (Sælir eru einfaldir), in tedesco nel 1921 dapprima col titolo Der Haß des Pall Einarsson (traduce Else von Hollander) e poi ripubblicata nel 1927 col titolo Sieben Tage Finsternis, scelta adottata anche da Robert Tapley per la sua traduzione in inglese nel 1930 (Seven Days’ Darkness).

Cento anni ci separano da quel romanzo, ma forse mai opera è stata così attuale. Un secolo fa terminava, improvvisamente così come era arrivata, l’epidemia conosciuta come ‘influenza spagnola’: pandemica. In Islanda il contagio si propaga a partire dal 19 ottobre 1918, quando attraccano a Reykjavík due navi, una proveniente dalla Danimarca, l’altra dagli Stati Uniti. Dalla prima sbarca una donna che andrà a insegnare in una scuola locale: è il probabile paziente zero. I primi morti si registrano circa due settimane dopo, il 1° novembre. Quasi contemporaneamente, il 12 ottobre, sette giorni prima dell’arrivo dell’influenza spagnola sull’isola, aveva eruttato il vulcano Katla, nel sud dell’isola. L’eruzione durò 24 giorni e fu ben visibile anche dalla capitale.

Salige er de enfoldige si sviluppa lungo sette giorni, da un lunedì alla domenica, e coinvolge un io narrante, Jón Oddsson, che rammenta le vicende del suo intimo amico Grímur Ellidagrímur, medico impegnato in prima linea a contrastare la pandemia. Non si tratta, però, di un diario, di un racconto cronachistico, ma piuttosto di una testimonianza della progressiva perdita di sicurezze del dottore, cresciuto nelle certezze delle conquiste portate dal progresso, contro un nemico che non si lascia piegare. A demolire Grímur, mattone dopo mattone, interviene un ulteriore elemento esterno, questa volta tutto umano: il mefistofelico Pall Einarsson, antico corteggiatore della moglie di Grímur che, anch’egli come un virus, si insinua nella vita della coppia ad avvelenare quello che fino a quel momento era un solido matrimonio. Grímur si fa sempre più sospettoso, incerto, geloso di un possibile tradimento: quanto Strindberg dietro questi coniugi! Ma non c’è solo questo. Crollano le sicurezze del progresso, dell’uomo proiettato a plasmare la sfera su cui muove i propri passi: “In fondo noi conduciamo su questa nostra piccola terra un’esistenza meravigliosa. Su di una sottile ciotola che circonda un nucleo infuocato viviamo in un’atmosfera che circonda la terra come l’odore di un frutto; viviamo e creiamo, silenziosi e indipendenti, come ciò che già siamo: la più nobile creatura di Dio, come se fossimo i signori della creazione. Poiché questo crediamo di essere dinnanzi ai nostri occhi. E con qualche cautela si può mantenere questa illusione.”: sono riflessioni del narratore nel primo giorno, ma la realtà della settimana lo smentirà amaramente.

1918 Eruzione del vulcano Katla
1918 Eruzione del vulcano Katla

Il Katla erutta, e satura di ceneri l’atmosfera, oscurando il cielo: all’orizzonte la montagna si erge con le sue nuvole di fumo e lame di fuoco che ora si proiettano nello spazio, ora discendono i declivi. Il vulcano, minaccioso, appare però lontano, come se la sua virulenza non toccasse le vite degli abitanti di Reykjavík, di certo usi a fenomeni di questa natura. Esperienza del tutto ignota è invece l’incontrollabile propagarsi della malattia, che cancella le esistenze e mette in discussione chi siamo e cosa facciamo nel mondo. Nel corso della settimana seguiamo Jón e Grímur di casa in casa, intenti a prodigare cure, spesso palliative, a corpi sudati e febbricitanti, a uomini e donne stremati sui propri giacigli, fiaccati, cui bisogna portare cibo, ascoltandone impotenti la disperazione. Si entra nei tuguri ove l’inurbamento dalle campagne aveva relegato un crescente proletariato, si accompagnano gli amici verso la morte, guardando i loro occhi sbarrati dinnanzi al vuoto che si spalanca davanti a loro.  Grímur non reggerà la sfida, e domenica mattina, cogliendo – da medico – segni evidenti della sua perdita di ragione si fa rinchiudere in manicomio da dove, forse, non emergerà mai più. All’amico Jón, alla moglie, che assistono al decadimento mentale del marito e amico, non resta che vivere anni di attesa, nella speranza che Grímur possa recuperare la salute mentale, ovvero, la fiducia in un futuro migliore del presente in cui si è trovato a vivere.

Salige er de enfoldige non è il resoconto di una pandemia, la cui presenza, anzi, man mano che si procede nella lettura, si fa meno pressante, collocandosi sullo sfondo della scena. Al centro c’è, invece, sempre l’uomo còlto nel suo dilemma esistenziale, tutto novecentesco, sul senso della vita e sulla perdita delle certezze.

Tanto si è rammentato in questi giorni Camus con la sua La peste, ma già Gunnar Gunnarsson lasciava scoprire parallelismi con la nostra pandemia che appaiono profetici: c’è la medesima assenza di bare, le medesime fosse comuni, la medesima impossibilità di celebrare funerali. Ma soprattutto Salige er de enfoldige è interessante perché tratta anche di ciò che potrebbe lasciare dentro di noi la pandemia: l’insicurezza, il senso di sconfitta, la percezione di sentirsi inadeguati e in balìa degli eventi, l’obnubilamento psichico.

Reykjavík nel 1920
Reykjavík nel 1920

Dall’Islanda giunge, a distanza di 100 anni, un romanzo interessante, che lascia riflettere; avrebbe soltanto bisogno di un buon traduttore e di un editore che comprendesse che “l’isola dei ghiacci” non è popolata di troll ed elfi, che non è lo scenario perfetto per trame fantasy (o addirittura pensare, come si trova ogni tanto in giro su internet, che la sua letteratura può essere accostata ai lavori di Tolkien o, peggio ancora, a The Games of Thrones) ma piuttosto che da quel luogo giungono opere che merita valorizzare, al di là dei clichés dell’esotico, del sublime, del mitico, selvaggio Nord. Forse, fra i suoi tanti peccati, veniali e mortali, una piccola indulgenza al nostro Gunnar gliela si può concedere per quel romanzo che ci piace ancora leggere in questi tempi di coronavirus.

Nota bibliografica

Gunnar Gunnarsson, Salige er de enfoldige, København, Gyldendal, 1920 (trad. islandese: Sælir eru einfaldir, Reykjavík, Þorsteinn Gíslason, 1920; trad. tedesca: Der Haß des Pall Einarsson, Berlin, Guldendal’scher Verlag, 1921 ristampato col titolo Sieben Tage Finsternis, Berlin, Universitas, 1927; trad. inglese: Seven Days‘ Darkness, New York, MacMillan, 1930; auto-traduzione in islandese: Sælir eru einfaldir, Reykjavík, Almenna bókafélag, 1976).

a.zironi@unibo.it

 

L'autore

Alessandro Zironi
Alessandro Zironi
Alessandro Zironi è professore ordinario di Filologia Germanica presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Nella sua carriera accademica ha prestato servizio anche presso gli atenei di Padova e Ferrara. Possiede il titolo di dottore di ricerca in Germanistica (Filologia germanica). La sua attività di ricerca si concentra sulle lingue e letterature gotica e longobarda; sulla ricezione e riscrittura della tradizione culturale germanica in età moderna e contemporanea; sugli aspetti culturali germanici all’interno dei testi alto medievali. Si occupa inoltre delle relazioni fra la cultura germanica all’interno del più ampio contesto rappresentato dal mondo europeo medievale. Analizza i testi germanici con metodologie filologiche, linguistiche e comparative al fine di recuperare il contesto culturale in cui furono prodotti e/o copiati.

Fra le sue pubblicazioni: L’eredità dei Goti. Testi barbarici in età carolingia (Spoleto 2009); Il monastero longobardo di Bobbio. Crocevia di uomini, manoscritti e culture (Spoleto 2004); I Longobardi gente germanica, in I Longobardi in Italia: lingua e cultura (Alessandria 2015); William Morris and the Poetic Edda, in Studies in the Trasmission and Reception of Old Norse Literature (Turnhout 2016); Il Carme di Ildebrando: un padre, un figlio, un duello (Milano 2019).