Paolo Albani, scrittore, poeta visivo, patafisico e performer conteso da enti e istituzioni sa giocare anche con la propria autobiografia. Dopo aver citato lo scrittore americano James Alber Roover per il quale la lunghezza di una biografia è inversamente proporzionale all’importanza del biografato, stende le sue note con abile e sapiente intreccio. Poche le parole di corredo ma numerosi sono i link che approfondiscono varie tematiche proprie della sua vicenda di autore e di artista. Cliccando sui molti link ci si inoltra infatti tra i temi che compongono la sua personalità e ne emerge la sua rilevanza di intellettuale di punta. Promotore di molte iniziative e sostenitore di svariati laboratori, Paolo Albani è intellettuale infaticabile anche nell’attività didattica che svolge presso importanti Università così come nella produzione editoriale vastissima e di profonda eco con, tra le altre sue pubblicazioni, il noto manuale Aga magéra difúra. Dizionario delle lingue immaginarie edito da Zanichelli e più volte ristampato. È fra i pochi autori italiani ad avere un’opera nel prestigioso catalogo delle Belles Lettres. Membro dell’ OpLePo (Opificio di scrittura Potenziale) è direttore della rivista «Nuova Tèchne», e la sua dedizione artistica si tende fino all’attività di performer e alla creazione di libri-oggetto / libri d’artista a proposito della quale sono innumerevole le mostre a lui dedicate. Molti i collezionisti che si contendono suoi lavori.
Sei membro dell’OpLePo (Opificio di Letteratura Potenziale) un’“accademia” di studiosi che operano in un laboratorio di letteratura che si dedica ad aspetti della scrittura creativa. Una caratteristica e nel contempo gioco letterario è il suo imporsi dei limiti nella creazione delle proprie opere. Come ti rapporti a questa scelta letteraria; che valore ha il limite per te e come può avere senso nella società?
Italo Calvino, che scherzosamente definiva l’OuLiPo francese, di cui lui stesso era membro, “una specie di società segreta”, sottolineava come la costrizione sia strumento creativo, che amplifica le possibilità di raggiungere soluzioni originali, bizzarre: l’essere «costretti» a seguire certe regole induce uno sforzo di fantasia; la costrizione non restringe l’orizzonte delle strategie narrative dello scrittore, al contrario ne allarga le «potenzialità visionarie», paradossalmente è «un inno alla libertà d’invenzione», capace, come «il meccanismo più artificiale», «di risvegliare in noi i demoni poetici più inaspettati e più segreti». Inoltre un aspetto affascinante delle regole è che puoi sempre trasgredirle, aggirarle, metterle in berlina. Non ci sono limiti in letteratura, e ciò vale per la musica e per le arti visive, le combinazioni di parole, accordi e sfumature coloristiche che si possono creare sono infinite, con il minimo di strumenti (21 lettere dell’alfabeto italiano, 4 colori primari, 7 note).
In un’intervista ti sei definito «scrittore stupido». Il prendersi alla leggera in maniera scanzonata è un modo per esorcizzare la tua rilevanza o è invece un tentativo di far passare tutto sotto l’alone fanciullesco del gioco?
Sono convinto che il non prendersi troppo sul serio sia un modo di approcciarsi alla vita e alle spericolatezze delle nostre attività culturali con la giusta dose di leggerezza e distacco, il che non significa affrontarle senza impegno. La stupidità poi è un affare da non prendere sotto gamba. Diceva Erik Satie: “Se si è stupidi, bisogna esserlo sul serio”. Artista silenziosa, come la chiamò Musil, la stupidità presenta una gamma imprevedibile di potenzialità creative dissacranti. È “la Bestia Trionfans che immancabilmente fa uscire la saggezza dalla sua tana” (Oscar Wilde). Insomma non si può dimenticare che esiste una stupidità assennata, non malvagia (“gli stupidi non avrebbero mai inventato le bombe atomiche né la polvere da sparo”), una stupidità capace di trasformarsi in arma critica rivolta contro la falsa saggezza dei potenti e di lasciarsi usare da figure d’antieroi quali Don Chisciotte, Bouvard e Pécuchet, il buon soldato Švejk ecc., o da movimenti d’avanguardia come Dada. È con questo tipo positivo di stupidità (di chi ancora si stupisce, come il principe Myškin, il protagonista de L’idiota di Dostoevskij) che ognuno di noi deve fare i conti, in modo intelligente.
Tra i vari giochi letterari, Perec utilizza ad esempio quello degli scacchi in Vita istruzioni per l’uso. Puoi dirci qual è il tuo gioco letterario preferito e se questo ti ha condizionato?
Fra i giochi letterari, quello che preferisco senza alcun dubbio è il lipogramma, un gioco antichissimo che consiste nello scrivere un testo senza usare una o più lettere, come ha fatto Perec nel romanzo La disparition, scritto senza far ricorso alla lettera “e”, la più usata in francese. Con questa nutriente tecnica, che ti costringe a un notevole sforzo di fantasia (se in un lipogramma in “a” non posso usare l’espressione “naso a punta” dovrò inventarmene una nuova: “un prorompente punteruolo per sentire gli odori, lungo come quello di Pinocchio”), ho riscritto, fra le altre cose, un riassunto di Bartleby lo scrivano di Melville, senza usare la “e”, con il titolo: Lo strano caso di un copista non collaborativo. In questi giorni di quarantena ho persino riscritto, sempre omettendo la “e”, uno dei moduli di autocertificazione (AUTODICHIARO IN CONFORMITÀ AGLI ARTT. 46 – 47 D.P.R. N. 445/2000), e pensa che qualcuno non si è accorto della lettera mancante.
I tuoi libri forse si definiscono erroneamente libri-oggetto, non sarebbe forse meglio dire che sono oggetti chiamati libri?
I miei libri, realizzati in vari materiali (in forma di sveglia per parodiare un libro d’ore, di appendiabiti, giocando sulla vicinanza abiti/alibi, per fare un libro poliziesco, o di strumento per sollevare pesi per un libro per lettori forti, ecc.), sono un luogo labirintico, giocoso, dove sperimentare una lettura paradossale e ricreativa del reale. Nei miei libri mi ingegno sempre di combinare il comico e il riflessivo, l’aspetto umoristico e quello di stimolo a associazioni immaginifiche, irragionevoli e trasgressive.
Tu sei scrittore curioso, bizzarro ed estroso, che quasi sempre evita parole per i suoi libri. C’è un motivo per cui i tuoi libri non hanno scritture?
La ragione dell’assenza di “scrittura” nei miei libri d’artista credo risieda nel fatto che preferisco che sia la materia, manipolata e assemblata in modo curioso, a parlare da sola, senza parole (che a volte appaiono arnesi arrugginiti), come accade ad esempio nei libri di Munari dove è un banale foglio opaco a darci la sensazione visiva e tangibile della nebbia. Di recente poi mi sento affascinato dai non-libri (Non libro è anche il titolo di un testo di Cesare Zavattini, autore che amo molto), cioè da una ricerca che parli del libro in assenza di una rappresentazione del libro stesso, come ho fatto in un’opera intitolata Impronta di libro cartaceo (sec. XXI) del 2011 dove, dentro una bacheca, è riprodotta su uno strato di terriccio l’impronta della forma di un libro cartaceo, immagine che ricorda l’impronta lasciata da un animale preistorico, presagio della scomparsa, in un futuro forse non troppo lontano, del libro di carta. Sono suggestioni che mi derivano da recenti letture sul tema del vuoto, un concetto che rientra in quella famiglia di concetti – «famiglia» nell’accezione di Wittgenstein che implica affinità, corrispondenze, analogie – che include il silenzio, il nulla, il buio, il nero, il non detto, l’assenza.
Sulla scia di artisti illustri come Bruno Munari, anche i tuoi libri sono un dialogo tra arte e gioco sebbene il tuo gioco appaia più ricco di contaminazioni. Si colgono infatti diversi messaggi dai tuoi libri. Pensi possano ravvisarvi anche messaggi etici?
Sai, sul messaggio in arte, come pure in letteratura, mi viene subito in mente quello che dice Nabokov: “La consegna dei messaggi la lascio al mio postino”. Questo per dire che non ho alcun messaggio, tanto meno etico (il rischio del “moralistico” è sempre incombente), nelle cose che faccio. Ho sempre avuto un atteggiamento diffidente verso gli artisti che “indicano la strada da intraprendere”, che profetizzano, che dispensano modelli da imitare. Mi riconoscono più in un Walser che vuol essere dimenticato o in un Duchamp che a un certo punto smette di fare l’artista e si dedica al gioco degli scacchi. Non ce l’ha ordinato il dottore di fare gli artisti a vita.
In un tuo catalogo si legge che da «produttore di informazioni» il libro diventa «produttore di sensi». Per un giocoliere della parola quale tu sei, come si pone il togliere dal libro un linguaggio incomprensibile e inespressivo per creare e stabilire una comunicazione nata non dalle parole bensì dai sensi, dando così una forma alle sensazioni? Nei tuoi esemplari unici è la forma che contiene il contenuto o è il contenuto a dare forma al libro?
Eh l’annosa (irrisolvibile?) questione del rapporto forma-contenuto. Ti posso solo dire, in breve, che le idee per comporre i miei libri d’artista nascono da cortocircuiti casuali, da associazioni sonore, da lapsus imprevedibili, da errori che sfiorano l’umorismo involontario, la forma più sublime secondo me di umorismo. Pensa ad esempio a Ponson du Terrail, l’autore della serie di romanzi dedicati alla figura di Rocambole, che mi piace sempre citare. Ponson du Terrail scrive: “Con la mano destra afferrò il pilota, con la sinistra strinse a sé la fanciulla, e con l’altra chiamò al soccorso!”. Meraviglioso, no? Ecco, i miei libri d’artista muovono spesso da un gioco linguistico – visivo, sonoro o letterario – che assumo (già a partire dal titolo, fondamentale per me, che considero parte dell’opera stessa) cercando di mettere in luce e valorizzare le potenzialità fruttuosamente ambigue, insolite del linguaggio. Per fare questo, cioè per trasformare il linguaggio in un oggetto ludico, sono disposto a tutto, a effettuare ogni tipo di rovesciamento, sovvertimento e deviazione del codice linguistico, usando le tecniche più disparate, fino a scalare (metaforicamente perché sono pigro) le vette meravigliose del nonsenso.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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