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“A pensare che ho suonato con Pasolini e De Gregori…”. Giulio Pantalei dialoga con Giovanna Marini

Giovanna Marini con Ascanio Celestini
Giovanna Marini con Ascanio Celestini

Giovanna Marini è la più importante cantautrice engagé dal dopoguerra a oggi in Italia, protagonista del Nuovo Canzoniere Italiano e della riscoperta del canto popolare nelle pagine più significative dell’etnomusicologia e del folklore nostrani. Diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia in chitarra classica e allieva nientemeno che di Andrès Segovia, l’artista romana ha suonato e collaborato con alcuni tra i maggiori esponenti del panorama culturale nazionale, da Francesco De Gregori a Francesco Guccini, da Pier Paolo Pasolini a Dario Fo, da Citto Maselli (si ricordi almeno la memorabile colonna sonora di Lettera aperta a un giornale della sera) ad Ascanio Celestini. Entrare in casa sua è come entrare in un piccolo grande museo del folklore, tra centinaia di libri, spartiti e manufatti popolari provenienti da tutto il mondo intervallati dai numerosi strumenti musicali che popolano l’abitazione assieme a due affettuosi gatti. Mi accoglie dicendo che ha dato un’occhiata al mio articolo sulle vilote in friulano di Pier Paolo Pasolini e che le è piaciuto, non sapeva che ne avesse scritte di sue; con una certa inevitabile emozione che affiora, accendo il registratore.

Cara Giovanna, grazie davvero per questo incontro. Puoi condurci in medias res nel dibattito tra musica, letteratura, antropologia e politica nel decennio che va dal 1958 al 1968, in quella decade di profondissima trasformazione per l’Italia e per il mondo intero?

Il dibattito era molto acceso, soprattutto tra due fazioni, se vogliamo, perché parliamo proprio di due idee diverse: una era quella di Roberto Leydi, l’altra quella di Gianni Bosio. Tra l’una e l’altra c’era Michele Straniero e Cantacronache, con Jona, Calvino, Liberovici e Amodei; Michele osservava e prendeva raramente la parola, ma secondo me era quello che andava ascoltato di più.

Gianni Bosio era arrivato da un’idea molto legata alla sua realtà, lui veniva da Acquanegra sul Chiese e aveva raccolto attorno a sé i ragazzi di Piadena – tra parentesi, in quel triangolo tra Parma, Cremona e Mantova sono vissuti i migliori educatori italiani (a parte Don Milani in Toscana), ovvero Don Primo Mazzolari, Mario Lodi e non dimentichiamo che da lì passo anche Rodari – perciò anche Bosio, che proveniva da quell’ambito, ha incominciato a lavorare sul territorio con i giovani, innanzitutto facendo fotografie e raccogliendo racconti.

L’altro lavoro costante l’ha fatto Roberto Leydi, un amatore incredibile di tradizioni e di oggetti, anche di pupi siciliani, andare a casa sua era come entrare in un museo, con la cultura dell’appassionato vero che solo dopo si è avvicinato alle dinamiche del vero e proprio studioso in un lento avvicinarsi alla cattedra di Bologna, dove poi divenne un grande professore. Era perciò diverso da Gianni, che era un convinto antifascista, sicuro delle sue idee e legato a tutta l’avventura di Feltrinelli, tanto è vero che noi in quanto Istituto De Martino e prima ancora “Edizioni Avanti!” eravamo legati al Partito Socialista, dal momento che buona parte dei fondi ce li ha dati Pietro Nenni in persona. Anche Feltrinelli ci ha sostenuto molto.

L’altra figura dentro a questo movimento, di cui si parla sempre meno, era Giovanni Pirelli [NdA: figlio di Alberto e nipote di Giovanni Battista, fondatori dell’omonimo impero degli pneumatici] che rifiutò l’eredità del padre ma che volle dividere la legittima col Centro Frantz Fanon in Africa, con le Edizioni Avanti! e con una casa discografica molto sofisticata di edizioni rare di musica classica diretta da Angelo Efrikian, il grande musicologo, padre di Laura Efrikian moglie di Gianni Morandi. Pensa che tempi e che ambienti!

Dunque, oltre alla formazione certamente differente, quale fu storicamente e nella pratica la diversità tra le due (o tre) “scuole” di cui mi parli? Ci fu anche tanta cooperazione, in un certo senso, perciò come si relazionavano tra loro?

In sintesi, possiamo dire che Roberto Leydi negli anni si legò a una “linea dei Professori”, inaugurata se vogliamo da Carpitella e Cirese, che divennero negli anni baroni universitari che alla fine litigavano sempre tra di loro avendo però un piano comune di ricerca e più o meno di metodo; Gianni Bosio, Pirelli e Della Mea erano invece parte di una “linea politica”, che affrontava tutto su un piano militante. Carpitella e Cirese si tenevano le loro ricerche in università, noi – convincendo anche Roberto – volevamo portarle tra la gente e nella società.

Straniero si barcamenava tra l’uno e l’altro perché i Cantacronache non erano entusiasti della prima linea, quella dei “baroni”, anzi hanno sempre guardato con sospetto il mondo dell’università, perché appartenevano a un altro contesto che era sì colto ma non di quel lignaggio accademico di potere, cresciuti com’erano in una intellighenzia torinese e specificamente ebraica che trovava in Emilio Jona un punto di riferimento, un impianto nella forma mentis.

Quindi c’erano tre linee tutte diverse ma tutte legate alle Edizioni Avanti!, a dimostrazione di un pluralismo delle voci incredibile. Per me la cosa più interessante era proprio questo fatto… assistere ai dibattiti e molto spesso alle litigate, compresa quella fatale dopo che piombò fra noi Dario Fo, entrato nel ’65 perché entusiasta del nostro spettacolo Bella Ciao. Figurati se si perdeva l’occasione di mettere su qualcosa di analogo ma secondo il suo stile, sfruttando il successo che aveva avuto Bella ciao, in cui però di fatto noi stavamo fermi tutto il tempo. Secondo me e secondo tutti era molto bello così. Ma lui voleva dare una dimensione più teatrale, portare il movimento e in effetti si inventò una sorta di coreografia musicale efficace, coi movimenti del lavoro alienato trasfigurati e inventati da lui, sempre sopra le righe ovviamente.

Quindi fu Dario Fo ad agire in qualche modo come catalizzatore per la rottura all’interno del vostro collettivo?  

L’arrivo di Dario fece esplodere tutte le contraddizioni al nostro interno perché lui le canzoni popolari se le inventava addirittura, non gliene fregava niente che fossero autentiche. Mi chiamava alle tre di notte, mi svegliava e mi diceva in tutta fretta: “Marini mi serve una bellissima aria antica, una lauda veneta magari”. E io rispondevo: “Dario, non capisco, vuoi che te la cerchi o cosa? Perché a me non va di andare in Biblioteca Vaticana a cercartela eh…”; e lui “No, no, ma che cercare, fammela tu, inventamela in una mezz’ora e mandamela”. Sapeva di poter fare breccia su di me perché ero letteralmente innamorata di questi falsi, delle rivisitazioni e a questo punto io gli chiedevo ironicamente: “Sì, ma il testo? Mi mandi tu un autentico, immagino…?”. E lui col suo vocione beffardo rispondeva: “Te lo mando subito, certo, autentico!”. Eravamo scriteriati e iconoclasti in questa fase, quelli visti dagli altri come un po’ matti.

A questo punto Roberto Leydi litigò a morte con Gianni Bosio perché quest’ultimo ci teneva incredibilmente a fare lo spettacolo, ma seguendo una linea più “politica” perché come abbiamo detto prima non gli interessava che i canti fossero autentici o filologicamente ricostruiti, per lui era il contenuto a fare la differenza. Nella fattispecie, poi, doveva badare anche al lato economico perché questi spettacoli servivano a tenere in piedi le Edizioni stesse. Non era interessato ai soldi per prenderseli, ma per poi poter pubblicare dischi e opere che commercialmente non avrebbero avuto nessun successo, come quello dell’astigiana Maria Teresa Viarengo sulle ballate del Nigra (dal titolo Il cavaliere crudele), che era noiosissimo onestamente ma che lui voleva tuttavia garantire per il valore storico che aveva, ad esempio. Ma tornando all’arrivo di Dario Fo e alla litigata, già nel 67 Leydi si chiamò fuori in modo piuttosto acceso: entrò in magazzino e si riprese tutte le sue ricerche, alle quali avevamo comunque lavorato tutti negli anni. Quello fu l’atto di divisione più grave.

Tu hai avuto un ruolo creativo, compositivo e concertistico che senza dubbio fu decisivo per il Nuovo Canzoniere Italiano, ma qual era la tua posizione “teorica” rispetto a queste due linee di pensiero? 

Nonostante il successo del mio Vi Parlo dell’America (1966), per cui presso di loro vissi di credito per tanti anni, sul canto popolare non andavamo mica tanto d’accordo. Con nessuno dei due. Io infatti, da musicista di formazione classica, mi ero accorta benissimo e sono tuttora convinta che il canto di tradizione popolare fosse la placenta della musica classica: le stesse forme, le stesse note, ma in un sistema musicale più arcaico, non temperato nei suoni. Tre toni e un semitono alternati, a comporre sì la scala diatonica, ma con toni e intervalli molto più larghi o più stretti a salire e a scendere, su scala non temperata appunto. Le quinte più grandi, le terze non ne parliamo, non si capiva mai se fosse maggiore o minore perché proprio non esisteva. Una forma di sovrapposizione del suono in cui ognuno va per linea retta senza starsi a preoccupare. Per questo io diventai molto amica di Carpitella, che era musicista: lui aveva capito che io ci capivo, ahah, cioè che ero una delle poche che aveva studiato musica e si poteva confrontare con me su piani anche più tecnici.

Loro però [NdA: Carpitella e Cirese], ripeto, si tenevano le loro ricerche per loro in ambito accademico e a me questa cosa non piaceva, noi ci sentivamo parte della grande avventura socialista: era tutto un altro piano! Naturalmente, quindi, rimanevo legata e fedele alla “linea” di Gianni, che tuttavia scomparve ancora giovane nel 1971 e fu una tragedia per noi. Giovanni Pirelli continuò a dirigere ma morì anche lui nel ’73 e andammo avanti un po’ a fatica, dichiarammo fallimento e il magazzino intero fu poi preso da Ala Bianca. L’Istituto Ernesto De Martino ne raccolse in parte l’eredità, ma fu un’altra pagina. Per continuare idealmente la linea nacque poi il Circolo Gianni Bosio a Roma che rimase attivo negli anni per quanto possibile, con iniziative, concerti, eventi a Piadena e siamo finalmente riusciti a fargli erigere un busto in memoria. La nostra vicenda è ormai consegnata ai posteri.

Io mi auguro che qualcuno possa capirla e raccoglierla, siete stati dei pionieri. Cambiando fronte, ti chiedo qualcosa che per la mia ricerca è ancor più essenziale, ovvero se ti va di parlarmi del tuo incontro con Pier Paolo Pasolini…

Pasolini è stato per me una grandissima sorpresa, un regalo della vita. Ci siamo incontrati a casa di Berenice [NdA: pseudonimo di Jolena Baldini], una giornalista di costume molto intrigante e spiritosa; aveva la sua colonna mondana su “Paese Sera” e radunava tutta la sinistra romana altolocata nel suo salotto. Mi aveva invitato una sera a casa sua a suonare la chitarra per intrattenere i suoi ospiti con musica di un certo livello; sapeva che io ero una chitarrista classica di Conservatorio e mi chiedeva solo minuetti, sarabande, niente canti popolari insomma… Mentre studiavo gli spartiti per la sera e ripassavo – ancora lo ricordo – la Ciaccona, mi si avvicinò questo giovane che si sedette accanto a me ad ascoltare. Rimase abbastanza colpito e mi disse: “Ma sapresti anche cantare qualche cosa?”. Io risposi: “Ma sto suonando Bach, che vorresti che cantassi scusa?!”. E lui: “Lo so ed è bellissimo che tu stia suonando Bach, appunto sarebbe bello dopo metter qualcosa di popolare, che so una Casetta de Trastevere…” (qui in una bellissima versione di Gabriella Ferri).

Io sorrisi e ironicamente gli dissi: “Ma come ti viene?! Non era un raduno di intellettuali questo?!”. Doveva essere il ‘58 o ‘59. Così ci mettemmo a parlare e lui si era fissato a tal punto con questi canti popolari che alla fine si è messo a cantarli lui!

Una scena incredibile, attaccò un Cjant dal fogolâr, un canto friulano e si meravigliava che non lo sapessi. Io gli dissi che queste cose ormai stavano sui libri e invece lui mi rispose serio: “I canti popolari non stanno sui libri, stanno per terra, tra la gente, tra i lavoratori”. Gli cantai allora una lauda per fargli vedere cos’era il canto popolare di tradizione alta, perché pensavo fosse un ignorantone che mi cantava le canzoni dei suoi posti (pensa un po’… ahaha) e invece lui mi disse: “Certo, questa è una lauda di Cortona che veniva cantata per le strade”. Io a quel punto ero quasi indispettita e quando mi disse “guarda che questa è cultura orale”, io risposi “la cultura è solo scritta, per questo abbiamo gli spartiti” pensando pure di fargli la predica. Capito, io a vent’anni – senza conoscere niente del mondo orale – che pensavo di far la predica! E allora lui mi disse: “Cara, vai a sentire quello che stanno facendo a Milano e a Torino, poi mi dirai se sei così convinta che la cultura è solo scritta…”. Poco dopo anche Enzo Siciliano e Umberto Eco, mi pare di ricordare, aggiunsero in coro: “Ha ragione Pier Paolo, a Milano stanno uscendo dischi come Canti del lavoro 1 che devi assolutamente sentire, è bellissimo, ascoltalo!”. Me ne andai a casa anche un po’ contrariata e solo lì mi si accese la lampadina: ma vuoi vedere che quello era Pasolini, mica l’avevo capito io. Il giorno dopo chiesi a Berenice e confermò. E aveva pure da poco pubblicato il Canzoniere italiano. Mi volevo sotterrare, avevo fatto la gaffe più grande della mia vita!

Allora, su consiglio di personalità tali mi convinsi a comprarlo e lo portai subito al Folk Studio, che avevamo già aperto e io suonavo classica lì, al massimo i canti dei Trovatori e trovieri, pensando fosse musica “alta” e invece mi resi conto che era tradizione del popolo che era stata poi acquisita dalla cultura alta e dalla musica classica. Per la prima volta capii che la divisione tra classica e orale non si può fare col coltello, mi informai su questo ambiente milanese e partii per Milano. In poche parole, quindi, tutto per me iniziò da quell’incontro inaspettato con Pasolini.

È una storia incredibile! E le altre volte in cui l’hai incontrato? Potresti raccontarmi di quando collaborasti con lui e con alcuni dei nostri più grandi scrittori del Dopoguerra, da Moravia a Flaiano, insieme a Laura Betti?

Sì, ho avuto la fortuna di rivedere altre volte Pasolini, era molto simpatico ed era una persona che quando parlava ti insegnava il mondo, si imparava moltissimo, era un didatta straordinario. Bisognava starlo a sentire. Pensa che sono stata io a insegnare alla Betti le canzoni che poi lei ha cantato in un disco che abbiamo realizzato insieme, con musiche ispirate alle Canzoni della Mala. Io ero già sotto la guida intellettuale di Gianni Bosio, che mi aveva detto “vai un po’ a dare una mano a Laura e a vedere che fa, perché non mi fido tanto…”, visto che lei non aveva una solida preparazione stilistica su queste canzoni diciamo “intelligenti”, che non andavano assolutamente cantate à la Mina come era nella moda del tempo. Sono stata per un po’ la sua maestra di musica, insomma, Molto spesso si affacciava Pasolini, che stava molto con lei, e interveniva attivamente sul nostro lavoro. A Laura ho continuato a essere molto legata anche dopo la scomparsa di Pier Paolo, lei rimase completamente distrutta e ogni tanto andavo da lei e riguardavamo le foto, riascoltavamo qualche canzone. Laura aveva una bella voce, potente come il suo caratteraccio, ma era abilissima nel circondarsi di persone e cose intelligenti. Lei non aveva studiato ma sapeva capire chi e cos’era intelligente e cosa no. Il suo salotto mescolava tutte le arti, era molto importante per lei e andava preso seriamente, infatti se qualcuno arrivava tardi lo cacciava a male parole!

Gli scrittori erano tutti dentro a questo dibattito musicale e questo aspetto è una cosa che fu tipica dell’Italia, in questa commistione con la politica e l’editoria, creando tre poli tra Milano, Roma e Torino. Sfaccettature diverse a volte, ma un dibattito plurale e un’intera intellighenzia che lo condivideva. Molti hanno sottovalutato o sottovalutano l’importanza di quelle serate interminabili a casa Betti. Certo, a prima vista potevano sembrare patinate e tutta mondanità, a volte un po’ troppo, ma le menti che erano lì, lo spessore intellettuale e civile di alcuni tra i presenti in particolare, le idee che circolavano, erano di un livello incredibile…

Giovanna Marini con Francesco De Gregori
Giovanna Marini con Francesco De Gregori

Un’ultima domanda riguardo l’influenza che la vostra esperienza, in questo triangolo tra Milano, Roma e Torino, ebbe sulla nascita della leva cantautorale successiva, quella che arrivò al grande pubblico e si impose come uno dei fenomeni culturali di maggior rilievo da fine anni Sessanta in poi?

Noi avemmo molta, moltissima influenza su di loro. C’è stata una fase subito precedente alla nascita del “cantautorato” essenziale per gli sviluppi successivi, un rinnovamento proprio della forma-canzone… perché era certamente decisivo il dibattito teorico ma alla fine pure le canzoni erano fondamentali! Lo scrivere canzoni “nuove”: Torino aveva i suoi Amodei e Liberovici, a Milano c’era Della Mea con il supporto di Giangiacomo Feltrinelli, a Roma c’eravamo io e Pietrangeli, a Venezia Bertelli.

De Gregori ascoltava tutte le nostre canzoni, ad esempio, le sapeva tutte e ha preso moltissimo dalla nostra esperienza. Apprezzava i Cantacronache, amava Pasolini. A pensare, in effetti, che ho suonato sia con Pasolini che con De Gregori… Lui voleva stare con noi, sono stata un po’ io a metterlo in guardia perché Della Mea lo aveva trattato male, fu sciocco al tempo, gli disse qualcosa del tipo “noi non siamo sulla stessa barca quindi ciao”. Francesco rimase molto deluso, perché c’era una sorta di ostracismo per quelli che venivano visti come compromessi con lo show business; io ero invece per la mediazione, io e anche Straniero, forse perché eravamo i due di formazione cattolica più aperti a un atteggiamento conciliatore. Anni dopo, quando chiesi a Della Mea e Bertelli consiglio sul disco da fare con De Gregori [NdA: Il fischio del vapore, pubblicato da CBS nel 2002)

 

 

Avevano evidentemente rivisto negli anni le loro posizioni e mi dissero entrambi: “Sì, ma certo, fallo subito!”. Sempre in ambito romano di Folk Studio Venditti, invece, che pure era presente in quegli anni, non sembrava mai troppo interessato a quello che facevamo, al contrario di Francesco e anche di un molto meno conosciuto Antonio Infantino, grande poeta e cantautore, che pagava il fatto di essere buddhista ed esser etichettato ingiustamente come uno un po’ diverso; sul fronte letterario ricordo Dacia Maraini essere molto presente nei nostri ambienti, respirava sicuramente l’aria delle nostre iniziative e credo l’abbiano influenzata in qualche modo.

Giovanna Marini con Francesco Guccini
Giovanna Marini con Francesco Guccini

Anche Guccini è molto figlio dei Cantacronache e senza dubbio pure De André, che facevano capo alla casa Ricordi, a sua volta attento e sensibile a quel che stavamo facendo. Pensa che quando suonammo al Festival al Teatro di Spoleto, che fu uno spartiacque, Nanni Ricordi era addirittura presente e si stava aprendo verso il nostro mondo. Una realtà culturale che ha gioiosamente invaso l’Italia per quarant’anni, divenendo una parte fondamentale della cultura italiana, coinvolgendo tutti dalle fasce contadine e operaie alla cultura più alta. C’era grande unione, grande condivisione da parte di tutto il mondo che voleva creare una cultura non commercializzata. Che è rimasto di tutto questo? Non lo so. Mi devi rispondere tu stavolta, che sei giovane…

Questa intervista è stata condotta nell’ambito del progetto di Dottorato che sto svolgendo tra l’Università degli Studi Roma Tre (Prof. Supervisor: Gabriele Pedullà) e la University of Cambridge (Prof. Supervisor: Robert Gordon) dal titolo Letterati parolieri: i testi per musica degli scrittori italiani (1956-1982) e verrà pubblicata in forma integrale all’interno della tesi.

giuliocarlo.pantalei@uniroma3.it

 

 

 

 

 

 

L'autore

Giulio Pantalei
Giulio Pantalei
Nato a Roma e laureatosi in Italianistica all’Università di Roma Tre con una tesi su P. P. Pasolini, Giulio Carlo Pantalei è oggi dottorando in Lettere nella stessa Università e Visiting PhD presso la University of Cambridge. Cantautore e musicista, oltre che ricercatore, è fondatore della band “Panta” e ha collaborato con artisti nazionali e internazionali tra cui Paolo e Carlo Verdone, Calexico + Iron & Wine, David Lynch Foundation, Capovilla, Canali e l’ong ONE di Bono Vox. La sua tesi, svolta tra Roma e Oxford, riguardo il rapporto tra la Letteratura Italiana e la musica angloamericana è stata pubblicata nel 2016 da Arcana col titolo di Poesia in forma di Rock, oggi alla seconda edizione.

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