Laura Pitscheider è un’artista di lungo corso con alle spalle un bagaglio di profonda formazione, alimentata da continue specializzazioni ottenute anche all’estero – si è specializzata in tecniche calcografiche alla “Internationale Akademie fur Bildende Kunst” di Salzburg – e da lunghe permanenze in Paesi europei e del Medio Oriente. Ha svolto pure attività di giornalista/grafico di importante testate italiane. Nel 1998, in occasione dell’esposizione delle sue opere al Parlamento Europeo di Strasburgo, ha ricevuto la “Temoignage d’Honneur” dell’Unione Critici Europei d’Arte. Una sua opera è conservata al Parlamento Europeo di Bruxelles e tutto il materiale inciso (23 acqueforti dedicate al poeta Yvan Goll) è conservato al Museo Municipale di Saint-Dié-des-Vosges in Francia. Intensa la sua attività espositiva che la vedono protagonista di mostre personali molte delle quali all’estero, e di numerose collettive. I percorsi di ricerca in cui è impegnata da quarant’anni sono caratterizzati dal bisogno di dare visibilità alla forma concentrandosi sulla parola e sul colore. La sua ricerca trova una sintetica rappresentazione nel libro d’artista nel quale convergono i versi dei suoi più amati poeti vestiti dalle pennellate del suo rincorrere il mondo dove regnano anche silenzio e oscurità. I suoi interventi, spesso privi di parole, inducono alla contemplazione chi guarda e sarebbe fuorviato da un titolo che limiterebbe l’intuizione e il campo vasto della sua conoscenza. Ma le sue opere, che trovano spesso sbocco su carta, esprimono anche il segno che si fonde con il colore e la musica con cui si produce il suo particolare vibrante anelito alla pace e alla concordia fra i popoli. Scopritrice di talenti poetici sa amalgamare il proprio segno con il verso che vibra sempre di calda umanità e si salda nelle pagine dei suoi libri peculiari, libri anche privi di parole ma densi di immagini sempre poetiche. È lei stessa un poeta che sa esprimersi con gli strumenti del sogno riuscendo a immortalare la propria tavolozza interiore.
Ti sei specializzata in calcografia ma ti esprimi con vari registri anche pittorici. C’è nei tuoi lavori un’eco di questa tua specializzazione in opere che sono di tecnica mista? Che ruolo occupa nel tuo immaginario e nella tua esperienza il segno grafico?
La pratica dell’acquaforte, è stata determinante in tutto il mio lavoro, sia tecnico che concettuale. Non vedere, immediatamente, il risultato finale dell’opera, che si scopre solo nell’ultima stampa e, in più, il senso del tempo che si stratifica morsura dopo morsura sulla lastra, sono azioni che diventano Tempo dell’Attesa. Per me, tutto questo procedimento è stato anche Tempo della Riflessione. La mia pittura si è arricchita di questa esperienza e il mio uso del colore è diventato più lento, più meditato, maggiormente stratificato. Non lascio nulla al caso. L’acquaforte ha sviluppato in me una grande sensibilità verso la materia e l’attitudine alla sperimentazione. Incidere, scavare, scoprire tracce e impronte, lasciare un Segno, non sono solo esperienze grafiche, ma come ho detto prima, sono Riflessioni… È il mio modo di fare poesia, di essere in sintonia coi poeti che amo. René Char diceva: «Un poeta deve lasciare tracce, non prove del suo passaggio. Solo le tracce fanno sognare».
Ho fatto cenno ai tuoi vari spostamenti e alle tue permanenze all’estero. Sapresti dirci che cosa hanno in effetti rappresentato per la tua ricerca il vivere e il convivere con popolazioni altre dalle tue di origine?
L’incontro con altre culture è stato molto importante, perché ogni incontro rappresenta un cambiamento per chi vuole crescere e arricchirsi umanamente. Per me, è stato così. Soprattutto il contatto con il Medio Oriente. Ho iniziato i miei viaggi in quei territori nel 1972 e questa esperienza ha modificato il mio modo di pensare. L’esperienza del deserto, dell’ infinito e del viaggio sono state anche un’esperienza religiosa. Volevo conoscere il luoghi dove sono nati l’alfabeto, la scrittura, il Libro e dove l’arte si esprime attraverso la calligrafia. Non dimentichiamo che le tre religioni del Libro sono nate lì e ricordiamo che importanza hanno avuto sia la scrittura islamica (99, sono i modi di scrivere con la calligrafia, i nomi di Dio) e quella ebraica, dove ogni lettera dell’alfabeto è sacra.
Da quell’incontro è cominciata a scomparire, dai miei lavori, la figura per iniziare un’indagine sulla calligrafia e sul segno. Il deserto è un luogo di tracce. Io, però, non sono una calligrafa. Il mio ambito è il linguaggio, perché mi interessa l’Uomo nella sua espressione, non solo in senso estetico.
Si fa riferimento spesso alla mancanza di titoli nelle tue opere. Che cosa sottende la tua rinuncia? Vuoi lasciare libertà di interpretazione?
Lavoro per cicli e ogni mostra è in sostanza come il capitolo di un nuovo libro. All’interno di quel capitolo ci sono le opere che portano il titolo della mostra e poi solo una numerazione per ciascuna opera, così lascio aperta la possibilità di prosecuzione.
In effetti, ogni capitolo non è mai finito e, soprattutto, si unisce e s’intreccia coi capitoli precedenti: è una lunga trama. Sento fortemente il senso della metamorfosi. Mi piace pensare che le opere siano tracce e percorsi che trasmigrano in continuazione, da un’opera all’altra, come in una danza… L’antologica esposta al Chiostro di Voltorre l’avevo intitolata Un segno, Un suono, Un Sogno perché le tracce possono essere visive, musicali, letterarie, ecc. Il critico Tommaso Trini, a proposito del mio lavoro, ha scritto: «Questo danzare delle pitture di Laura Pitscheider, poeta d’indizi».
Il Parlamento Europeo nel 1998 ti ha insignito di un importante riconoscimento per un insieme di acqueforti ispirate alla raccolta di poesie Erba di sogno, testamento spirituale del poeta Yvan Goll, «uno dei primi pacifisti europei, che al valore artistico unì l’impegno civile con la coerenza della sua vita», come si legge nella motivazione. Potresti raccontarci come è avvenuto il tuo incontro con Yvan Goll e come pensi di averne tratteggiato l’anima con il tuo lavoro?
L’incontro con le poesie di Yvan Goll, nasce dalla mia passione per la parola, che per me è evocazione, vita…sostanza della mia vita. Da bambina collezionavo parole…le ritagliavo e le conservavo in una scatola. Sulla fascetta che racchiudeva la silloge Erba di sogno di Yvan Goll, c’era scritta la frase: «Ora, vicino alla morte credo di essermi avvicinato per la prima volta al mistero della Parola»… per me, è stata una folgorazione che mi ha portata a conoscere più a fondo questo poeta.
Goll, che è morto negli anni ’50, ha scritto queste poesie mentre stava morendo. Io ho “raccolto” le sue parole e le ho trasformate in segni. Un modo per proseguire la vita in altri spazi e luoghi. Ne sono nate 23 acqueforti di grande formato, esposte in seguito ,al Parlamento Europeo di Strasburgo, città dove Goll fu ricoverato durante la malattia e, dove aveva iniziato a scrivere quelle poesie (tutto torna, non sono coincidenze). Ora, le opere sono conservate al Museo di Saint-Dié-des-Vosges, città natale di Yvan Goll il quale è stato anche uno dei primi pacifisti europei. Questo, ci accomuna ulteriormente. Ho tratteggiato la sua anima comprendendo il suo senso della trasformazione. Scrivendo Erba di sogno egli ha trasformato la sua stessa morte in nuova vita…
Vivi lontano dalle città, su di un cucuzzolo a picco sul lago di Como. Il tuo isolamento, scelto non a caso, ha influito sulla tua opera? Come avviene il tuo contatto con il mondo esterno e con i tuoi collezionisti ed estimatori delle tue opere? Sei tu a spostarti o è ‘Maometto’ a rintracciarti; ovvero, come vivi la tua realtà di artista apparentemente isolata?
La natura mi interessa relativamente…solo in quanto fa bene al mio fisico. Io amo di più la cultura e l’arte, che non la natura, proprio perché amo l’uomo. La cultura è l’uomo che è capace di cose orribili, atroci, ma che si riscatta con l’Arte. Purtroppo si nasce maschi e femmine, uomini si diventa e lo si diventa attraverso un percorso di conoscenza.
La cultura non è in antitesi con la natura, solo la cultura e la poesia salveranno la natura. Simon Weil ha detto: «Il popolo ha bisogno di poesia come di pane». A questo, io credo fino in fondo.
Vivo in collina sul lago di Como dove ho uno studio e dove posso lavorare tranquillamente, ma vado spesso a Milano dove continuo a mantenere i miei contatti. Comunque oggi con Internet si è costantemente in connessione con il mondo e, attraverso questo mezzo, molte persone, durante l’estate, vengono a vedere i miei lavori in studio. Per citare la Szymborska: «Vivo appartata, ma non in disparte».
A volte i tuoi lavori sono stati giudicati onirici e vicini al Surrealismo, ma la tua opera risente anche delle inquietudini dell’Informale. Come vorresti essere collocata dalla critica e a quale movimento ti senti maggiormente vicina e interprete? Quali sono i tuoi confini nel lavoro, sempre che tu li avverta?
Una domanda complessa… non avverto confini nel mio lavoro. Non ricordo chi ha parlato di Surrealismo per il mio modo di operare. Il Surrealismo e l’Informale sono movimenti che si sono esauriti molto tempo fa, lasciando impronte ovunque perché nel linguaggio tutto rimane. Io, però, sono cresciuta più in ambito Concettuale e di Poesia Visiva, espressioni che hanno anch’esse lasciato impronte. Volevo usare la pittura o qualsiasi altro materiale pittorico, proprio mentre sembrava che la pittura fosse divenuta obsoleta, ma io la pittura la amo e non ho mai voluto rinunciarvi. Volevo “raccontare” e per farlo ho utilizzato di tutto: dalla foto alle fotocopie, per creare “tecniche miste”… Il mio racconto è fatto di frammenti, forse dovrei dire “scarti” di altri racconti. Se per onirico, s’intende l’uso che faccio della mia immaginazione, questa definizione mi va bene; il mio lavoro lo considero una sorta di “affabulazione” proprio secondo una definizione da dizionario, ovvero “narrazione fantastica; intreccio di un’opera”. Sento di appartenere a una grande storia e mi affascina il pensiero che quando esisteva solo la narrazione orale i racconti non avessero un solo finale. Passando di bocca in bocca il racconto si trasformava e aveva tanti finali diversi.
Tornando all’Informale, io credo di utilizzarne il modo, ma non il contenuto. Ad esempio per l’Informale, laddove la superficie è luogo di disfacimento, per me essa è luogo di germinazione, dove i segni prendono nuova vita. Mi va bene se la critica mi colloca laddove mi ha collocato Tommaso Trini, in una sorta di nomadismo culturale che caratterizza i nostri tempi… di contaminazione. Siamo pellegrini, siamo vagabondi, cerchiamo la “verita”, (“aletheia”) indicherebbe il vagabondare di Dio (“ale”-”theia”)… Non solo Dio, ma è il vagabondaggio, ne sono sicura, che ci porta prima o poi alla verità. Perlomeno, a quella che ci serve per oltrepassare l’ultima soglia.
Che cosa ti aspetta nei prossimi mesi, quando l’isolamento sarà meno oppressivo? Hai qualche mostra nel tuo taccuino? In Italia o all’estero?
Mi è difficile pensare a un “dopo “alla luce di ciò che è successo. Sono ancora molto turbata sebbene siano trascorsi pochi mesi dall’inizio della pandemia. Anche le emozioni più forti e le parole che venivano pronunciate in quei giorni, quelli dell’inizio della pandemia, si sono trasformate in “slogan” pubblicitari. È terribile! Vuol dire che la gente non riesce più a provare veri sentimenti e, cosa ancora più inquietante, non avviene più una vera “catarsi”. I morti di quei giorni sono scivolati via nel buio ed è arrivato un “becchino” invisibile a cancellare tutte le tracce. Io, però, che le tracce le cerco e le raccolgo, sono a disagio. Credo, in questo momento, di desiderare solo di stare ferma. Voglio raccogliermi in me stessa, perché non voglio un “torniamo come prima, torniamo alla normalità”. Quale prima? Quale normalità? Io non desidero novità, desidero cambiamenti…nuovi comportamenti, nuove finalità, nuove strade, uomini nuovi. Quando l’isolamento sarà meno oppressivo uscirò a cercare nuovi indizi prima d’iniziare a preparare una nuova mostra.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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