L'arte del tradurre

Tradurre Rimbaud. Valentina Gosetti intervista Adriano Marchetti

Adriano Marchetti, Katy Rémy e Valentina Gosetti
Adriano Marchetti, Katy Rémy e Valentina Gosetti

Adriano Marchetti, saggista, traduttore, artista, ha insegnato Letteratura francese all’Università di Bologna. Collabora dal 2001 alla rivista letteraria Anterem. Autore di Prédilections. Incursions en Belgique (Panozzo, 2002); Scritture di passaggio (Anterem, 2007); Rapsodia selvaggia (Marietti, 2008), Transitions (Panozzo, 2010); Simone Weil: Poetica attenta (Liguori, 2010). Ha diretto vari numeri di In forma di parole ed editato: Pascal Quignard: la mise au silence (Champ Vallon, 2000); Mulino primo di René Char (Pàtron 2000); Quaderno nero di Joë Bousquet (ES 2000); Allogamie di Pierre Oster (2002); La notte. Invenzioni e studi sul nero (Pendragon, 2004); le poesie di Ferdinando Tartaglia: Esercizi di verbo (Adelphi, 2004); due miscellanee: Littératures du Pacifique e Utopia e primitivismo (Panozzo, 2004 e 2007). Ha curato diverse edizioni critiche con testo a fronte tra cui: Carnet. Viaggio in Italia di Max Jacob (Marietti, 2004); Quaderno verde e Il Centauro. La Baccante di Maurice de Guérin (Marietti 2004 e 2010); Art poétique di Roger Caillois (Panozzo, 2008); Moralisti francesi. Classici e Contemporanei e I Caratteri di La Bruyère (BUR 2008 e 2012); Le Divan-Poèmes di Max Jacob (2013); Poèmes di Max Loreau (Campanotto 2012); per Pazzini Editore: Inferno Paradiso di Max Jacob (2000); Illuminations, Une saison en enfer, Opera in versi di Arthur Rimbaud (2006, 2009, 2019); Verso e prosa di Simone Weil (2014). In collaborazione con Valentina Gosetti e Andrea Bedeschi: Donne. Poeti di Francia e oltre, dal Romanticismo a oggi (Ladolfi 2017). Per ulteriori informazioni: http://www.adrianomarchetti.eu/

Hai di recente pubblicato con Pazzini le tue traduzioni dell’Opera in versi (2019) di Rimbaud, raccolta che completa il trittico, dopo la pubblicazione, per la stessa casa editrice, delle Illuminations (2006) e Une saison en enfer (2009). Hai adottato un approccio diverso nella traduzione e pubblicazione di questi tre volumi o hai cercato di esprimerti in una stessa voce?

I volumi che compongono il trittico riproducono, ciascuno, disegni e modulazioni diverse che li rendono in un certo senso autonomi. Allo stesso tempo, se accostati risultano più forieri di suggestioni utili per rilevare i vari tratti di dislocazione che scandiscono l’opera nel suo insieme. Va detto che anche al suo interno ogni volume mostra una eterogeneità sostanziale e stilistica: Une saison en enfer e Les Illuminations solo apparente; mentre riflettono una architettura più monodica: la prima, un monologo inventato che si sdoppia in due voci, si sviluppa mirabilmente sullo scenario di uno psicodramma. Tuttavia in Alchimie du Verbe, dove Rimbaud percorre i momenti di svolta della “storia di una follia” (L’histoire d’une de mes folies), sono disseminati versi che non sono mere autocitazioni, ma reinvenzioni. Le seconde, note come poèmes en prose, a ben vedere accolgono, come inavvertitamente, un discreto numero di alessandrini o anche intere poesie in versi.

L’Opera in versi è certamente la più eterogenea per i materiali eterocliti evocati, i ritmi svariati e le forme d’espressione cangianti, nonché le disparate esperienze che hanno circostanziato i testi tra il 1869 e 1873. La traduzione ha cercato di rispettare tale ricchezza timbrica, tonale, ricorrendo a un ventaglio il più ampio possibile di modalità di approccio. Nella raccolta di Douai (Le Cahier de Douai) che Rimbaud aveva ordinato a Demeny di bruciare, il poeta aveva fissato il punto del suo passato di affascinato dalla bellezza accademica, mitologica. Dopo la Comune di Parigi, la sua poesia diventa feroce invettiva anticlericale, anarchica e parodica. Poi, contro la poesia lirica-soggettiva della tradizione romantica, inizia a comporre secondo le prospettive della veggenza i versi che sedussero Verlaine.

Messo al bando dai Vilains Bonshommes, Rimbaud dovette lasciare Parigi e tornare a Charleville. Nascono allora i Vers nouveaux o Derniers vers prima di seguire l’ambizione irresistibile di accedere allo stato di “figlio del sole”, sfiorando la Follia. Ultima avventura poetica della sua sete, culmina con Illuminations e Une saison en enfer, dove così conclude, ma non in modo definitivo: “Tutto ciò è passato. Oggi so salutare la bellezza” (Cela s’est passé. Je sais aujourd’hui saluer la beauté). Ciò che è comune a tutta l’opera e che la sottende come un basso continuo è la tensione inventiva, ciò che Rimbaud chiama nella lettera del veggente “le dérèglement de tous les sens”. Il rimando continuo a un’ulteriorità di significati.

Durante la tua carriera ti sei occupato di molti poeti e autori diversi. Cosa ti ha portato a dedicati così intensamente agli scritti di Rimbaud in particolare?

A 17 anni, ottenuta la maturità, venni assunto, attraverso concorso, dalla banca di un piccolo paese agricolo, con il comprensibile giubilo della mia famiglia di poveri braccianti. Così cominciò la prima grande pena e cercai conforto rifugiandomi nella letteratura che, oggi, la premura dei nostri tempi difficilmente concede.

Arthur Rimbaud, primo incontro decisivo, non si limitò a dare un nome a quel lungo e breve (3 mesi) periodo d’impiego ai calcoli: la mia “Stagione all’inferno”. M’infuse anche il coraggio insperato della decisione di evadere, lasciando i genitori e quel lavoro. Arrivai per la prima volta a Bologna per entrare nell’Università e insegnare in una scuola serale. Tempi duri e felici. Immediatamente ero stato affascinato dai tanti miti che raccontano la vicenda straordinaria del poeta adolescente, del poeta maledetto, o del “mistico allo stato selvaggio” (“mystique à l’état sauvage”) come diceva Claudel: la ribellione, la trasgressione, l’oscillazione dei sessi – che è sempre un disturbo per l’ordine sociale –, le molteplici forme dell’amore e la sua sete, l’urgenza di libertà. Una forte impressione mi lasciò la lettera del veggente e poi l’addio all’Europa e il suo silenzio.

Solo successivamente mi appassionai alla sua opera. Mentre preparavo la tesi di laurea su Simone Weil mi colpì una breve nota della pensatrice concernente Rimbaud: “Esistono anche i geni demoniaci; Anch’essi hanno una loro maturità. Ma poiché la maturità del genio è la conformità al vero rapporto del bene e del male, l’opera che corrisponde alla maturità del genio demoniaco è il silenzio. Rimbaud ne è l’esempio e il simbolo.”

La Weil coglieva a mio parere un aspetto essenziale che è lo stesso tratto che Platone riconosce al poeta: il delirio, la mania, la passione – pericoloso per la Polis. Il poeta è un delirante, ma il suo delirio è divino (Ione).

Già da allora ero convinto che la traduzione della sua opera potesse rappresentare una delle vie sovrane per coglierne l’inedita e l’inaudita portata. E che fosse necessario abbandonarsi a quel delirio. Ci vollero anni di attesa e di ascolto prima di sentirmi pronto a tentare l’impresa.

C’è qualcosa che non ti soddisfa a pieno nelle esistenti traduzioni italiane di Rimbaud? Cosa pensi dell’arte di tradurre e ritradurre un classico? 

Dall’intervento di Ardengo Soffici del 1911 si sono susseguite molteplici traduzioni italiane dell’opera di Rimbaud, tutte tranne quella curata da Mario Richter (Opere complete, Einaudi/Gallimard, Pléiade, 1992), parziali. Di particolare pregio ritengo quella a cura di Ivos Margoni (Feltrinelli, 1964). Rarissimi sono stati i tentativi di tradurre i versi di Rimbaud in corrispondenze ritmiche e metriche della versificazione italiana, e in ogni caso sempre riservate a scelte antologiche. Per lo più, i traduttori italiani hanno fatto ricorso al verso libero. Tuttavia anche nei rari casi, tra cui la sopra citata traduzione del 1992, in cui si è ricorsi all’artificio prosodico, ho potuto notare forzature che rasentano la banalità, oppure allontanamenti ingiustificati dal testo originale. Per la rima si è rinunciato alla fedeltà semantica. Il rischio è inevitabile. Consapevolmente decisi di correrlo nell’intento di restituire il testo, in un senso assoluto e univoco, ma il più possibilmente equo, conservando l’equivocità dei termini, orientando l’attenzione a cogliere il tenore e il sapore letterale dell’originale, il suo peso semantico, i suoi valori ritmici e sonori, i suoi timbri. Più che rendere le univocità dei significati, per rendere l’opera più prossima all’orecchio italiano, ho sperato di lasciarla essere nella sua estraneità e translucida opacità.

Rimbaud non parla in modo razionale, bensì enigmatico. E l’enigma, che non può essere risolto, rimanda a ulteriori significati. Il suo sguardo è epoptico, ossia guarda al di là di ciò che vede. Come nei sogni, Rimbaud sbaraglia le dimensioni temporali e spaziali, i principi di causalità e di non contraddizione. La ragione è un sistema di regole che assicura la comunicazione attribuendo per convenzione un significato univoco alle parole. Mentre è all’orizzonte della follia – occorre prendere sul serio Rimbaud quando definisce la sua avventura poetica “storia di una follia” – che si creano nuovi significati, che si inventa linguaggio. A sua volta, in tal senso, ogni traduzione attende una traduzione ulteriore. Non può essere definitiva.

C’è un verso, una poesia, un passaggio al quale sei particolarmente affezionato?

Varie sono le poesie che prediligo ed è imbarazzante sceglierne una. Les Remembrances du vieillard idiot, uno dei testi più lunghi e molto autobiografico dell’Album Zutique, che culmina con l’evocazione del padre, fisicamente assente e del desiderio di acquisirne la virilità. In questa poesia Rimbaud anticipa Freud. Anche se non pronuncia la parola inconscio, la riflette: ciò che non è governato dall’io (Je est un autre); la relazione e non l’identità. Questa forma di conoscenza, che nasce da una ossessione sessuale, non risibile, – nonostante il registro parodistico che caratterizza perlopiù i testi dell’Album Zutique, è di tipo empatico. Remembrances si possono intendere come risvegli dell’organo virile. Ecco, una follia iniziatrice, condizionata dall’eros, il solo in grado di capovolgere la visione della vita e provocare quel dérèglement de tous les sens, che dovrebbe ritmare la poesia. Quella scoperta conduce alla crisi profonda, alla negazione della ragione, ossia di quella serie di regole rassicuranti l’ordine, ma che non creano nulla. Per inventare occorre attingere al profondo della follia erotica, al delirio smaniante di cui parla Platone in uno dei Dialoghi.

La ragione con le sue regole è rassicurante perché non fa oscillare i significati. Rimbaud porta il linguaggio a collassare per ricrearlo. “Si nasce poeta e lo si diventa”. Questo enunciato, che ha l’aspetto di un ossimoro, è estremamente significativo: Rimbaud, nato poeta, ha potuto esserlo solo in quanto ha assunto il suo destino di poeta, entrando nel tetro della follia erotica. “Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; …. Ineffabile tortura…” (Lettera del veggente).

Scriveva al suo professore di retorica Izambard: “Si tratta di arrivare all’ignoto attraverso il sovvertimento di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma occorre essere forti, essere nati poeta, e io mi sono riconosciuto poeta”. A mio parere, in questo testo sono presenti, in forma simbolico-poetica, le strutture portanti del nostro inconscio. Il desiderio dell’ignoto, di ciò che non si ha e non si conosce, è strutturato nella figura dell’assenza, della mancanza. È distanza psichica. Lo spazio che crea.

Per finire, secondo te Rimbaud ha ancora qualcosa da “dire” oggi?

Il silenzio di Rimbaud è stato e continua ad essere un motivo d’indagini e riflessioni. Heidegger afferma che Rimbaud tace avendo detto tutto ciò che doveva dire. Questo non significa che la sua opera non abbia più nulla da dire, o da far pensare, al giorno d’oggi. Il suo detto e il suo non detto contengono una inesauribilità di senso, come le grandi opere d’arte. Noi continuiamo a leggere e tradurre Omero e Montaigne. Si pensi al significato filosofico-poetico contenuto nelle due affermazioni “Je est un autre” e “on me pense”. Il sistema razionale delle idee chiare e distinte è messo tra parentesi; il proprio io è abbandonato per un rischioso accesso alla profondità ignota. Quando si sprofonda nella propria follia, l’io è cambiato, viene rigenerato come altro – questo è il senso di “il faut changer la vie”. La perdita dell’egocità è un atto d’amore. Eros è figlio di Penia, di cui ha tutte le caratteristiche: penuria, vulnerabilità, non possiede giacché è posseduto. Patisce l’altro e in questa passione ne va della sua anima. L’io è conservatore, non creatore. L’io è stanco (la noia è uno dei temi dominanti delle Illuminations) di essere se stesso. Deve essere corrotto dalla parte folle del suo profondo. E ciò comporta un dislocamento continuo del proprio io e, insieme, un’implosione linguistica.

Rimbaud esce dallo scenario razionale per costeggiare il sottofondo dell’anima. Ai giovani di oggi la lettura di Rimbaud può suscitare riflessioni straordinarie su ciò che concerne la configurazione dell’amore, e non solo, la non esauribilità che l’altro rappresenta e offre. Rimbaud è un poeta arrischiante: rischia nel linguaggio che per lui è creazione. Il rischio è quello di essere catturato dal daimon, dal fuoco divino, (être fils du soleil è la massima ed essenziale aspirazione). L’amore, secondo le parole di Diotima, è il metaxy (la terra di mezzo), il tramite tra gli dei ( ai quali è attribuita la follia) e gli uomini (ragionevoli). Non è il poeta a possedere la parola; lui ne è il traduttore in parole umane, abbandonandosi all’ascolto di ciò che il demone gli detta dentro, nella profondità del delirio. “On me pense”: non sei tu il padrone del gioco, ma è la lingua che ti gioca. Solo questo abbandono amoroso, questa passione, permette di tradurre la nostra parte di ragione alla follia, e viceversa. In questa struttura si rispecchia anche la traduzione come la “doppia prova dello straniero”. La consapevolezza di tale lavoro infinito (in-finito) credo che sia la condizione preliminare che permette di leggere, tradurre e ritradurre Rimbaud, attuale come un classico moderno.

(L’ intervista è stata pubblicata in inglese sul blog della Rimbaud & Verlaine Foundation il 30 luglio 2020: https://www.rimbaudverlaine.org/en/news/translating-rimbaud-italian/)

 

 

 

 

 

 

L'autore

Valentina Gosetti
Valentina Gosetti
Valentina Gosetti insegna e ricerca all’Università de New England in Australia, dopo i suoi anni all’Università di Oxford nel Regno Unito, dove ha conseguito la laurea specialistica e il Dottorato di Ricerca. Durante la laurea triennale all’Università di Bologna è stata allieva di Adriano Marchetti con il quale condivide la passione per la poesia francese e francofona. È autrice del saggio Aloysius Bertrand’s ‘Gaspard de la Nuit’: Beyond the Prose Poem (Legenda, 2016) e di vari articoli e capitoli sulla poesia francese dell’Ottocento e sulla traduzione. Ha curato in collaborazione con Adriano Marchetti e Andrea Bedeschi, l’antologia Donne. Poeti di Francia e oltre, dal Romanticismo a oggi (Ladolfi, 2017), in collaborazione con Alistair Rolls, Still Loitering. Australian Essays in Honour of Ross Chambers (Oxford Peter Lang, 2020).  Nel tempo libero, cura il blog di traduzione poetica in lingue minoritarie Transferre, dove traduce la grande poesia in bresciano.