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La storia, l’epos, l’amore. A proposito di “Figli del Toro” di Nicola Mastronardi

La Guerra Sociale, Denario, Corfinium, c. 90 a.C.; AR (g 3,89; mm 18; h 11); Testa laureata di Italia a s., Rv. Scena di giuramento: otto guerrieri, quattro per parte, indicano con le spade un maialino tenuto da un giovane; sullo sfondo, uno stendardo; in ex. IIΛX. Sydenham 629; Campana 29. Molto raro, leggera patina. Schiacciatura di conio al dritto, q.spl / spl.
La Guerra Sociale, Denario, Corfinium, c. 90 a.C.; AR (g 3,89; mm 18; h 11); Testa laureata di Italia a s., Rv. Scena di giuramento: otto guerrieri, quattro per parte, indicano con le spade un maialino tenuto da un giovane; sullo sfondo, uno stendardo; in ex. IIΛX. Sydenham 629; Campana 29. Molto raro, leggera patina. Schiacciatura di conio al dritto, q.spl / spl.

Il corteo era terminato, tutti i partecipanti si erano schierati lungo il perimetro del grande piazzale mentre, al centro, i Meddíss in alta uniforme si erano posti in due fila di quattro, l’una di fronte all’altra. Giunse il sacerdote, anch’esso vestito con uniforme marziale, seguito da un assistente recante un cucciolo di maiale tra le braccia. Scortato dai due Embratur, il sacerdote si pose nel mezzo della formazione, davanti all’alto palo infisso nel suolo. Si alzò il vento e fece sventolare lo stendardo, in alto, mentre ad un cenno di Papio e Silone, gli otto sfoderarono la spada […]. Dunque giurarono. E fu così che nacque Italia. (Figli del Toro, pp. 296- 297)

Un nuovo romanzo sulla storia dei Sanniti. Dopo il successo del precedente Viteliù. Il nome della Libertà (Itaca Edizioni, 2012), Nicola Mastronardi torna in libreria con il romanzo storico Figli del Toro (Volturnia Edizioni, 2019), primo volume di una trilogia che lo scrittore e giornalista originario di Agnone dedica alla storia dei Sanniti e dei popoli italici. Una storia lontana e dimenticata, marginale nei libri di storia e subordinata alla centralità di Roma: una vicenda dolorosa che rappresenta una ferita ancora aperta, privata, com’è stata finora, della dignità della memoria, cancellata dalla damnatio memoriae operata da Silla, quale punizione e maledizione inflitta ai ribelli italici, in quello che è stato il più grande genocidio della nostra penisola: la nascita di Viteliù, Italia, il nome della libertà.

Figli del Toro è dunque il primo volume di una trilogia dedicata alla memoria e alla storia degli italici. È un romanzo storico, perché narra gli avvenimenti che nel 91 a.C. portarono i popoli dell’Appennino italico, stanchi di essere soggetti all’autorità di Roma e di veder non riconosciuti i propri diritti, alla rivolta contro la Res publica romana, fino alla nascita di una Confederazione, che prende il nome di Italia (Viteliù in osco). La nascita di Italia, da parte delle dodici Túto (inizialmente a giurare sono otto popoli, così come è attestato da una delle monete coniate dalla Confederazione ed è ben descritto nel libro) coincide sì con un preciso disegno politico di riappropriazione di territori all’insegna di una comune identità, ma è soprattutto la concretizzazione di un affrancamento dall’egida romana, un grido di dignità nei confronti della cittadinanza negata, la realizzazione di un sogno di libertà mai dimenticato.

Un romanzo storico, dunque, perché lo sfondo della narrazione è storico, perché il metodo e la documentazione cui Mastronardi attinge sono storici, archeologici, perché il ricorso alla comparazione linguistica e allo studio dei reperti, impreziosisce questo libro di elementi documentari importantissimi. Ma c’è di più. Mastronardi scrive un libro intenso, un libro che si veste di umanità e di attenta sensibilità, un libro che va oltre la classificazione sterile del genere per prestarsi ad ulteriori chiavi di lettura ed interpretazioni. L’universalità di tematiche e sentimenti sottende al romanzo e lo completa nella attuazione di una epicità e drammaticità di fondo, al pari dei poemi classici della tradizione.

Figli del Toro è un romanzo epico, eppure attuale. A quanti affermano che l’Italia nasce come Stato nel 1861, l’autore ricorda che in realtà, la culla dell’idea politica di Italia come “Nazione” è già qui, nel 91 a.C., agli albori della Guerra sociale, e lo fa alla maniera dei cantori e aedi della tradizione, intonando un canto epico, rinnovando l’epica antica nel modulo pluri-espressivo e versatile del romanzo, un canto moderno, che si apre con un’invocazione ad una sacerdotessa, sannita, un canto alla memoria di un popolo dimenticato, di un’Italia dimenticata:

Vieni a me, Daphne, oggi, ti prego, e resta fino a quando ce ne sarà bisogno. Vieni, ti imploro, raccontami di quegli avvenimenti lontani e della sofferenza della mia Terra. Dei sogni e delle glorie, delle battaglie e dell’umano coraggio. Narrami degli orrori e del sangue, fammi conoscere il sacrificio di un popolo che combatté per la libertà e perì anziché arrendersi, regalando una nuova dignità a tutti e una nuova alba al mondo. E poi sparì dalla storia. Voglio sapere del pianto delle donne e del sangue versato, dell’Amore, e delle vite separate. Aiuta la povera memoria a risalire la notte dei tempi, affinché il disconosciuto si sappia, gli eroi si conoscano, gli errori insegnino. Solo dopo potrai riposare in pace, anche tu. Anche io (p.5).

Il tema della memoria sviluppato nel prologo, trova concretizzazione nell’invocazione alla sacerdotessa e sancisce la nascita di un’epica sannitica: attraverso la formula dell’epos narrami, Daphne è chiamata ad assurgere, nel ruolo simbolico e sacrale di rappresentante della divinità, a garante della veridicità della materia trattata: quale tramite tra passato e presente, la sacerdotessa sannita è il mezzo per la sublimazione del ricordo, perché la narrazione possa dare voce al sacrificio di un popolo che combatté e scomparve dalla storia, per il pianto delle donne, perché la conoscenza di quello che è stato insegni, perché il dolore mai sopito possa trovare finalmente pace. E allora, la guerra:

Fu dunque guerra, anche quel giorno. Cruda, violenta, spaventosa. Gli uomini, incuranti dell’ammonimento degli Dei, diedero vita al feroce spettacolo di ogni tempo, quando l’odio trionfa e il dono della vita è disprezzato. Un massacro, da una parte e dall’altra […]. Il sangue, linfa di vita, fu disperso in abbondanza tra l’erba della grande pianura. Alla fine, gli uomini di una parte morirono in numero minore e dissero di avere vinto (p. 7).

Mastronardi scrive un libro ricco di umanità. Figli del Toro è un romanzo di guerra eppure è un canto di pace, è un romanzo che parla di morte, eppure è un inno alla vita, un inno alla civiltà, alla moderazione, al rispetto umano, alla razionalità, è un libro pieno di dolore, ma soprattutto è un libro d’amore. È proprio l’amore il filo conduttore delle due tematiche principali: da un lato la condanna della guerra, la guerra che crea distruzione e morte, che distrugge la bellezza, quella dell’arte, delle pietre, dei monumenti, quella dell’anima, la guerra che sottrae a chi resta, gli amori più veri. Dall’altro, vi è il cuore delle donne. L’autore il libro lo dedica a loro, alle donne, le donne che sono madri, figlie, spose, sorelle, le donne che portano in guerra il fardello più pesante, e la loro, ci dice Mastronardi, “è la sofferenza di Dio”.

Tra scenari di guerra e battaglie, tra assedi e assemblee che sembrano risuonare ancora nel nascente Kombennio, o Santuario della Nazione, tra eroi e personaggi reali come gli Embratur Papio Gavio Mutilo e Quinto Poppedio Silone, sono proprio le donne a parlare al cuore dell’uomo di ogni tempo. È Laria, che piange perché il suo giovane sposo Numerio è costretto a partire, è Bantia, donna sannita che la consola, che sa già cosa significa per una moglie e madre l’ansia della battaglia, essendo i sanniti per tradizione un popolo di grandi guerrieri: “Ogni volta che il mio uomo è partito per una guerra io sono come morta. Tutte le volte che è tornato, in me è tornata la vita. Dovrai abituarti. Devi essere forte e pregare gli Dei con tutta te stessa. È l’unica cosa che puoi fare, povera ragazza!” (p. 186).

Eppure, l’amore e la vita permeano di poesia e intensità anche le pagine più drammatiche: l’amore per la bellezza dell’arte, come dice il maestro Litterio (“la guerra distrugge la bellezza, quella che si vede negli edifici, o nelle statue o nei decori, ma quel che è peggio, il mostro distrugge la bellezza che abbiamo dentro” p. 323) l’amore di Detfri per Ovio, l’amore di Laria per Numerio, l’amore di Servio per la sua famiglia, l’amore di Herennio per Amica e Detfri.

Ed è proprio la storia di Detfri ed Amica a lasciare il segno nel romanzo. Mastronardi racconta con delicatezza e commozione la storia di queste due ragazze, l’una romana, l’altra sannita, ne descrive il rapporto d’amicizia. Il padre di Amica, romano di Aesernia, artigiano di Venafrum, decide di adottare la giovane sannita orfana di guerra, ufficializzando una corrispondenza di anime che diventa unione familiare e simbolica.

C’è all’interno del romanzo un giuramento politico, di guerra, pronunciato in una solenne manifestazione tra sfilate e parate militari, tra stendardi e cori; e poi c’è un giuramento diverso, che ha la dolcezza di una cantilena, che ha la tenerezza degli affetti più veri, ed è quello che lega queste due ragazze, un giuramento di fratellanza, di amicizia, di amore: “Ci siamo trovate, vite incrociate, per sempre unite, mai separate. Si sono trovati, passi incrociati, cuori vicini, mai separati.” (p.106)

Tegolone in terracotta (100- 90 a.C) Alt. 66: largh. 94. Sui due lati lunghi si contrappongono due iscrizioni, l’una in latino, l’altra in osco. Nella fascia centrale ci sono due orme di calzari, incrociate tra loro. Il testo: “hn. sattieiies deftri / seganatted. plavted Herenneis. Amica / signavit. qando ponebamus. tegila” (trad.: Deftri schiava di Herennio Sattio ha firmato con il piede Amica, schiava di Herennio, ha firmato quando ponevamo le tegole”)
Tegolone in terracotta (100- 90 a.C) Alt. 66: largh. 94. Sui due lati lunghi si contrappongono due iscrizioni, l’una in latino, l’altra in osco. Nella fascia centrale ci sono due orme di calzari, incrociate tra loro. Il testo: “hn. sattieiies deftri / seganatted. plavted Herenneis. Amica / signavit. qando ponebamus. tegila” (trad.: Deftri schiava di Herennio Sattio ha firmato con il piede
Amica, schiava di Herennio, ha firmato quando ponevamo le tegole”)

La storia di Detfri e Amica simboleggia la coesione armoniosa e rispettosa di due realtà territorialmente vicine, Roma e Sannio, ma nei fatti separate da una disparità di diritti e riconoscimenti giuridici. È una storia che è giunta fino a noi, a testimonianza di un giuramento di amicizia capace di vincere il tempo e la guerra, di un legame speciale capace di andare oltre le contese terrene degli uomini. La storia di Detfri e Amica è la risposta della storia di fronte al tempo.  Le firme delle due ragazze sono state infatti rinvenute su un tegolone in terracotta, nei pressi di Pietrabbondante: vi sono impressi i nomi e due iscrizioni, ma soprattutto vi sono impresse le impronte dei piedi delle due ragazze, ad incrocio, in una danza di anime ed in un percorso di passi condivisi la cui strada arriva fino a noi. Resta il ricordo, il ricordo delle pietre, della natura, delle parole di un tempo, a conferma della commozione che la storia, l’arte, la letteratura, sanno suscitare, quando parlano dell’uomo di ieri e di oggi, quando parlano, come Mastronardi magistralmente fa, all’umanità che è in ognuno di noi.

Allora, qualunque cosa accada alla nostra famiglia, questa tegola resterà lì. In casa nostra sarebbe un oggetto qualunque e dopo di noi perderà importanza. Invece una volta posta sul Tempio grande, diventerà sacra e nessuno oserà toccarla.  Durerà quanto il Tempio grande, forse secoli, e parlerà del legame eterno tra una Sannita e una Romana. Contro il destino che vede i popoli combattersi di nuovo, dirà a tutti, sempre, che l’amicizia e l’amore, anche fra i peggiori nemici, sono possibili nonostante tutto. La guerra non deve vincere, non deve vincere! (p.200)

laura.dangelo86@gmail.com

 

 

 

 

 

 

L'autore

Laura D'Angelo

Laura D’Angelo è scrittrice e poetessa. Dopo la laurea con lode in Lettere classiche e Filologia classica, consegue un Dottorato di ricerca in Studi Umanistici. Docente di materie letterarie, pubblica articoli accademici su riviste scientifiche e saggi in volumi collettanei, approfondendo lo studio della letteratura e della poesia contemporanea. Giurata in diversi Premi nazionali di poesia e narrativa, partecipa a convegni internazionali e svolge attività di critica letteraria, curando presentazioni di libri e interviste. Ha scritto per diverse testate giornalistiche ed è autrice di riviste culturali e letterarie. Tra i suoi testi scientifici: Dante o dell’umana fragilità, in «Sinestesieonline», a. X, n. 32, 2020; L’Isottèo di Gabriele D’Annunzio e la poetica della modernità, in Un’operosa stagione. Studi offerti a Gianni Oliva, Carabba, Lanciano, 2018; Gabriele D’Annunzio e le case della memoria, in Memories &Reminiscences; Ricordi, lettere, diari e memorialistica dai Rossetti al Decadentismo europeo, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Chieti-Vasto, 20-21 novembre, 2019, in «Studi medievali e moderni», a. XXIV – n. 1/2020; Music and Soul: Gabriele D’Annunzio and his Abruzzo Homeland, in Bridges Across Cultures, Proceedings, Vasto, 2017; Dante tra web e social network, in «Studi medievali e moderni», a. XXV – n. 1-2/2021; L’etica dell’acqua, in «Gradiva», International Journal of Italian Poetry, n.62/2022,  ed. Olschki, Firenze; La “Prima antologia di poeti dialettali molisani” di Emilio Ambrogio Paterno, in «Letteratura e dialetti», vol. 16, 2023; Da “Cuore” a L’appello” per una scuola dell’inclusione, in «Nuova Secondaria Ricerca», n.8, aprile 2023. Ha pubblicato inoltre il volume di prose poetiche Sua maestà di un amore (Scatole Parlanti, 2021), semifinalista al Concorso di Poesia “Paolo Prestigiacomo” e il volume Poesia dell’assenza (Il Convivio editore, 2023). Sta recentemente approfondendo lo studio della poesia e della letteratura molisana.


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