Interventi

Henry Corbin e il suo Angelo

Giebt es denn Bäume, von Engeln beflogen,
und von verborgenen langsamen Gärtnern so seltsam gezogen,
daß sie uns tragen, ohne uns zu gehören?

(Alberi ci sono cui sorvolano angeli,
e lenti giardinieri, occulti, così li hanno cresciuti
che, senza essere nostri, ci danno?)
Rainer Maria Rilke, Die Sonette an Orpheus, II, 17

Il Profeta ha detto: « Il cielo scricchiola
e ha un buon motivo per farlo,
perché non vi è in esso lo spazio di una spanna
che non sia occupato da un angelo inchinato o prostrato ».
Al-Ḥakīm al-Tirmidhī, Al-Saḥīḥ, IX, 194

«Les êtres viennent sur moi, mais je ne suis plus ». Era il 20 Agosto 1932 quando Corbin, mentre viaggiava diretto da Stoccolma a Leksand, vide la sua coscienza sofferente attraversata da un richiamo, una rivelazione proveniente dallo Spirito. In un testo breve, scritto al crepuscolo sulla riva del lago Siljan, per questo intitolato Théologie au bord du lac, il filosofo avrebbe tradotto questa esperienza, definendola come « mon Annonciation»:

Car il ne faut pas se promener comme un vainqueur, et vouloir donner un nom aux choses, à toutes les choses ; c’est elles qui te diront qui elles sont, si tu écoutes soumis comme un amant; car soudain pour toi, dans la paix sans trouble de cette foret du Nord, la Terre est venue à Toi, visible comme un Ange qui serait femme, peut-être, et dans cette apparition, cette solitude très verte et très peuplée, oui, l’Ange aussi est vêtu de vert, c’est-à-dire de crépuscule, de silence, de vérité. Alors il y a en toi toute la douceur qui est présente en l’abandon a une étreinte qui triomphe de toi. 

Terre, Ange, Femme, tutto condensato in una figura, che l’uomo, le pauvre, deve ricevere, nella sua assoluta incapacità di conoscere l’Esprit, a partire dalla rinuncia di Adamo alla voluntas, all’amor proprio.
Il poeta statunitense Charles Olson, il quale venne potentemente influenzato dal pensiero di Corbin, di cui nel 1960 aveva letto « with great excitement, intensity and care » l’opera Le temps cyclicque dans le mazdéisme et dans l’ismaélisme, discorrendo di storia e memoria nel mese di Luglio del 1963 aveva scritto:

There is that beautiful idea of the Muslims that you’re walking towards that angel – the actual occurence is on the Cinvat Bridge in the text – who’s coming towards you … a moment when you pass through your angel and become the creature, not of the two, but of the fact that you are without any chance involved with another figure who is you, who is corning towards you in time as you proceed forward in time. And at the moment that you pass, you then are something that that angel was, and you’re no longer that thing you were.

L’incontro escatologico con l’altro da sé ha infatti come proprio presupposto la riscoperta di un’identità non identica a se stessa, che si individui nel dialogo con il proprio Angelo, secondo una visione dell’uomo chiaramente angelomorfica.
Nella pagina del 23 Ottobre 1949 del suo Fragments d’un journal, lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade descriveva Henry Corbin con queste parole: « Mite, straordinariamente colto, appassionato di angelologia ». La scoperta dell’angelologia per il giovane studente Henry Corbin era nata ‒ premesso che di un inizio cronologico si possa discorrere, senza tradire l’istante trascendente e assoluto dell’Aion ‒ a contatto con i corsi del maestro Étienne Gilson, quando dal 1924 in poi aveva assistito con ammirazione alle sue lezioni di filosofia medievale, ad un lavoro sui testi che anni dopo avrebbe definito come una ‘festa dello spirito’. Nell’incontro con un contesto filosofico nel quale si faceva strada una lettura altra del pensiero cristiano medievale, attraverso le opere di quei filosofi contenenti una dottrina aristotelica fortemente neoplatonizzata, la quale avrebbe portato il Gilson a parlare, in riferimento al successo di Avicenna alla fine del XII secolo presso i Cristiani, di « avicennismo latino ».  Corbin scoprì proprio mediante lo studio del « célèbre livre d’Avicenne », il Liber Sextum Naturalium, la connivenza tra cosmologia e angelologia, quel Giano bifronte così efficacemente spiegato:

L’angelologia avicenniana è il segreto di una cosmogonia dal doppio volto: la genesi dei cieli esoterici, invisibili, unitamente alla genesi dei cieli essoterici che sono i cieli visibili dell’astronomia e della fisica celeste. È assai importante affrontare ab inizio tale duplice aspetto, al fine di non legare la sorte dell’angelologia avicenniana alle vicissitudini storiche dell’astronomia positiva. A quest’ultima poté capitare quanto di fatto le accadde, il sistema tolemaico poté sprofondare nell’obsolescenza. E tuttavia una tale decadenza non coinvolse affatto la struttura del mondo dell’Angelo, né venne meno la sua energeia, l’Imago mundi attiva, che ha potuto fare, dei cieli dell’astronomia tolemaica, i simboli – la parabola – degli invisibili cieli esoterici.

Intenzionato a restaurare una cosmologia autenticamente aristotelica, sarà Averroè con la sua fisica celeste ad operare, secondo quanto sostiene Corbin nella Histoire de la philosophie islamique, la distruzione filosofica di questa Imago caeli, della seconda gerarchia angelologica avicenniana. Quelle Animae celestes, definite dal suo shaykh Sohravardi (m. 1191) come « i celesti fedeli d’amore », svaniranno recando con questo conseguenze decisive. Questa seconda gerarchia, situata tra l’orbe celeste e la pura intelligenza separata, rappresentava infatti il presupposto fondamentale di una pédagogie angélique, la quale nella cosmologia e nell’antropologia di Avicenna segnava una relazione diretta, personale, dell’anima con le Intelligenze agenti, le « Intelligences angélique ». In quanto soglia del mondo dell’Immaginale, sono esse a detenere il privilegio della potenza immaginativa allo stato puro, indipendente dai sensi e totalmente vera, e attraverso di esse e la loro guida soltanto può avvenire l’esperienza mistica del profeta o del filosofo, uniti da una vocazione comune. Come riporta il pensatore iraniano Dariush Shayegan, nell’opera intitolata Henry Corbin. Penseur de l’Islam spirituel, questa « guida interiore può assumere nomi diversi e vari, come l’Angelo Gabriele, l’Arcangelo imporporato, il Maestro invisibile, la Natura Perfetta (Sohrawardî e la tradizione ermetica); il compagno celeste (secondo la tradizione gnostica); il Gemello Celeste (Mâni), Hayy ibn Yaqzân (Avicenna) ». Eugenio d’Ors Rovira (1881-1954), nella sua grande  Introducción a la vida angelica del 1941, l’avrebbe descritta come l’entità in cui si sostantivizza la “superconsciencia”, quest’ultima talamo nuziale dell’anima e dell’Angelo. Il teologo ortodosso Sergej N. Bulgakov, il cui pensiero si rivelò fondamentale nell’aprire a Corbin il mondo della tradizione sofiologica russa, lo aveva definito nel testo del 1929 La scala di Giacobbe sugli Angeli come « il fondamento sofianico nel cielo del nostro essere sulla terra ». Il filosofo francese avrebbe tradotto successivamente a Istanbul alcuni capitoli di questo testo, rimanendo influenzato dall’antropologia angelologica del Bulgakov.
La preoccupazione angelologica – nutrita entusiasticamente anche a contatto del lavoro di Gustave Theodor Fechner, autore nel 1825 dell’Anatomia comparata degli angeli – avrebbe pervaso oltre alla sua ricerca la sua stessa persona, trovando magistrale forma nell’intervento tenuto nel Maggio 1977 presso l’Université de Tours, con il titolo di Necessité de l’angélologie, definito da Massimo Cacciari nel suo L’angelo necessario come « un’insuperabile sintesi introduttiva al problema dell’Angelo»:

L’inattingibilità del Nome attraverso i Nomi – o, secondo il Cusano, la possibilità di attingere il nome solo inattingibiliter – è il motivo dominante, per Corbin, dell’angelologia islamica. In ciò essa riproporrebbe la nota più pura della stessa metafisica neoplatonica, altrettanto lontana da ogn impostazione dualistica che da ogni impazienza ‘assimilativa’ (presente, invece, nel Corpus Hermeticum). Nell’Angelo islamico Corbin vede la stessa figura cui Rilke allude nella famosa Lettera a Witold von Hulewicz dedicata all’interpretazione delle Elegie duinesi. Quella « intima e durevole metamorfosi del visibile nell’invisibile », che a Rilke appare già « perfetta » nell’Angelo, rappresenta il fine supremo del pelleginaggio terrestre, di cui narra Avicenna nella sua trilogia? La via dal conoscere al theorein si svolge, per Avicenna, ad imitazione dell’Angelo, come una ‘produzione’ dell’Invisibile.

Se uno dei capitoli di tale lavoro è dedicato proprio all’angelologia avicenniana e alla sua cosmologia « dal doppio volto », è alla funzione teofanica necessaria del messaggio angelico, nella gnosi delle tre grandi religioni abramitiche monoteiste, che l’indagine di Corbin conduce.
«Ierofante dell’essere», « ermeneuta dei Verbi divini », l’Angelo, « mistero del Volto divino che si manifesta in molteplici teofanie », in quanto assolve l’assoluto, absolutum, divinità assolutamente trascendente e inconoscibile, dalla sua ascondità e dal non-essere, è l’absconditum, l’absolvens che permette all’uomo di sfuggire dall’idolatria metafisica che, nel monoteismo comune, essoterico, totalitaire persino, pretenderebbe di rivolgersi all’Assoluto ineffabile senza mediazione, direttamente. In questo modo finendo per confondere l’assolvente (muṭliq) con l’assolto (muṭlaq), e cadendo in una doppia trappola. L’antropomorfismo idolatrico da un lato, e l’allegorismo dall’altro, con la sua astrazione dell’assenza. É questo il “paradosso del monoteismo”, che senza un’angelologia vede come impossibile tanto la sopravvivenza di una religione profetica e di una filosofia profetica, come l’unificazione dell’Uno e del Molteplice.
Non solo Corbin valuterà possibile il monoteismo (tawḥīd) solo alla luce dell’angelologia, ma scorgerà nell’erranza (die Irre), nel vagabondaggio del nichilismo moderno, il frutto della perdita del contatto con il fenomeno dell’Angelo e il conseguente « disertare » dell’uomo nell’incerto e nell’inconoscibile, o nella collettività sociale della Storia. Dimensione questa, in cui secondo il filosofo francese, il cristianesimo stesso aveva finito per situarsi, secondo un processo definito di « deescatologizzazione », che vede trionfare il paolinismo e tutto ciò che ne consegue, con un concetto di redenzione contrapposto, mediante la sua deificazione dell’uomo, alla cristo-angelologia (Engelchristologie) della Chiesa di Giacomo.
Processo di mutazione coscienziale che Corbin osserva esemplificato iconograficamente, nel passaggio dalla cristologia angelomorfica e teofanica – rappresentata dal Cristo adolescente presente anche nei mosaici di Sant’Apollinare a Ravenna – alla cristologia di Nicea, postulata da « una teologia della realtà delle sofferenze divine nella carne, realtà della fisiologia e della storia ». Dal tramonto del docetismo, a favore del dogma ufficiale dell’incarnazione, per un docetista come lui – che cercava allo stesso modo dei suoi spirituali l’apparizione divina nello specchio umano, e nella sua copia personale delle Fuṣūṣ al-ḥikam (Le gemme delle sapienze dei profeti) di Ibn ‘Arabī annotava di fronte alla natura Christi islamica le parole « magnifique docétisme » – non poteva che derivarne una conclusione nefasta. Quella che Martin Heidegger, mediante il rapporto inaggirabile con la poesia di Hölderlin, definirà con il termine di “sdivinizzazione” (entgötterung) del mondo moderno, e che Corbin descrisse come un « monofisismo a rovescio », conseguenza della « socialisation du spiritual ». Così scriveva  il teologo Sergio Quinzio a proposito nel suo testo intitolato Le radici ebraiche del moderno (1990):

Lungo la sua strada, Corbin incontra Platone e Proclo, varie specie moderne di gnosi ed esoterismi, e persino l’“intrepido spiritualismo” dei Mormoni. Ma deve invece lasciare da parte la corrente maestra dell’Islam, quella sunnita, e deve soprattutto prendere le distanze dalla concezione cristiana dell’incarnazione. « La Storia non è il luogo del divenire della coscienza divina suprema. Il contatto delle Potenze divine arcangeliche con quel che chiamiamo Storia volatilizza quest’ultima e si compie fra Cielo e Terra. È questo il senso delle teofanie ». Al contrario, errore fondamentale, « il luogo dell’Incarnazione definito dalla cristologia dei Concilii era il mondo terrestre, il mondo della Storia e delle realtà empiriche ». Non poteva che derivarne, dice Corbin, la confusione tra divino e umano con quella finale trasformazione dell’incarnazione divina in « incarnazione sociale o socio-politica », in cui consiste l’aberrazione moderna. L’alternativa a questo esito – come scrive, in accordo con Corbin, Gianroberto Scarcia nella postfazione all’edizione italiana del Paradosso del monoteismo è « il mondo dell’estetica assoluta … Alle crociate gli angeli non partecipano; sorridono soltanto, quando li si chiama, e non si muovono ».

Corbin dunque concepiva la sua teosofia angelocentrica come inesorabilmente e definitivamente contraria, separata dal dominio proprio della sociologia, come evidenzia Steven M. Wasserstrom. Il cammino di ricerca del filosofo Henry Corbin sfugge ad una logica di mera trasposizione di concetti appartenenti al mondo filosofico occidentale nel contesto della meditazione orientale. Non è allo stesso modo un’esecizio di « sincretismo ». I lasciti dell’insegnamento occidentale, su tutti il méthode phénoménologique e la clavis hermeneutica, accompagnarono lungo tutto il proprio percorso filosofico, e in tutta continuità, il suo compito di traduttore e ricercatore. Per questo, piuttosto che di riduttivi passaggi geografici, da occidente ad oriente, e viceversa, è opportuno collocare l’opera di Corbin nella dimensione sua propria, dove piuttosto che di migrazione è opportuno parlare di ascensione, secondo una via che si definisce come anagogica. Orientale ascesa, così chiaramente dipinta nei racconti esoterici del suo Shaykh al-Ishrāq (il maestro dell’illuminazione), « racconti di angelofanie », su tutti il malinconico Racconto dell’esilio occidentale, cruciale e risolutivo per il nostro autore e il suo sentiment gnostique. Le scoperte proprie di una coscienza « libérée des chaînes de l’historicité matérielle », che apre a se stessa « la voie de l’herméneutique prophétique », dove la virtus imaginativa opera attraverso le Immagini-archetipi la trasmutazione dei dati empirici, conferendo loro il senso, erano possibili solo ponendosi su un asse di orientamento determinato, verticale, longitudinale, capace di concepire un sovrasensibile concreto. Dimensione che come Corbin riporta nel testo intitolato L’homme de lumière dans le soufisme iranien, « non è certo un mondo di concetti, di paradigmi e di universali », di cui la logica ama trattare, « la spoglia mortale dell’Angelo », ma il mondo dell’Angelo. Swedenborg, non Cartesio:

Orientandosi sul polo celeste in quanto soglia dell’aldilà questa presenza lascia aprire a sé un mondo diverso da quello spazio geografico, fisico, astronomico. La « via retta » qui è non divagare né verso est né verso ovest; è salire sulla vetta, ovvero tendere al centro; è l’ascensione al di fuori delle dimensioni cartografiche, la scoperta del mondo interiore che secerne da sé la propria luce; un’interiorità di luce che si oppone alla spazialità del mondo esterno che, per contrasto, apparirà come Tenebre.

Come afferma Corbin, sarà infatti l’angelologia ad assegnare l’epilogo del viaggio, un esito che non sfoci nella perdizione, o nella secolarizzazione di una fides historica. Quel grande continente scomparso al pensiero occidentale, mondo mediano e mediatore, che il filosofo francese avrebbe definito come mundus imaginalis – dando ad esso un rilievo che diversi suoi critici iraniani, quale il filosofo Gholāmhossein Ebrāhīmī Dīnānī, giudicheranno esagerato, accusandolo di essersi fermato nella stazione del mondo immaginale (‘ālam al-khiyāl) nel suo viaggio metafisico – era per lui il luogo necessario dove l’individuale avrebbe potuto reincontrare il suo Doppio, una presenza che precedesse la volontà, la parvenza, compiendo l’Individuation. Dunque trascendere il proprio sè provvisorio a favore di un Uomo di Luce, luce (al-nūr) dalla quale gli angeli (al-malā’ika) secondo l’Imām Jaʻfar Al-Ṣādiq furono da Dio creati e il cui numero, come afferma il Corano (74:31), « non lo conosce che Lui », il « Signore delle Scale ». Seyyed Hossein Nasr, pensatore perennialista iraniano, da parte sua nell’autobiografia intitolata In searched of the Sacred arditamente parla proprio di un contatto personale del pensatore francese con il malakūt, questo invisibile regno angelico: «I think that Corbin was given a kind of divine gift of being able to be in contact with the angelic world. He was a kind of hermeneut of the angelic world in that he had a natural inclination towards that world and the ability to interpret its message for us. He was a kind of natural visionary. Whenever he looked at things, he looked behind them, not only at them. He always looked for the inner sense of things».
Tutto nell’universo, dalla stella al fiore che il deserto alberga, è affidato a uno o più angeli, non v’è singola goccia che dalle nubi precipiti senza che un abitante del cielo non la guidi al suo luogo stabilito, questo sostiene una tradizione. Quando Henry Corbin muore è sereno, compiutosi l’esodo, l’uscita dall’Egitto. Ancora una volta è Mircea Eliade a riportarcelo nei suoi appunti di diario del 7 Ottobre 1978, affermando come Corbin non fosse stato per lui solo un amico, ma soprattutto un testimone. Corbin trapassa in pace, mentre aspettava il suo Angelo, certo che il suo custode celeste lo stesse attendendo, come la tradizione ci narra avesse fatto il « barbiere persiano » Salmān Pak a Madā’in, l’antica capitale sasanide Ctesifonte, quando « volle essere lasciato solo, con tutte le porte aperte: come in attesa di visitatori invisibili ».  Salman, « lo Straniero, l’Esule venuto da lontano », presso « l’exquise enceinte de ce sanctuaire » il pellegrino Henry Corbin afferma di essersi commosso nel Settembre 1945, forse già memore di un’anima che non voleva lasciar perire il suo Signore d’amore?

Nelle Duineser Elegien di Rilke la creatura atta a metamorfizzare il visibile nell’invisibile era stata individuata proprio nell’Angelo, un Engel tremendo e islamico come egli stesso afferma nella celebre missiva del 13 Novembre 1925. Nel testo Philosophie iranienne et philosophie comparée Corbin avrebbe accostato questo compito, autentico opus magnum dell’uomo, alla stessa funzione creativa, transfiguratrice della conoscenza gnostica nel pensiero del sapiente iraniano Seyyed Allāmeh Ṭabāṭabā’ī. Ma è bensì una tradizione popolare sciita udita in Iran – la quale afferma come tra cielo e terra dimori il sangue dell’Imām Husayn ibn ʻAlī, il Principe dei Martiri martirizzato a Karbalā’ nel 61/680, che qualora rifluisse sulla terra ne causerebbe la fine – a illuminare il pensiero di Corbin. Essa sembra rappresentare al meglio per il filosofo la necessità di collocare « entre Ciel et la Terre », entro un saeculum intelligibile, la percezione trasfiguratrice delle cose sacre, quella stessa conoscenza salvifica che deve la sua origine a una individualità oltremondana, da noi tragicamente obliata, e come scrive il teologo Romano Guardini, straordinario interprete rilkiano e fine osservatore delle gerarchie dello spirito, ormai dimentica persino al credente. Ma nel ritrovamento di questa archetipica “controparte celeste”, nel combattimento (jihād) per la sua riconquista, viene riposta la possibilità per gli stessi Anges en puissance, gli uomini che si siano fatti carico del pentimento e della nostalgia, di compiere l’exegesis, giungere à l’angélicité en acte. Non aveva forse Charles Olson così cantato nel poema Maximus, at the Harbor contenuto nella sua opera somma, The Maximus Poems?

Paradise is a person. Come into this world.
The soul is a magnificent Angel.
And the thought of its thought is the rage
of Ocean : apophainesthai.

Il Corano nella sura degli ornamenti d’oro (XLIII, 60) aveva infatti affermato perentoriamente, simile a promessa e riflessa speranza: « Perché, se volessimo, faremmo ereditare la terra, dopo di voi, ad angeli ».

fabiotiddia79@gmail.com

Riferimenti bibliografici

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Henry Corbin, « Théologie au bord du lac », dans Henry Corbin, sous la direction de C. Jambet, L’Herne, Paris 1981 [1932].
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Massimo Cacciari, L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1992.
Sergio Quinzio, Le radici ebraiche del moderno Adelphi, Milano 1990.
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Romano Guardini, L’angelo. Cinque meditazioni, Morcelliana, Brescia 1994.
Romano Guardini, Rainer Maria Rilke. Le Elegie duinesi come interpretazione dell’esistenza, Morcelliana, Brescia 2003.
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L'autore

Fabio Tiddia
Fabio Tiddia  (1979) si è laureato in filosofia all’università di Cagliari con una tesi sull’orientalista e filosofo francese Henry Corbin. Ha continuato gli studi e le ricerche a Teheran, pubblicando vari articoli sulle correnti del pensiero islamico e sulla letteratura persiana in riviste iraniane e italiane, in particolare su “Rivista di Studi Indo-Mediterranei” (RSIM) e “Quaderni di Meykhane”, presso cui è anche membro del comitato scientifico. Ha collaborato per alcune voci con la Enciclopedia Treccani e attualmente vive a Teheran dove svolge le sue ricerche e partecipa a seminari e convegni prevalentemente dedicati agli studi storico-religiosi di area iranica. In particolare ha condotto ricerche sul filosofo ismailita Nāser-e Khosrow e sul mistico Ansāri di Herat, e più recentemente sul movimento dei qalandar, a proposito del quale sta preparando un’antologia di testi in traduzione. Attualmente lavora a ricostruire gli incontri che ebbero luogo tra il filosofo Seyyed Allāmeh Tabātabā’i e l’orientalista francese Henry Corbin. È corrispondente dall’Iran e consulente scientifico per il Progetto Internazionale IDA (Immagini e Deformazioni dell’Altro).

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