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«Il terzo amatissimo mestiere» di Primo Levi. Teresa Agovino dialoga con Gian Luigi Beccaria.

Gian Luigi Beccaria non ha certo bisogno di presentazioni. Professore emerito dell’Università di Torino, è tra i più noti linguisti italiani; membro delle Accademie della Crusca e dei Lincei, autore di numerosi studi di lingua e letteratura; ha diretto il Dizionario di linguistica e filologia. Sin dagli anni Ottanta si è occupato anche di divulgazione scientifica all’interno del programma televisivo di Rai 3 Parola mia. In questa breve intervista, che ci ha gentilmente concesso, ci parla del suo ultimo volume I «mestieri» di Primo Levi in cui analizza il “mestiere” meno noto dello scrittore torinese: quello del linguista.

Professor Beccaria, la complessità cui Levi ci ha educati attraverso i suoi scritti è un tema centrale degli studi critici legati all’autore torinese. Eppure se si parla spesso del Levi testimone della furia nazista di Auschwitz e del “centauro” diviso tra la chimica e la narrativa, ancora poco si discute delle sue brillanti doti di “mancato” linguista. All’interno de I «mestieri» di Primo Levi Lei analizza proprio questo aspetto legato a quello che definisce «un terzo amatissimo mestiere». In che senso quello del linguista rientra tra gli «altrui mestieri» di Primo Levi?

«L’altrui mestiere» che più andava a genio a Levi era proprio quello del linguista («Quello del linguaggio è un mio amore mancato. Avrei voluto essere un filologo e studiarlo sul serio, invece non è andata così e ho fatto un mestiere totalmente diverso» confessava in un’intervista). Tutti ricordiamo le sue sagaci note etimologiche, le sue riflessioni sulle trappole linguistiche tese ai traduttori, sui vari linguaggi settoriali (il burocratese, il linguaggio scientifico, sportivo, pubblicitario), le pagine su La lingua dei chimici I e La lingua dei chimici II, oppure sul passaggio dal nome proprio al nome comune… Levi dedicava molto tempo alla frequentazione dei dizionari, soprattutto gli etimologici (racconta che a undici anni aveva mosso mari e monti per averne uno). Gli è sempre piaciuto occuparsi di storie di parole, compiere «bracconaggi in distretti di caccia riservata», come chiamava le sue incursioni in un terreno professionalmente non suo, dove amava scorrazzare con molta dottrina, accompagnata anche da una singolare leggerezza ironica, spesso da un sottile umorismo. 

L’attenzione alla lingua, in Levi, non si ferma unicamente alla continua scoperta delle particolarità dell’italiano ma, anzi, come Lei spiega, si allarga per esempio alla gergalità giudaico-piemontese e al dialetto piemontese stesso, dialettalità indagata non solo a livello lessicografico ed etimologico ma anche sul piano strettamente sintattico?

Nel mio libro faccio al proposito riferimento ad Argon, il capitolo che apre Il sistema periodico, fitto di testimonianze verbali del giudaico-piemontese parlato in passato a Torino: voci ebraiche storpiate, in particolare voci di bottega del «sottogergo specialistico» dei commercianti di stoffe ebrei («Qualcuno, ad esempio, impiega ancora l’espressione “’na vesta a kiním” per indicare “un vestito a puntini”: ora i “kiním” sono i pidocchi, la terza delle dieci piaghe d’Egitto, e numerate e cantate nel rituale della Pasqua ebraica»), voci tratte spesso dalla solennità dei libri sacri ma deformate per area semantica arbitrariamente allargata dal sacro al concreto corporale (vedi il delizioso passo sulla zia Regina e lo zio Davide seduti al Caffè Florio di via Po, dove Levi ci parla del passaggio da ruákh, il “vento del Signore”, il suo “alito”, al significato di “scorreggia” («il che – commenta Levi – ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore»).
Nel mio libro osservo come Levi avrebbe potuto esercitare assai bene la professione del dialettologo, se penso alle attentissime simulazioni di lingua popolare e del dialetto che ha messo in opera nella Chiave a stella, dando la parola a Faussone che parla con le parole sue, parole da officina, un italiano piemontizzato praticato un tempo da artigiani ed operai. Se Augusto Monti, Pavese e Fenoglio hanno dato alte prove di piemontese illustre di radice rurale, Levi con La chiave a stella ha per la prima volta proposto un italiano popolare cittadino. Levi fa parlare l’uomo fabbro che si accende nel parlare delle cose che si possono toccare, vedere e concretamente descrivere. Usa la lingua degli uomini fabbri, una lingua tecnica e concreta, di ardito e felice sperimentalismo, un italiano pensato in dialetto, la cui dialettalità è giocata sul livello più profondo, vale a dire quello sintattico, e non tutta sul lessico. 

All’interno de I «mestieri» di Primo Levi Lei spiega che «fu certamente lo spirito pragmatico del chimico Levi a indirizzare il “secondo mestiere” del Levi scrittore […] verso una lingua asciutta e pulita». Quanto hanno inciso sul “terzo mestiere” dell’autore le conoscenze chimiche e la considerazione «puntigliosa» verso la materia, che egli stesso dichiarò a più riprese essergli state fondamentali anche sul piano narrativo, in particolar modo nel suo incessante tentativo di restituire ordine al caos?

Anche se a Levi piacevano gli scrittori apparentemente oscuri, gli irregolari e gli ibridi o eccessivi, gli estremistici e i contaminati (i “centauri”), da Rabelais a Belli, a Porta, a D’Arrigo, a Queneau, quelli insomma che erano esattamente il suo contrario, per sé ha optato per una scrittura asciutta, pulita, ha scelto il chiaro e distinto che gli veniva dalle scienze. Fu certamente lo spirito pragmatico del chimico Levi a indirizzare il Levi scrittore verso la sostanza razionale, analitica del discorso, verso una lingua concisa e senza fronzoli, concreta e comunicativa, priva di retorica e di pathos. Scrivere è un “trasmettere”, diceva, non usare messaggi cifrati. Levi ha trattato la lingua come un segno cristallino e transitivo anche quando doveva misurarsi con la descrizione dell’ignobile: si può dire che tanto più terso era il suo periodo quanto più torbida era la realtà da descrivere. Ha difatti rappresentato il male in modo freddamente netto, senza compiacimento dell’atto crudele, orrendo, ma sempre misurando, pesando le parole. Questo «pesare le parole», il «non fidarsi delle parole approssimative» gli è venuto dal mestiere di chimico, dallo scienziato che amava la comunicazione esatta, asciutta, precisa. La scienza lo ha aiutato anche per ciò che riguarda la fantasia, gli ardimenti stilistici. Si pensi al vasto assortimento delle sue metafore, alla singolare ricchezza delle sue comparazioni, così spesso dominate da figuranti tratti dal mondo della tecnica e della scienza, e che stimolano la sua fantasia e ad un tempo la ancorano al concreto.

Primo Levi è stato sicuramente un autore «dal multiforme ingegno»; oggi i suoi testi sono oggetto di studi da parte non solo di critici letterari e linguisti ma anche di chimici, psicologi, storici, scienziati di varia natura. Quale consiglio darebbe ai giovani studiosi che si trovassero ad intraprendere percorsi di ricerca legati ad un autore tanto sfaccettato e complesso pur nella sua apparente semplicità?

Sono forse la persona meno adatta per dare consigli ai giovani. Ma ci provo. E allora direi che oggettività, realtà, concretezza dello scienziato e libertà dello scrittore sono le due virtù fondanti che Levi ha saputo trasmetterci e di cui i giovani dovrebbero fare tesoro. Una esemplificazione letteraria di tale virtù Levi ce l’ha data nel Sistema periodico, che è non a caso uno dei libri suoi più amati dalle nuove generazioni. È un libro che può essere letto in vari modi: ad esempio, come evidente elogio della manualità (quello che ai giovani oggi manca moltissimo), la manualità non disgiunta dall’intelletto (rileggete il capitolo Idrogeno). Altro insegnamento del libro (e lo faccio mio come consiglio): l’elogio del lavoro fatto bene, dell’uomo che si realizza nelle cose che fa («l’amare il proprio lavoro […] costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra»), quel mettersi continuamente alla prova. Il che vale tanto per la scrittura come per la scienza. Ciò dà un profondo senso etico al lavoro come sforzo e iniziativa dell’intelligenza, del sapersela cavare, dell’ingegnarsi. Levi parlò più volte della concezione fabbrile del testo letterario come lavoro artigianale, un qualcosa che si costruisce poco alla volta, con sperimentazioni e approssimazioni successive. Lo scrivere insomma come lavorazione più che lavoro, un procedere da uomo-fabbro, che ha la saggezza basata sull’esperienza del fare, il lavoro che diventa non «il grande nemico», quell’attività alienante, servile, inglobata nel «sistema», ma attività inscritta in una «civiltà della competenza». Lavoro pratico e scrittura non sono mai state per Levi attività distanti: sono stati due saperi lavorativi. Restano fondamentali le osservazioni di Levi sulle “due culture”, che non vanno tenute divise, a rischio di perdere la misura dell’universo in cui viviamo.

 

L'autore

Teresa Agovino
Teresa Agovino è dottore di ricerca in Letterature Romanze presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". È cultore della materia in Letteratura Italiana Contemporanea. È professore straordinario a t. d. di Linguistica Generale presso l'Universitas Mercatorum di Roma, e docente a contratto di Lingua e linguistica italiana presso la Scuola Superiore Internazionale di Mediazione Linguistica (SSML) di Benevento; di Linguistica Italiana e Generale presso UniPegaso. Ha pubblicato due volumi: Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, 2020) ; Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento (Sinestesie, 2017). Si occupa di ricerca in Letteratura italiana del Novecento e Duemila. In particolare studia i riferimenti manzoniani contenuti all'interno della prosa contemporanea sino agli anni Duemila (principalmente in Camilleri e De Cataldo) e l'opera di Primo Levi. Di prossima pubblicazione anche la traduzione italiana del romanzo Bones in London di E. Wallace (1921).