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Tra Dante e gli e-book. Anna Raimo intervista Michelangelo Zaccarello

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Autore di saggi e volumi pubblicati in Italia e all’estero, Michelangelo Zaccarello è Professore ordinario di Filologia italiana presso l’Università di Pisa, dopo vari anni di docenza tra Dublino, Oxford e Verona. È autore di varie edizioni critiche e di un manuale di Filologia italiana (L’edizione critica del testo letterario, Milano, Mondadori, 2017). Scritti più recenti applicano la medesima prospettiva teorica e metodologica all’avvento dell’autorialità collaborativa e della testualità digitale: Teoria e forme del testo digitale (Roma, Carocci, 2019) e Leggere senza libri. Conoscere gli e-book di letteratura italiana (Firenze, Cesati, 2020).

Prima di tutto, caro professor Zaccarello, la ringrazio di aver accettato di farsi intervistare da Insula europea e mi congratulo per il suo nuovo libro: Leggere senza libri. Conoscere gli e-book di letteratura italiana. Nella premessa di questo volume, lei dichiara subito gli scopi del libro: «Attraverso una rassegna dei più recenti studi su tali complesse questioni, questo libro affronta le questioni più attuali della testualità digitale […] Fra i principali propositi del volume c’è un contributo alla più ampia presa di coscienza dei profondi mutamenti che la testualità elettronica ha impresso ai collaudati rituali della lettura e dello studio». Quali altre motivazioni l’hanno spinta ad occuparsi di questa tematica?

Prima che di testualità digitale, al centro dei miei interessi da non più di una decina d’anni, io mi occupo di filologia, della disciplina cioè che studia le modalità di produzione, pubblicazione e circolazione dei testi, al fine tanto di procurarne edizioni scientificamente condotte, quanto di studiarne storicamente le varie forme di ricezione e fruizione. Tutti questi aspetti sono stati, ormai da decenni, trasformati in profondità dall’avvento delle tecnologie digitali: queste sono passate in breve tempo dal condizionare la fruizione del testo letterario (sempre più “ricercato” e non letto in modo lineare e sequenziale) al trasformare in profondità il metodo della raccolta dei dati e della relativa interpretazione, con sempre maggiore attenzione data alla ricerca su corpora di notevole ampiezza e non sempre omogenei al loro interno, anteponendo l’ampiezza della base interrogata alla “finezza” della codifica. Ne risulta una nuova centralità delle interfacce di ricerca, che fanno parte ormai della quotidianità ma devono essere usate consapevolmente, per non distorcere il senso stesso della ricerca: condizionati da parole chiave e profilazione dell’utente, infatti, rischiamo sempre più di trovare quanto stavamo cercando, seguendo linee preconcette che gli algoritmi di ranking sono progettati per identificare e supportare. Se questo è il modo in cui si fanno strada fake news e teorie complottiste, è chiaro che per la ricerca scientifica le conseguenze possono essere gravissime.

Lei è stato un pioniere delle Digital Humanities applicate allo studio della filologia; com’è nato l’interesse per questo argomento? Inoltre, quando ha iniziato i suoi studi, si aspettava uno sviluppo così rapido di queste nuove tecnologie?

Permettimi, vi sono ben altri studiosi che meritano il titolo di pioniere delle DH: Pasquale Stoppelli, Domenico Fiormonte e Dino Buzzetti, per fare solo tre nomi in tre distinte aree di questa vasta categoria (gli archivi digitali, la conservazione e studio del materiale variantistico e la riflessione teorica sulla testualità digitale). Quel che è certo è che si tratta di un campo affascinante proprio per le profonde mutazioni che – trainate da un rapido progresso tecnologico – vi possono occorrere anche in pochi anni. Tutto ciò è particolarmente evidente in strumenti che diventano rapidamente parte della nostra vita quotidiana, come i motori di ricerca. Questi ultimi eseguono algoritmi di ranking che privilegiano le pagine più visitate, o meglio codificate, in modi che in buona parte prescindono dalla validità e dall’affidabilità dei loro contenuti, dei quali viene valutata la sola rilevanza per i termini di ricerca, e l’integrazione nel sistema di link reciproci del Web.

Nel primo capitolo accenna alla scarsa diffusione del libro in formato digitale, spiegandone le motivazioni e citando, tra le altre, la differente tassazione rispetto al formato cartaceo. Ritiene che i governi possano attuare delle politiche ad hoc per sostenere l’editoria digitale?

Un importante passo in avanti è stata la parificazione dell’IVA sugli e-book all’aliquota agevolata del 4% prevista per i libri cartacei. Non tutti lo sanno, la tassazione di tali prodotti era allineata fino pochi anni fa a quella dei supporti digitali come i CD e DVD: 22% anziché il 4% riservato ai libri, un regime che rendeva ben difficile agli editori offrire un reale vantaggio ai lettori che volessero abbracciare il nuovo formato. In Italia, questa decisione italiana, di banale equità, è stata presa solo nel 2015, ma è stata avallata dall’Ecofin solo nell’ottobre di due anni fa. Per il resto, il progresso dei formati digitali nel mercato editoriale può solo muovere da un aumento della domanda di lettura, ma quest’ultima dovrà infine superare un certo attaccamento al rassicurante rapporto tattile con le pagine, alla ricchezza dell’esperienza tradizionale della lettura, alla maggiore memorabilità della pagina cartacea (come racconta il libro, si tratta di aspetti sottolineati già nel 1996 da una voce insospettabile, quella di Bill Gates!).

Nel libro lei fa sovente riferimento alla scarsa attenzione prestata dagli utenti alla qualità dei contenuti scaricati, riferendosi in particolare ai classici della letteratura italiana; ritiene che questo sia proprio di tutti gli studenti o gli umanisti sono in media più attenti alle fonti?

Insegno una materia che si svolge, nell’assoluta maggioranza dei casi, su testi non coperti dal diritto d’autore: naturale, dunque, che si possa sperare di trovarli digitalizzati. Gli studenti sfruttano da tempo questa possibilità e, va detto subito, non c’è motivo di criticare quest’abitudine, a patto che non vi si faccia eccessivo affidamento. Io stesso vi facevo riferimento nel preparare le lezioni, ma è proprio verificando sulle fonti cartacee che ho cominciato a sospettare della relativa affidabilità e ad approfondire le modalità con cui vengono acquisite le scansioni dalle quali derivano i nostri e-book. Già il procedimento non ha un’accuratezza assoluta, ma occorre tener presente che – per evitare rivendicazioni dai moderni editori – le fonti utilizzate sono quasi sempre vecchie edizioni, con carta ingiallita, caratteri sbiaditi e/o di forma insolita (come sono, in rapporto ai font dei computer attuali, quasi tutti i libri stampati con procedimento manuale, cioè fino agli anni Ottanta del XX secolo), può mettere in difficoltà una o più fasi della procedura, con ricadute significative sull’accuratezza della “lettura”. Il lettore umanista dovrebbe essere più sensibile alla qualità testuale di ciò che legge, ma occorre anche dire che tempi e modi della lettura sono cambiati nell’orizzonte digitale, a vantaggio di una fruizione più frettolosa e parcellizzata del testo letterario.

Nel quinto capitolo si sofferma sulle edizioni digitali della Vita Nova, mostrando una serie di errori; anche le altre opere dantesche digitalizzate, tra cui la Commedia, sono poco accurate dal punto di vista filologico?

A un primo sondaggio, la Commedia non sembra condividere le criticità delle opere minori: le ricerche sono ancora in corso e non mi sembra giusto anticiparne i risultati. Ad ogni modo, non c’è dubbio che la prassi intensa e continua del commento abbia potuto fare emergere discrepanze via via corrette. Rispetto alla Vita Nuova, perlopiù digitalizzata a partire dal benemerito testo fissato da Michele Barbi nel 1932, le fonti della Commedia sono assai più recenti, e creano meno problemi all’occhio elettronico. In rapporto ai font dei computer attuali, quasi tutti i libri stampati con procedimento manuale, cioè fino agli anni Ottanta del XX secolo, con gl’inevitabili segni del tempo (carta ingiallita, caratteri sbiaditi e/o di forma insolita), non possono che mettere in difficoltà una o più fasi della procedura di scansione, con ricadute significative sull’accuratezza della “lettura”.

Come si potrebbe migliorare, a suo parere, la qualità delle digitalizzazioni: un maggior intervento umano potrebbe bastare?

A partire dagli anni Novanta, si è assistito a una vera e propria corsa alla digitalizzazione di opere letterarie, specie se non soggette a diritti d’autore, ovvero di autori che siano deceduti da almeno settant’anni: per la letteratura italiana, questo include ormai non solo Svevo, D’Annunzio e Pirandello, ma fra qualche giorno anche Cesare Pavese. In quella fase cruciale di mass digitization, che si è esaurita solo dopo il primo decennio degli anni Duemila, la corsa era a digitalizzare quanto più materiale possibile, per realizzare il sogno – certo lodevole – di   una biblioteca assoluta, che mettesse gratuitamente la letteratura mondiale a disposizione di tutti. In questo modo, si è arrivati – specie grazie al progetto Google Books – a digitalizzare diverse decine di milioni di titoli (non c’è accordo sulla reale cifra), ma con una filosofia low cost che ha inevitabilmente accantonato la qualità in favore di soluzioni all’insegna del good enough, categoria che ha sì ampio corso nel mondo attuale (dove Internet è sempre e comunque il luogo della libertà e della gratuità), ma crea non pochi problemi allo studio scientifico delle opere letterarie. Con questa mole di materiale disponibile, scaricabile e condivisibile online, è praticamente impossibile agire per ottimizzarne la qualità: molto meglio agire su progetti che sviluppino la consapevolezza degli utenti, ad esempio spingendoli a verifiche almeno parziali sulla fonte cartacea quando devono citare un passo.

Può darci ulteriori informazioni sui progetti su cui sta lavorando?

Per i suoi fini statutari, alla bolognese Commissione per i Testi di Lingua – fondata nel 1860 col nobile «fine di reperire e diffondere, con la pubblicazione, le opere degli scrittori italiani del Trecento e del Quattrocento» – spetta un ruolo di primo piano nel promuovere tale consapevolezza nell’accesso ai Classici italiani in formato digitale. Ebbene, un paio di anni fa, in seno alla Commissione è sorto un progetto di Osservatorio Permanente sulle pratiche EDitoriali scientifiche e sull’autorevolezza dell’edizione di testi letterari ITaliani nel contesto digitale (OPEdIt). Sarà un consorzio di università italiane e straniere a costituire lo spazio operativo dell’Osservatorio, per svolgere verifiche sui testi reperibili in rete di opere dei primi secoli della Letteratura italiana, verificarne l’affidabilità e promuoverne possibili revisioni. Con particolare riferimento a Dante, Petrarca e Boccaccio (ma con la prospettiva di coinvolgere i Classici italiani fino all’Ottocento), salvaguardare l’integrità e correttezza delle opere della Letteratura italiana dalle insidie della digitalizzazione e della diffusione on line, promuovendo verifiche a campione (ad esempio, mediante tesi di laurea) e/o gruppi di ricerca che valutino sia la fedeltà degli e-texts alle rispettive fonti cartacee, sia la generale validità – formale e sostanziale – del testo in essi contenuto.

Nel suo libro lei fa soprattutto riferimento ad opere medievali; ritiene che se fossero analizzati autori più recenti, come Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni o anche una poetessa molto nota nella Napoli dell’800, Maria Giuseppa Guacci, la resa dei testi sarebbe migliore?

Purtroppo, stiamo muovendo i primi passi, e si tratta di verifiche lunghe e difficili: pensa che della sola Vita Nuova (o Vita Nova, secondo l’edizione Gorni) esistono ben sette versioni digitali, fondate su fonti diverse e a loro volta replicate variamente! Il libro riflette uno stato di avanzamento di tali verifiche che non va oltre alcuni testi paradigmatici del nostro Due-Trecento. In ogni caso, è difficile supporre che le problematiche legate alla fonte cartacea, al processo di digitalizzazione e agli algoritmi di post-produzione siano molto diverse da quanto abbiamo rilevato a carico degli autori antichi. Paola Italia ha dedicato pagine molto importanti a descrivere la deprecabile situazione in cui versano gli e-book del maggiore romanzo della nostra letteratura: del capolavoro manzoniano non è ben rispecchiato neanche il titolo, variamente citato con o senza articolo, con o senza maiuscole (Paola Italia conclude: «Sei combinazioni per un solo titolo, che è invece, a norma di frontespizio delle due edizioni: I Promessi Sposi»). L’unico aspetto in cui le criticità possono essere inferiori è quello linguistico, dato che gli algoritmi di riconoscimento caratteri impiegano dizionari basati sull’uso attuale, e le forme arcaiche o regionali della lingua antica sono fonte di equivoci e banalizzazioni.

Cosa ne pensa di Biblioteca Italiana, progetto grazie al quale si sono digitalizzate numerose opere? Quali sono, a suo parere, le biblioteche digitali attualmente più valide per lo studio dei classici?

La Biblioteca italiana del consorzio CIBIT-Centro Interuniversitario per la Biblioteca Italiana Telematica, coordinato dall’Università di Roma “La Sapienza”, è un esempio virtuoso di come grandi progetti di digitalizzazione possano essere sostenuti in collaborazione con personale universitario, e di conseguenza sviluppati con la necessaria attenzione ai parametri qualitativi. Nato come biblioteca digitale, il sito si è recentemente ampliato in «un portale che raccoglie una serie di strumenti utili per l’approfondimento e la ricerca» (così dal sito), a conferma del nesso inscindibile che lega la produzione di risorse testuali di qualità elevata agli ambienti che sono professionalmente deputati alla didattica e alla ricerca su quelle opere. Nella sua “democratizzazione”, infatti, il mondo di internet ha rivoluzionato le pratiche di lettura dei Classici, ma soprattutto compromesso il necessario percorso di validazione delle relative conoscenze. Mi spiego: nell’editoria cartacea, parametri estrinseci quali l’estetica, la facilità di reperimento, il prezzo di copertina ecc. avevano il pregio di avviare il testo in un circuito di fruizione che consolidava una tacita gerarchia di valori. La costosa edizione critica era acquistata dalle biblioteche e dai dipartimenti accademici, l’edizione tascabile soddisfaceva una domanda di lettura generica, e fra queste due polarità si disponevano varie soluzioni intermedie che intercettavano altrettanto specifiche domande di lettura. Con testi digitalizzati che fluttuano sul web in precarie condizioni di accuratezza e privi di qualsivoglia inquadramento e annotazione (sui corredi esegetici le case editrici possono rivendicare diritti!), il contesto digitale rischia di scoraggiarne anziché incentivarne la lettura.

Ritiene che una maggiore interconnessione delle biblioteche digitali, non solo italiane, possa migliorarne la qualità e soprattutto la fruibilità per l’utente?

Ci sono stati decenni in cui si è assistito a una corsa fra iniziative parallele di digitalizzazione che gareggiavano per caricare sulle proprie piattaforme il maggior numero di testi, senza prestare molta attenzione alla relativa qualità e senza mettere gli utenti in grado di utilizzare simultaneamente tali basi dati. In informatica, questo è noto come effetto silos: si crea un insieme di dati fissi ai quali si può accedere solo dall’interno della risorsa, senza che esistano protocolli per farla dialogare con altre consimili. Se negli anni Novanta questo poteva essere già un buon risultato, a partire dal nuovo millennio un numero crescente di progetti si è dedicato a sviluppare l’interoperabilità delle iniziative, promuovendo il reciproco scambio di informazioni e dati. Secondo gli standard del Semantic Web, enunciati a partire dal 2003 ma ancora poco valorizzati in ambito umanistico, nuovi linguaggi di descrizione e annotazione delle risorse possono permettere agli utenti – attraverso specifici protocolli di interrogazione automatica – di svolgere ricerche trasversali su varie risorse, limitando il “rumore di sottofondo” che ben conosciamo dall’attuale sistema di ricerca per parole-chiave.

Concludendo la nostra chiacchierata, sono curiosa di sapere se oggi sta collaborando a dei progetti di digitalizzazione?

Sto collaborando a vari progetti digitali, ma a nessuno di digitalizzazione (una forma che, come ho detto, ha già vissuto il suo periodo di massimo impulso). Fra essi, mi è caro ricordare un progetto nuovissimo, Archivi Letterari Digitali Nativi (ALDiNa), nato a cura di Emmanuela Carbè e Tiziana Mancinelli per raccogliere informazioni dettagliate e garantire una documentazione e valorizzazione adeguata della documentazione digitale degli autori contemporanei (ossia loro abbozzi e varianti conservati, come avviene ormai da decenni, su floppy, CD-ROM, hard drive ecc.). Si tratta di un tema ancora poco affrontato nel panorama italiano, ma – a fronte della rapida obsolescenza di supporti e programmi, e della dispersione di materiale causata dal rapido progresso tecnologico – già urgente al fine di promuovere la consapevolezza del problema, buone pratiche di conservazione, accesso e lo studio di questo patrimonio. Non c’è infatti dubbio che, a parte alcuni progetti virtuosi ma isolati come il PADPavia Archivi Digitali, si avverte un grande vuoto nei protocolli di archiviazione e conservazione di questa particolare tipologia di dati e supporti. Se si tiene conto che, più o meno, si possono considerare born digital (si può assumere cioè che abbiano lavorato sempre su supporti digitali) autori che oggi viaggiano sulla cinquantina, appare chiaro che una gran parte di questo patrimonio è già andata perduta fra le tante discariche che nel mondo smaltiscono e riciclano i rifiuti digitali (e-waste).

anna.raimo@live.it

 

 

L'autore

Anna Raimo
Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.

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