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Vera Lúcia de Oliveira  intervista Giuseppe Conte

[questa intervista con il poeta Giuseppe Conte risale al 1998, ed è stata pubblicata nella “Revista da APIESP – Associação de Professores de Italiano do Estado de São Paulo”, Insieme, n.8, San Paolo, Brasile, 2001, pp.74-77]

Si sente nella sua poesia il fascino per altri popoli, altri mondi, un’ansia di uscire, di viaggiare, di avere esperienze a diretto contatto con la realtà mutevole del mondo. E c’è un’attenzione particolare per la tradizione religiosa, letteraria, culturale dell’Oriente, soprattutto quella del mondo islamico. Come nasce questa passione dalla quale si alimenta la sua opera?

La mia passione per altri popoli e altre civiltà antagonistiche rispetto a quella occidentale nasce nel cuore degli anni Settanta, mentre stavo scrivendo L’ultimo aprile bianco, e nascono dalla consapevolezza dell’inaridirsi delle fonti di ogni vitalità creativa nella nostra letteratura e dai primi segni della morte della natura, attaccata dall’uomo bianco, svuotata di ogni sacralità e di ogni energia divina.
All’inizio mi sono appassionato alle civiltà cosmiche e solari, come D.H. Lawrence, il mio maestro di allora, agli Etruschi magici e solari sconfitti dal pragmatismo militaristico dei Romani, agli Aztechi distrutti dagli Spagnoli, agli Indiani d’America cancellati in un genocidio dagli anglosassoni… Poi il mio sguardo si è rivolto alle radici celtiche della nostra Europa, anch’esse celate e cancellate, e all’Oriente mistico e pieno di Dio… Ho sempre avuto bisogno di movimento e di viaggi. La mia inquietudine, la mia disperazione trovano nella dimensione del viaggio una possibilità di lenirsi, di trasformarsi in slancio amoroso e vitale. Il mio viaggio in Oriente comincia dal Taoismo, poi prosegue con l’Induismo e infine approda alla mistica Sufi, che è turca, araba e persiana. Ho fatto viaggi che sono stati pellegrinaggi verso i maestri che ho scelto: sono stato nelle Montagne Rocciose alla tomba di Lawrence, sormontata da quella piccola bianca fenice, sono stato a Shiraz, alla tomba di Hafis, il più dolce tra i poeti mistici dell’Oriente.

Quali sono i poeti, gli scrittori, gli artisti che l’hanno maggiormente influenzata?

Shakespeare, Baudelaire, Eliot, D.H. Lawrence, Henry Miller nell’adolescenza; i canti dei primitivi, il giovane Montale, Sbarbaro, i romantici inglesi e tedeschi, soprattutto Shelley e Goethe, Foscolo, Whitman, Borges, che considero il maggior poeta della seconda metà del secolo. Pavese e Pasolini hanno avuto una influenza appena accennata. Dickens e Hugo per il romanzo. Tra i musicisti, Wagner e Scriabin.

La poesia per lei sembra essere miracolo, momento fugace di bellezza e di mistero. Allo stesso tempo ha affermato ne “Il segno della malattia”: “Così invece di prendere / vergini, navi, cavalli, terre, sanguini / sui fogli e contro il cielo” (Dialogo del poeta e del messaggero, Milano, Mondadori, 1992, p.92). Come si può conciliare questa contraddizione? Che mistero è mai la poesia che contiene in sé sia la gioia che il dolore?

La poesia contiene in sé l’oscillazione eterna tra gioia e dolore, tra piacere e sofferenza in cui si manifesta l’essenza stessa del nostro essere uomini e il mistero della nostra presenza tra gli altri esseri sul pianeta. Goethe se ne accorse quando si domandò in quel verso supremo: “Perché tutto questo dolore (Schmerz) e tutto questo piacere (Lust)”?

In una poesia lei ha affermato “L’Italia è la mia lingua madre”. Mentre assistiamo a un tentativo di recupero da parte di molti poeti dei dialetti – lingue locali, lingue regionali -, lei esprime invece un senso di appartenenza ad una comunità che viene identificata come la lingua madre. Fernando Pessoa, al contrario, ha affermato: “La mia patria è la lingua portoghese”. Questa difficoltà ad identificare l’italiano come lingua madre viene dal complesso e frastagliato panorama linguistico che ancora oggi caratterizza questo paese?

Quando ho scritto “l’Italia è la mia lingua madre” volevo in realtà esprimere la mia totale disaffezione al mio paese natale tranne che alla sua lingua: l’unica cosa che mi importa dell’Italia è la sua grande tradizione artistico-letteraria, l’unico legame vero che ho con lei è la lingua che parlo e in cui soprattutto scrivo, l’unica cosa di cui ho nostalgia quando passo lunghi periodi all’estero. La lingua è la madre, la lingua è il rapporto con una comunità, la tradizione poetica di quella lingua la mia casa, dove abito tra Dante e Petrarca, Tasso e Alfieri, Leopardi e Foscolo… Questo naturalmente non mi ha impedito di viaggiare in altre lingue e in altre tradizioni, amandole tutte, in una piena adesione al concetto goethiano di Welt-literatur.

Come vede la sua opera in rapporto alle esperienze precedenti, soprattutto i Novissimi, alla quale essa sembra porsi in posizione del tutto autonoma e persino antitetica?

Quando mi sono affacciato alla cultura contemporanea, studiando alla Statale di Milano negli anni Sessanta dopo gli anni torbidi e felici, astorici, pieni di sogni, trascorsi in un Liceo della provincia ligure, i Novissimi, il Gruppo 63, Sanguineti ed Eco dominavano la scena. Per un po’ li ho studiati e imitati. Ero allievo di Dorfles, e il mio aggiornamento sulle avanguardie internazionali è stato completo… Poi però mi sono ribellato alla cultura dell’avanguardia, a quel misto soffocante di marxismo e freudismo, di strutturalismo e neopositivismo logico: mi sembrava un nodo mortale, che spegneva ogni creatività poetica. La mia ribellione fu fare tabula rasa e tornare alle origini, al mito. Alla cultura del mito inteso come forma di conoscenza primordiale, da cui ripartire per rimettere in moto la macchina della creatività, del sogno, dell’utopia, della bellezza… Ho lavorato con un maestro come Luciano Anceschi, ho fatto parte della redazione della rivista “il verri”, quindi ho attraversato tutta l’avanguardia, e attraverso il ritorno a un mito reinterpretato ne ho rovesciato i principi, sotto l’influenza di pensatori come Hillman, Campbell, Eliade, Spengler, Junger… Così dai più mediocri esponenti dell’avanguardia stessa ho avuto attacchi e insulti, altri hanno creato intorno a me un clima di censura e di malevolenza…
Io però non ho mai aderito a una visione tradizionalistica della cultura e della letteratura, continuo ad essere con i miei libri, siano essi romanzi o raccolte di poesia, uno sperimentatore di forme e un innovatore, un ribelle, mentre gli ex avanguardisti sono diventati uomini di potere e nient’altro.

Come vede la poesia italiana oggi? Può tracciarne un panorama?

La poesia italiana di oggi manca di grandi progetti di poetica, è di buon livello medio, ma non ha elaborato una visione complessa e completa del linguaggio e del mondo, non sente abbastanza il soffio del tempo e delle nuove esigenze spirituali. Perciò si è avviata a un destino di ghettizzazione totale e di penosa ininfluenza sulla realtà. Per mio conto, da anni mi sono ribellato a questo stato di cose, sino alla creazione del Mitomodernismo. Ho sempre sentito vicino Milo De Angelis, e poeti con cui ho intrecciato il mio percorso pur nell’assoluta autonomia degli stili, e penso a Rosita Copioli, Tomaso Kemeny, Mario Baudino, Roberto Carifi, Roberto Mussapi, o ai “neoantichi” Valentino Zeichen, o Renzo Paris…
Tra i più giovani, mi sembra che prendano rilievo i poeti della nuova rivista Fare anima, Gabriella Galzio, Marco Marangoni, Danilo Bramati, Nicola Ponzio, Lamberto Garzia… ricondotti dal critico Giampiero Marano al Mitomodernismo stesso.

Si sente nella sua poesia la ricorrenza del mito, che sembra avvicinarsi alla stessa esperienza poetica e persino religiosa. Ma che importanza può avere il mito oggi? Si può recuperare, in una società in cui domina il principio egemonico della ragione, il rapporto autentico con la mitologia, quella esperienza che Károly Kerényi ha definito come una grande realtà del mondo spirituale?

Quando parlavo di ritorno al mito negli anni Sessanta ero solo, a volte sospettato e vilipeso. Oggi si è visto che il ritorno, la rilettura in chiave nuova del mito è un fenomeno mondiale. L’importanza del mito è quella di una ribellione all’esistente, al dominio della ragione economica, al materialismo nichilistico, per cercare nuovi assetti dell’immaginario e nuove forme stesse di vita sociale e di civiltà.

Che rapporto c’è tra la poesia e la storia?

Un poeta solitario, disperato, impotente canta il mistero del mondo, e nel suo canto il mondo ricomincia, e cadono gli Imperi e nascono nuove forme storiche del vivere associato. Quando Tamerlano il distruttore arrivò alle porte di Shiraz, ordinò che la città fosse risparmiata perché lì viveva Hafis, un poeta Sufi che per tutta la vita non aveva cantato che di rose, giardini, vino, amore…
La poesia, eternamente, ci protegge, senza fuggirne, dagli orrori della storia.

 

 

L'autore

Vera Lucia de Oliveira
Vera Lucia de Oliveira
Vera Lúcia de Oliveira è professore associato di Letterature Portoghese e Brasiliana all’Università degli Studi di Perugia. Ha diversi libri di poesia e saggi e ha partecipato ad antologie poetiche in vari paesi. Scrive in portoghese e in italiano e ha ricevuto prestigiosi premi letterari sia in Italia che in Brasile. Fra i saggi, citiamo Poesia, mito e história no modernismo brasileiro, São Paulo, Editora UNESP, 2015; Storie nella storia: Le parabole di Guimarães Rosa, Lecce, Pensa Multimedia, 2006; Narrativas brasileiras contemporâneas em foco (con Eunice P. Vial) Editora da Universidade Federal de Santa Maria, 2012. Ha tradotto e curato antologie poetiche di Lêdo Ivo, Carlos Nejar e Nuno Júdice. sito: http://www.veraluciadeoliveira.it