avvenimenti · In primo piano

Delitti impossibili: le “signore in giallo” all’avanguardia della crime fiction

Fin dalle sue origini, la detective story sfida il lettore a decifrare l’enigma (assassino, movente, arma o modi del delitto) attraverso gl’indizi disseminati sulla scena del crimine. Naturale che il mistero sia più intrigante quando il crimine è avvenuto in uno spazio chiuso, in cui si fa fatica a capire come l’assassino sia entrato e – ancor più – come ne sia uscito. Si tratta del locked-room murder, che rappresenta la quintessenza del romanzo d’investigazione fin dalle origini, fin cioè dal classico The Murders in the Rue Morgue di Edgar Allan Poe (1841). In quest’ultimo racconto, il detective Auguste Dupin si trova a risolvere un duplice, brutale omicidio avvenuto in un’abitazione chiusa dall’interno. Del resto, le varianti del locked room murder arrivano ai best sellers dei giorni nostri: nel fortunatissimo Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson (2005) l’ambiente chiuso è dato da una piccola isola svedese che, collegata alla terraferma da un ponte ben visibile, definisce fin dall’inizio il ristretto novero degl’indiziati.
Se l’angusto spazio dell’appartamento limita fortemente le ipotesi che è possibile formulare, ancora più affascinante risulta la declinazione “in movimento” di questa categoria: un delitto consumato su un mezzo in corsa, affollato di passeggeri, conserva l’enigma del locked-room murder ma contempla un numero ben maggiore di sospettati. Viene da pensare alla trama di Assassinio sull’Orient Express, il notissimo capolavoro di Agatha Christie: in corsa o bloccato nella neve jugoslava, il vagone dove viene ucciso Ratchett è un sistema chiuso dove ogni occupante è un indiziato.

Oggetto di versioni cinematografiche con cast scintillanti (Lauren Bacall, Sean Connery, Ingrid Bergman e Vanessa Redgrave nel film del 1974, diretto da Sydney Lumet; Johnny Depp, Penélope Cruz, Willem Defoe e Judi Dench in quella recentissima del 2017, opera di Kenneth Branagh), il famoso romanzo della Christie venne pubblicato a puntate durante il 1933 (in volume dall’anno successivo), ma davvero Assassinio sull’Orient Express inaugura questa tipologia?
Il medesimo schema di delitto su un mezzo in corsa viene messo in atto un quarto di secolo prima in un romanzo italiano. Nel centro di Napoli, un marinaio nota un’avvenente ragazza nella calca della seconda classe di un tram e non vede l’ora di attaccare discorso con lei. D’improvviso, tuttavia, la vede accasciarsi improvvisamente, una macchia di sangue che le si allarga sul vestito… È l’inizio di un romanzo dimenticato: Il delitto di via Chiatamone della grande Matilde Serao, vulcanica scrittrice e giornalista fondatrice – col marito Edoardo Scarfoglio – del Mattino di Napoli e di altre famose testate nazionali. La Serao firmò questo audace romanzo (con lo pseudonimo, non a caso maschile, di Francesco Sangiorgio) nel 1907, un quarto di secolo prima del famoso giallo di Agata Christie.
Per questa e per altre ragioni, viene da pensare che in questa particolare storia letteraria, all’Italia non sia mai stato dato il posto che meriterebbe per la qualità e quantità dei suoi “giallisti”. Un libro di Andrea De Luca, recentemente uscito da Marsilio, ricompone il mosaico dei “primati” italiani in questa particolare vicenda letteraria, che come poche altre può dirsi realmente “popolare”.
Infatti, se c’è un genere il cui successo non ha mai conosciuto flessioni, questo è il giallo: diffuso in ogni fascia di lettori, unisce orde di appassionati attraverso molteplici media di comunicazione (cinema, TV, letteratura): tutti sanno che, attraverso fortunate serie TV, i romanzi di Andrea Camilleri o Marco Malvaldi si sono fatti strada nell’immaginario popolare. Eppure, nelle classifiche di vendita i grandi autori stranieri – da Dan Brown a Stephen King, da John Grisham a Patricia Cornwell – continuano ad occupare i primi posti nelle classifiche di vendita in Italia.

Già, la Cornwell… il successo dei suoi romanzi si deve anche alla particolare figura del detective: una donna non poliziotta né “professionalmente” dedita alle investigazioni.  Protagonista di oltre venti romanzi – tradotti in Italia da Mondadori – a partire da Post mortem (1990), Kay Scarpetta è un medico legale capace di “leggere” la scena di un crimine a partire dai più minuti dettagli.
Ancora il saggio di De Luca ci mostra come in Italia il personaggio dell’investigatore donna debutti addirittura nel 1909, con la protagonista del romanzo Nina la poliziotta dilettante della prolifica Carolina Invernizio, autrice di un’ampia gamma di memorabili figure femminili di fascino misterioso o esotico: seduttrici, ammaliatrici e avventuriere. Ma qui interessa l’ingresso in scena di una investigatrice donna, ancora una volta non professionale e di umili origini. Sconvolta dall’assassinio del fidanzato, il nobile Carlo Sveglia, Nina Palma decide di svolgere le indagini in prima persona alla ricerca del colpevole. Emerge dunque un’altra costante dei gialli più popolari, la soluzione scaturisce da un’indagine solitaria, privata e “dilettantesca”, in contrapposizione più o meno aperta con le indagini ufficiali condotte dalle forze dell’ordine (De Luca, p. 128).

Carolina Invernizio (1851-1916)
Carolina Invernizio (1851-1916)

Ma torniamo a Kay Scarpetta: la figura del medico legale ci porta alla componente investigativa più amata e frequentata – fra libri, cinema e TV – dal pubblico odierno: le analisi della scena del crimine, i rilevamenti scientifici, le discipline forensi. Il successo di questa componente non dipende dai grandi progressi compiuti di recente dalle investigazioni in questo campo: si tratta di una parte integrante del DNA del genere fin dall’Ottocento: nel primo romanzo di Arthur Conan Doyle (A Study in Scarlet, 1887), la morte avviene per avvelenamento e Holmes fa mostra di non comuni conoscenze di chimica e tossicologia. Del resto, il primo incontro con il fido assistente Watson, un ex medico che poi diviene suo coinquilino, avviene in un dipartimento universitario durante uno studio al microscopio sull’emoglobina.

La scienza è il contesto più idoneo all’investigazione: la lente di ingrandimento diviene il simbolo dell’investigazione e le discipline forensi conquistano la ribalta del genere poliziesco. Non a caso, un recente libro è stato dedicato all’importanza dell’autopsia e delle scienze forensi per la fortunata saga di Conan Doyle: The Science of Sherlock Holmes di E.J. Wagner (2006) mette in evidenza le poliedriche conoscenze scientifiche del detective di Baker street, cui le moderne serie TV attribuiscono anche l’uso della palinologia (disciplina botanica che studia il polline e le spore) per accertare la provenienza di un paio di scarpe (The Great Game, 2010).
Ma, ancora una volta, l’Italia non stava a guardare. Agli inizi della carriera letteraria di Conan Doyle, il potenziale letterario dell’autopsia e necroscopia vantava trentacinque anni di vita: a metà Ottocento, era stato il grande scrittore partenopeo Francesco Mastriani a sviscerarne la macabra fascinazione ne Il mio cadavere (1852), in cui – in un pirotecnico intreccio – l’assassino Daniele è costretto a vegliare per nove mesi il cadavere imbalsamato di un baronetto (che scopre essere suo padre!) per riceverne la ricca eredità. Nel romanzo di Mastriani si respira un clima già pienamente positivistico, con una fede incrollabile nel progresso della scienza: «allora soltanto la civiltà avrà raggiunto l’apice della perfezione, quando la scienza avrà scoperto il modo di rendere l’uomo più valido contro i perpetui assalti della morte, e più comune la vita centenaria». Fra i meriti del libro di De Luca, c’è quello di approfondire, sulla base della documentazione d’epoca, il lungo rapporto che lega Conan Doyle a Napoli, la sua fascinazione per lo spiritismo, la partecipazione alle sedute con la celebre medium Eusapia Palladino e – last but not least – la sua più che probabile frequentazione di Mastriani (il cui figlio tradusse i suoi primi libri). D’altra parte, la scelta di Doyle è giustamente collocata nel contesto della particolare fortuna dello spiritismo in quell’epoca: nel lungo elenco di famosi scrittori e intellettuali che vi si convertirono ci sono Lewis Carroll, Henry James, Robert L. Stevenson, il filosofo Henry Bergson e persino gli scienziati Pierre e Marie Curie (p. 79).
Ancora a Mastriani – attraverso il fortunato tema ottocentesco della morte apparente – risale quell’autentica ossessione per i veleni che caratterizza il giallo fra Otto e Novecento: l’intreccio de Il mio cadavere dipende in buona parte sugli effetti delle foglie di upas, pianta esotica (Antiaris toxicaria) da cui si estrae un veleno che non lascia traccia. Ma per tutti è Agatha Christie, grazie alle sue esperienze di infermiera e farmacista nella Grande Guerra, ad aver incentrato i suoi gialli sul potere misterioso e affascinante dei veleni: stricnina, cianuro di potassio, ma anche essenze naturali come veleno di serpenti o anche la digitale, che appare nel suo ultimo romanzo, Le porte di Damasco (titolo originale: The Postern of Fate, 1973).

Postern of fateIn Italia, insomma, la straordinaria fortuna “popolare” del giallo arriva molto prima del fatidico 1929 in cui Mondadori avvia la collana best-seller dei gialli, tanto diffusi da diventare sinonimo di qualsiasi romanzo poliziesco e investigativo. E forse proprio ai gialli Mondadori, tradizionalmente quasi sempre traduzioni di opere straniere, si deve l’avvio di questa “esterofilia” che ancora oggi caratterizza il pubblico italiano. Come si può immaginare, il regime fascista fece di tutto per arginare il successo della serie e, non riuscendovi, tentò almeno di inserire autori italiani nella collana, a partire da Il Settebello di Alessandro Varaldo (pubblicato nel 1931). Del resto, non era successo spesso che si affermasse un genere realmente “popolare”: come disse un esperto “giallista” come Emilio De Marchi, questi «romanzi hanno diffuso il gusto della lettura» (De Luca, p. 117).

michelangelo.zaccarello@unipi.it

 

 

L'autore

Michelangelo Zaccarello
Autore di saggi e volumi pubblicati in Italia e all’estero, Michelangelo Zaccarello è Professore ordinario di Filologia italiana presso l’Università di Pisa, dopo vari anni di docenza tra Dublino, Oxford e Verona. È autore di varie edizioni critiche e di un manuale di Filologia italiana (L’edizione critica del testo letterario, Milano, Mondadori, 2017). Scritti più recenti applicano la medesima prospettiva teorica e metodologica all’avvento dell’autorialità collaborativa e della testualità digitale: Teoria e forme del testo digitale (Roma, Carocci, 2019) e Leggere senza libri. Conoscere gli e-book di letteratura italiana (Firenze, Cesati, 2020).