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A cosa serve la Letteratura? Teresa Agovino dialoga con Davide De Rei

Davide De Rei si laurea nel 2011 in Lettere Moderne con una Tesi su Pasolini. Insegna nella Scuola Secondaria e collabora come articolista per alcune riviste. Nel 2015 pubblica il libro Benedetta maledizione, dedicato al rapporto letterario tra Pasolini e Dante. Ha curato il blog di scrittura creativa Dionèo, divenuto attività laboratoriale permanente. È autore di due romanzi: Potrebbe andare peggio e  A piedi nudi sul vetro.

Volevo fare la guardia svizzera è uscito il 10 dicembre 2020. È  una raccolta di saggi fanta-biografici e iper-letterari, apparentemente indipendenti ma legati da un unico filo conduttore: cercare di rispondere alle domande: Come mai le facoltà di Lettere si reggono ancora in piedi e raccolgono testardamente iscritti? A cosa serve la Letteratura? In fondo, siamo davvero sicuri che serva a qualcosa?

Caro Davide, partiamo dall’inizio. Volevo fare la guardia svizzera: perché questo titolo?

L’origine è un’ esclamazione che credo appartenga tutta al nostro eloquio, cioè quel «Volevo fare …» oppure «Volevo essere …» che lanciamo in aria una volta divenuti adulti. Di solito la pronunciamo amaramente per il rimpianto di un futuro che non ha saputo evidentemente mantenere le nostre aspettative ma, secondo me, altro non è che pura esclamazione liberatoria, come del resto ce ne sono tante nel nostro Italiano. Nel caso specifico si tratta di un’ esclamazione che mi appartiene, direi, didatticamente: i miei alunni sanno che quando mi ritrovo (a causa loro) a maledire il mio lavoro –  scherzosamente (?!) – mi lascio andare a questo tipo di esternazioni. Tra le alternative possibili ho scelto proprio questa perché, sin da piccolo, il mondo delle Guardie svizzere ha sempre destato in me curiosità e, conseguentemente, domande del tipo «Ma come lo si diventa? Si partecipa ad un corso? C’è un bando?», «Può esistere una Guardia Svizzera beneventana?», «Ce l’hanno la licenza di uccidere?», e così via.

Volevo fare la guardia svizzera è un libro amaramente ironico, di quelli che, alla fine, lasciano il lettore un po’ spiazzato. In apertura tu affermi che «L’ubriacatura del post-laurea umanistico è ubriacatura vera, in tutto e per tutto», che nel tempo sei diventato un esperto nel «compatire i più giovani […] che volevano intraprendere» gli studi di Lettere affermando anche: «volevo un Master in Dissoluzione di Propositi e Velleità Letterarie». Tutto questo perché:  «Sarà bene stabilirlo fin da subito e senza mezzi termini: la Letteratura non serve a niente». Eppure, le pagine che seguono sembrano dimostrare esattamente il contrario. Insomma, la letteratura serve ancora a qualcosa?

Credo sia necessario premettere che il mio personale modo di scrivere fa spesso uso del linguaggio iperbolico, dell’esagerazione in funzione ironica o dissacrante. Questo credo avvenga per una mia (de)formazione che ha le prime radici, tra le altre, nel gusto un po’ surreale di Totò e nella satira, quale meccanismo perfetto per ribadire un concetto pur affermandone l’opposto. Per il resto, io una mia personale risposta a questa domanda ho provato ad intrecciarla tra le pagine del libro cambiando però, necessariamente, la prospettiva: se pretendiamo di avvicinarci alla Letteratura con le categorizzazioni mercantili dell’utile, del profitto, del vantaggio, è chiaro che un senso non lo abbia. La questione è più complessa e non lo intendo affatto con sentimentalismo: la Letteratura può influenzare, potenzialmente, una vita ed è quindi chiaro che in gioco possono entrare varianti più intricate. 

Personalmente, ho trovato confortanti le pagine dedicate a Machiavelli che, chiuso nell’angoscia dei giorni sempre uguali – e indubitabilmente noiosi – dell’esilio, pur schiacciato da un umore che «non deve essere proprio dei migliori» attende alla stesura del Principe, opuscolo che «lo consacrerà nella memoria a venire come un monumento di bronzo». Insomma, un autore che ha ancora molto da dare e da dire agli studenti, perché: «Ragazzi, voi Nicolò Machiavelli non lo dovete immaginare come un […] ciapairatt’!». Cosa può insegnare oggi la lettura di Machiavelli agli adolescenti?

Niccolò Machiavelli è uno degli autori che amo affrontare maggiormente con i ragazzi perché è il classico esempio di Letteratura che «non dovrebbe ammettere polvere»: è, innanzitutto, testimonianza di una realtà descritta dalla Letteratura, della concretezza che troppo spesso mettiamo da parte a vantaggio di un mondo umanistico sempre etereo, inconsistente; la sua esperienza personale, inoltre, può dire ai ragazzi che, nonostante più di qualcuno oggi si impegni a dimostrare il contrario, il tempo speso per lo studio sa restituire e moltiplicare il bene. Il problema è che in un tempo completamente “in diretta” come il nostro, stiamo perdendo la prospettiva della profondità. I ragazzi in aula, infatti, spesso restano meravigliati del fatto che Machiavelli il suo Principe lo realizza nel momento probabilmente più buio della sua vita, quando tutto si aspetterebbe tranne che poter contare ancora qualcosa. Ed invece il suo abbandonarsi fiducioso nelle Lettere, come in un rifugio, sarà prerogativa per scolpire inaspettatamente il suo monumentum aere perennius.

Se Machiavelli può salvare gli studenti annoiati, sconfortati e atterriti, è Dino Buzzati che, insieme a Charlie Chaplin, salva la vita – e l’umore – all’enorme massa dei «senza patria», ovvero i docenti precari. Laddove da un lato, quindi, il tuo libro illustra l’Effetto Chaplin come la capacità di riuscire «nonostante i pochi e sproporzionati mezzi […] a raggiungere l’obiettivo», dall’altro vi troviamo un Giovanni Drogo, descritto come un «precario ante-litteram». Come si conciliano queste due figure con il panorama attuale della scuola e dei docenti?

Si tratta di due approcci, chiaramente, molto diversi tra loro ma che sono chiamati a vivere nello stesso, fragilissimo, mondo che è quello scolastico. Drogo è l’emblema della condizione precaria, di quella attesa invischiata nella nebbia che non riesce a far vedere nemmeno al di là del proprio naso e quindi figuriamoci qualche immagine possibile del futuro. L’unica forza che riesce ad animare Giovanni Drogo – ed ogni insegnante precario – è esclusivamente la forza della propria libera scelta. Ed è con molta probabilità questa che oggi può fare la differenza tra un bravo docente ed un altro che non lo è. Chaplin rappresenta, invece, l’approccio del gioco, pur nella poca disponibilità dei mezzi, nella convinzione che per quanto possiamo sforzarci di progettare, è dentro quell’aula, in quel preciso momento, con quei ragazzi e quelle ragazze che bisogna provare a insegnare, inteso etimologicamente come “lasciare il segno”. Sono quindi indispensabili entrambi, altrimenti sarebbe impossibile cercare di fare al meglio uno stranissimo lavoro nel quale può capitare la mattina di essere trattato come inutile zavorra da un ministro e ricevere la sera il messaggio di uno studente o di una studentessa che ringraziano per la lezione in classe. Si rischia di impazzire.

La fanta-biografia al centro del tuo libro permette addirittura, al capitolo quarto, di bere un rum insieme con l’innominato. Il giovane protagonista, pur cercando di millantare goffamente una certa sicurezza, rischia costantemente di «fare la figura dello stronzo» di fronte ad un uomo tanto straordinario, mentre in sottofondo scorrono le note di Alle prese con una verde milonga. Sarà proprio l’Innominato, in chiusura, a insegnarci qualcosa sulla letteratura e cioè che essa: «deve essere identità, sia nelle sconfinante pianure del bene che nelle strette feritoie del male». Ha ancora senso, oggi, insegnare Manzoni nella scuole? E perché scegliere, per un rum, tra tanti personaggi dei Promessi sposi, proprio l’Innominato?

Credo che Manzoni il suo senso non corra il rischio di perderlo poiché, al di là delle sue intenzioni e dei suoi obiettivi, con I promessi sposi è riuscito a racchiudere, in una sorta quasi di bestiario, personaggi e comportamenti del tutto universali, che vanno ben oltre la vicenda che scrive. Il suo racconto è talmente duttile che andrebbe “solo” contestualizzato nella forma più opportuna. Oggi, ad esempio, siamo indiscutibilmente più abituati a fruire dei contenuti seriali, pertanto proprio in questi giorni con alcuni dei ragazzi stiamo provando a leggere il testo come fosse la sceneggiatura di una serie tv, seguendo la videocamera nelle descrizioni e negli sviluppi della vicenda. Ovviamente, l’utilizzo di uno strumento del genere presuppone anche inquadrature in soggettiva e quelle, ad esempio, sono i momenti nei quali uno di loro diventa don Abbondio, diventa Lucia e così via. Tra tutti i personaggi, la mia scelta è caduta proprio sull’Innominato intanto perché egli resta, a mio modesto parere, un gioiello dal punto di vista narratologico; d’altra parte, se ancora alunni e alunne nel 2021 continuano a subirne il fascino qualcosa vorrà pur dire. In secondo luogo perché, dopo diversi anni scolastici durante i quali ho odiato fermamente I promessi sposi, è stato quando mi è venuta voglia di leggere il libro in maniera del tutto libera che ho imparato ad apprezzarlo davvero. 

Nel capitolo dedicato a Giacomo Leopardi affermi che: «raccontare il poeta recanatese rappresenta da sempre una sfida prima con sé stessi e solo in un secondo momento verso chi si ha di fronte» ma allo stesso tempo che: «sarebbe opportuno raccontarlo quando fuori splende un po’ di sole» superando l’atavico e impreciso pregiudizio scolastico che lo vede come un inguaribile pessimista. È possibile sradicare questa convinzione negli studenti di oggi?

Come cerco di raccontare nel libro, questa è una delle scommesse di cui sento maggiormente il peso. Si tratta di scardinare strati di convinzioni accumulatisi lungo il tempo e c’è da dire che, spesso, le stesse mura del mondo scolastico hanno contribuito ad alimentare un’ immagine che personalmente non condivido affatto del poeta. Certo, bisogna andarci cauti: si tratta indiscutibilmente di un gigante e questo può voler dire che abbiamo la metà delle possibilità di salire su di lui per guardare più lontano e l’altra metà di rimanere schiacciati dal suo peso. Personalmente cerco di attuare con i ragazzi una prima fase di debbio, una sorta di fertilizzazione del terreno che consiste nell’incendio dei residui colturali che sono i loro pregiudizi. Da lì proviamo poi ad infilarci nei suoi testi, tra le parole che spesso vanno aperte come casseforti per poterne cogliere il senso. Non è un lavoro facile ma è solo così che si possono trovare i tesori sepolti.

Un’ultima domanda. Leggendo il tuo libro si avverte costantemente la sensazione di avere a che fare con uno scrittore che, nella lingua, nello stile e nell’approccio alla letteratura, molto ha assimilato dalla lettura di Svevo e del secondo Calvino, quello degli anni Sessanta, per intenderci. Che rapporto hai con questi due autori?

Loro due sono, insieme a Pier Paolo Pasolini, le fondamenta del mio personalissimo Novecento letterario italiano, di cui dovremmo esser fieri oggi ancora di più. Italo Calvino è riuscito nella difficile, se non impossibile, impresa di abbattere il muro tra realtà e fantasia con idee profonde e leggere che restano un punto insuperato. Da Calvino ho personalmente assorbito una Letteratura che è anche Resistenza, termine da lui vissuto fino in fondo: un metodo per resistere e capace di rendere anche noi, come di riflesso, materiali resistenti. Italo Svevo è, invece, l’autore del romanzo capace di racchiudere tra le sue pagine tutto il “secolo breve”: La coscienza di Zeno continua ad essere per me una macchina di racconto tecnicamente perfetta, sia dal punto di vista narrativo che stilistico, dalla prima all’ultima pagina. Se mi chiedessero quale libro mi sarebbe piaciuto scrivere non avrei dubbi: è forse il limite al quale cerco di tendere. Sono consapevole che la strada sia tutta in salita e molto probabilmente senza via d’uscita, ma Rostand nel suo Cyrano ci ha insegnato che «più bello è battersi quando è invano». E mi piace pensare che sia davvero così.

L'autore

Teresa Agovino
Teresa Agovino è dottore di ricerca in Letterature Romanze presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". È cultore della materia in Letteratura Italiana Contemporanea. È professore straordinario a t. d. di Linguistica Generale presso l'Universitas Mercatorum di Roma, e docente a contratto di Lingua e linguistica italiana presso la Scuola Superiore Internazionale di Mediazione Linguistica (SSML) di Benevento; di Linguistica Italiana e Generale presso UniPegaso. Ha pubblicato due volumi: Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, 2020) ; Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento (Sinestesie, 2017). Si occupa di ricerca in Letteratura italiana del Novecento e Duemila. In particolare studia i riferimenti manzoniani contenuti all'interno della prosa contemporanea sino agli anni Duemila (principalmente in Camilleri e De Cataldo) e l'opera di Primo Levi. Di prossima pubblicazione anche la traduzione italiana del romanzo Bones in London di E. Wallace (1921).