Adriano Prosperi, classe 1939, professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e membro dei Lincei, reclutato nella più importante accademia italiana già da giovane, è noto che ha una scia quasi interminabile di titoli di cui in questa sede si ricorderanno solo alcuni fra gli ultimi, sperando di poter presto rimandare alla sua bibliografia, non compresa nei tre volumi degli atti in suo onore per la giubilazione.
Fra i suoi titoli più recenti, ricordo il libro su Lutero, a corollario di una ampia parte dei suoi studi dedicati alla Riforma e Controriforma; La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (2016), volume nel quale ha indagato come avveniva l’entrata nell’Ordine, ricorrendo agli archivi della Società, ai Monumenta a essa dedicati, e a molte autobiografie degli stessi gesuiti. Qui, come in gran parte della sua produzione, si coglie la freschezza del periodare e la capacità di rendere comprensibili passaggi non sempre facili da sbrogliare. La vena di scrittore, capace di attrarre lettori non solo specialisti, si è esercitata in Prosperi finanche nel ruolo di pubblicista. Ha collaborato, infatti, con diverse testate e collabora ancora con “la Repubblica”.
Nato a Lazzeretto, in provincia di Firenze, nome del luogo natio che evoca suoi studi, Prosperi ha insegnato presso l’Università della Calabria, l’Università di Bologna e la Statale di Pisa, prima di essere chiamato alla Scuola Normale. Allievo di Delio Cantimori, è sempre stato fedele al suo maestro che ha difeso in importanti assise, fedeltà che Prosperi riserva anche agli amici e alla famiglia. L’amicizia con Carlo Ginzburg, suo coetaneo e compagno di università, è dura come il diamante, come lo è con la moglie Anna Corsi, anche sua collaboratrice, con le loro tre figlie e la nipote, e la prossima new entry.
“Vola. Vola. Vola”, così nella metafora del cappello che va lasciato libero di perdersi nell’aere, Prosperi ha rivitalizzato il sogno della fine in un’intervista concessa a “la Repubblica” nel 2015. Mi piace notare che il suo pensiero si coniuga con quello di Arturo Martini e Giovanni Pascoli, che intesero, l’uno, la morte della scultura, l’altro, quella della lingua latina, allo stesso modo di come Prosperi ha inteso la storia, facendo cioè rinascere sia l’una sia l’altra. Così, infatti, Prosperi nel disegnare il volo leggero verso il tramonto dello storico e dell’uomo stesso, ritorna a dare vita proprio all’uomo e alla Storia stessa.
Non credo ci sia bisogno di molte altre parole per presentare Adriano Prosperi, non solo grande storico ma impetuoso interprete della realtà che ci circonda. Noto è il serrato dibattito storiografico scaturito da suoi libri soprattutto da quelli sulla Controriforma, e note sono anche le sue prese di posizione in favore di istituzioni, come la Biblioteca universitaria di Pisa, di cui ha sempre invocato che potesse rimanere nella sede storica, vicina a tutto il mondo degli studi, in particolare all’Università statale.
Fra gli ultimi suoi libri, ve ne sono due che soprattutto pongono quesiti di assoluta attualità. Sia Identità (2016), sia il recentissimo Un tempo senza storia: la distruzione del passato (2021), già molto recensito, riflettono uno sguardo volto al passato ma che mira alla proiezione nel futuro.
La Storia ha un potere fortissimo che forse oggi è sottovalutato e poco considerato; questo Prosperi lo dice molto chiaramente, tanto da mettere in discussione persino il suo mestiere, riservandosi soltanto il compito di far sì che lo sguardo sul presente sia più approfondito. Che l’attualità del passato sia un valore che Prosperi comunica in tutti i modi e del quale si nutre con lo sguardo privilegiato sulla realtà, è e sarà l’eredità che il Maestro lascia ai giovani, perché non gli accadrà di essere incluso nella damnatio memoriae che sembra sovrastarci.
La prima domanda parte proprio dalla fine della mia breve presentazione. Come pensi che si possa investire perché i giovani sappiano leggere e per riuscire a farli entrare nelle dinamiche della storia? Come potrebbe la scuola attrarli al proprio ieri?
Io penso che i giovani debbano avere nella scuola dei professori freschi di studi e vicini alla loro generazione per far loro gustare la bellezza della cultura. Nella realtà questo accade di rado sia perché il sistema dei concorsi è saltato in aria sostituito dai concorsi riservati intasati da folle di precari sia perché all’impoverimento culturale dei docenti si è sommato l’impoverimento materiale: non ci sono soldi per comprare libri, non ci sono possibilità di anni sabbatici in centri di studio per aggiornarsi. Tutto questo un tempo c’era, ora non c’è più. Da loro il nostro apparato statale e soprattutto quello produttivo chiede di abituare i giovani non a sviluppare creatività intellettuale per diventare cittadini consapevoli e maturi ma ad appropriarsi di abilità esecutive per entrare nel sistema industriale o dei servizi. Il tutto condito con la ciliegina dell’impostazione data a scuola e programmi da una dominante cultura pedagogistica per la quale l’importante non è sapere ma sapere insegnare. Per non parlare inoltre dell’obbrobrio creato da un centro di potere ben retribuito che si chiama ANVUR e che ha massacrato la scuola dalla parte più alta, l’università.
Sempre a proposito della storia, Gina Fasoli, medievalista di spicco, ricordo molto bene, insegnava che ai giovani era necessario far capire il concetto di generazione per metterli in condizione di inquadrare il passato e, di generazione in generazione, di pervenire a età sempre più remote. Consideri ancora valido questo insegnamento?
Penso che i giovani siano ben consapevoli dell’essere una generazione diversa da quella degli insegnanti e che il problema sia semplicemente per i docenti essere in grado di intercettarne e stimolarne le domande imparando a rendere vivo il corpo morto dell’insegnamento puramente manualistico. Ma per quello bisognerebbe che la Scuola fosse abitata da libri, punti d’incontro, discussioni, esperimenti, in un clima di libertà e collaborazione, non di arcigni e sospettosi guardiani pronti a ricorrere al voto o alla “nota”.
In un’epoca in cui parlare di identità, come hai evocato con il tuo libro, spesso purtroppo equivale a ergere muri, a separare, a fare distinzioni di valore, pensi che si possa invece recuperare il concetto di identità in una sua dimensione nobile?
Temo che la parola non possa uscire al di fuori dell’unico uso lecito senza diventare distorcente e nociva: l’uso suo unico è quello di carta d’identità.
La pandemia, che sembra non avere fine, ci ha costretto entro le mura delle nostre case per tempi mai prima sperimentati, nei quali abbiamo dovuto impratichirci nell’uso della rete. Come giudichi l’insegnamento a distanza per l’Università e come preferiresti che avvenisse, usando tali tecnologie? Non sono forse eccessive le proposte non solo di lezioni in rete?
Temo che la didattica a distanza sia solo un necessario rimedio obbligato dalle circostanze. Non parlo dell’aspetto della mancanza di legame con gli altri – i compagni, l’uscita dalla famiglie, tutte cose che tanti hanno fatto presenti. Io la trovo dannosa proprio per l’insegnamento che ho sperimentato essere faticosissimo ogni volta che mi sono trovato a praticarlo in questi mesi. Quello che succede è che l’insegnamento si trasforma in una predica lontana. Manca la possibilità di lavorare insieme su testi che invece oggi sono scomparsi del tutto insieme alle biblioteche – senza che si possa capire perché, dato che le librerie sono rimaste sempre aperte.
Se già per Cicerone “la storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, annunciatrice dei tempi antichi”, tuttavia, sempre più di frequente, capita di pensare che vengano commessi ancora (e in continuità) gli stessi errori. È vero quindi, per dirla con Gramsci, che “la storia insegna ma non ha scolari”? Da profana viene da chiedermi: ma perché la storia non insegna?
La storia è un maestro muto, bisogna porle delle domande. Solo così si può imparare, più o meno come accade coi veri maestri. Grandi maestri sono quelli che sanno tirare fuori le domande dalle menti come si tirano fuori esseri viventi che abitano già nel corpo materno secondo l’arte antica che fu definita non per caso col termine socratico di maieutica. L’unico insegnante da cui io abbia imparato ad appassionarmi alla storia è stato un professore di filosofia che al Classico di Empoli (Firenze) ci ha tenuto per un anno a leggere i frammenti dei presocratici. Indimenticabile, anche se l’assurdità della roulette di trasferimenti e supplenze ce lo portò via dopo un solo anno. Mi rimase per sempre in mente la sua figura e il suo nome – si chiamava Carlo Gelli.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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