scrivere nelle varie lingue d'Italia

Leggere, Tradurre, Divorare. Fabio Pedone intervista Luigi Giuliani

Shakespeare's Sonnets, Thomas Thorpe, London, 1609
Shakespeare’s Sonnets, Thomas Thorpe, London, 1609

La storia del fare poesia si incarna nella trasmissione secolare e mutevole di poetiche, retoriche e convenzioni espressive ma si rivela anche in atti obliqui, sorprendenti, in scarti creativi che intervengono a smuovere certe fermissime posizioni mentali, rimescolando le acque stagnanti di un canone o di una tradizione irrigidita. Un piccolo evento (nel mondo della traduzione e non solo) è la recente e inopinata apparizione de Li sonetti de Shakespeare, ovvero i 154 Sonnets shakespeariani vòlti in romanesco dall’ispanista Luigi Giuliani e pubblicati, con testo inglese a fronte, da 101 edizioni.
Abissalmente lontano dal presentarci una cartolina rassicurante, riduttiva o gigionesca dello scrivere in dialetto, questo esperimento di traduzione in romanesco – come vedremo – dimostra in pari misura audacia, sfumature complesse nella riflessione sul mestiere elusivo (o arte) del tradurre, nonché raffinata coscienza letteraria. Dalle innumerevoli curiosità che naturalmente suscita un lavoro di tal genere sono nate le dieci domande che ho posto al traduttore Luigi Giuliani.

Oggi l’italiano comune, appiattito sul discorso della comunicazione e dissipato nel circo dei social, può apparire ad alcuni una lingua scadente e spenta, mentre i dialetti sembrano conservare caratteri ancora non completamente omologati: ruvidezza, calore, presa su una realtà immediata, insomma le energie di un idioma naturale che pesca dal basso; ma può anche succedere l’inverso: il dialetto in sé e per sé può sembrarci un’Arcadia lontana, l’italiano una inattesa e sorprendente lingua incompiuta, aperta alle contaminazioni. Zanzotto dice che nel dialetto c’è “una goccia del latte di Eva” (“un s’cip del lat de la Eva”), mentre Belli, nel sonetto Le lingue der monno, ha scritto: Ma nun c’è lingua come la romana / pe dì una cosa co tanto divario, / che pare un magazzino de dogana. Mi chiedo se per lei oggi il dialetto è una lingua della memoria o è anche un veicolo di comunicazione attuale, di voce presente e viva. E allora la prima domanda è forse la più naturale, certo la più banale: perché tradurre in dialetto romanesco lo Shakespeare poeta dei Sonnets

Cominciamo col dire che una traduzione in dialetto non ha come scopo principale quello di facilitare al lettore la comprensione di un testo originale di cui ignora la lingua. Certo, ci si può anche avvicinare per la prima volta ai Sonnets attraverso la mia versione romanesca, ma è di per sé poco concepibile – o quantomeno poco usuale – una traduzione meramente “di servizio” che non sia in italiano. Al contrario, chi traduce in dialetto si avvia necessariamente – e forse in misura maggiore rispetto al traduttore in lingua – verso la sperimentazione, verso una particolare ricerca espressiva. E questo principalmente per due motivi. Anzitutto perché il dialetto – in quanto lingua in stato di diglossia – è vissuto dai parlanti non tanto come “lingua della realtà”, ma come “lingua della verità”. Tradurre in romanesco Shakespeare equivale per me a svelare l’essenza delle cose, a mettere in rilievo la carica emotiva dei sonetti, a far sì che il lettore tocchi con mano il significato di versi che, tradotti in lingua, corrono il rischio di essere sacralizzati, museizzati e, in fondo, devitalizzati. Il secondo motivo è legato alla doppia fonte a cui attingere i materiali linguistici, quella del parlato quotidiano e quella della tradizione poetica romanesca degli ultimi duecento anni, da Belli in poi, vissuta come “altra” rispetto all’evoluzione della poesia in lingua. E qui va chiarito che la decisione di orientare le scelte linguistiche sull’asse della mimesi del parlato è solo una delle possibilità espressive di una poesia, e dunque di una traduzione, mentre è una scelta che viene spesso data per scontata nel caso del dialetto. Si tratta invece di una fallacia: il dialetto in poesia non riflette necessariamente la parlata reale della persone ma fa riferimento sempre a una tradizione letteraria, a idioletti particolari, a una volontà di stile che – come è ormai chiaro per i critici che si occupano della cosiddetta poesia neodialettale – non ha a che fare con gli autentici atti di parole: per capirci, un verso di Mauro Marè come “la cortellezza dell’èsse nisuni” è altrettanto lontano dal parlato (se non di più) del “meriggiare pallido e assorto” di montaliana memoria. Insomma, il romanesco è per me uno spazio fra la tradizione e la sperimentazione, fra la scrittura e l’oralità, la pagina e la vita, uno spazio in cui come traduttore mi infilo. E da lì, assumo la voce di Will e mi rivolgo al fair youth e alla dark lady, riprendo il filo di quelle conversazioni e lo dipano nuovamente, quattro secoli dopo, fino ad avvolgere la mia realtà e quella del lettore. C’è poi anche la teatralità insita nel romanesco (e plasmata nella tradizione belliana del sonetto) che dà profondità alla traduzione (“tradurre è fare opera originale di poesia”, diceva Ungaretti) ma che inevitabilmente fa anche affiorare l’ironia e un certo spirito ludico. Ho comunque lavorato sui Sonnets riflettendo al tempo stesso sull’operazione che stavo realizzando, anche perché non ci sono importanti precedenti di traduzioni di classici in romanesco, quasi tutte di testi teatrali: oltre ad alcune versioni ottocentesche di Metastasio e Goldoni, c’è il tentativo di Zanazzo di tradurre il Giulio Cesare di Shakespeare (tentativo fermatosi ai primi tre atti) e Il vantone, l’adattamento di Pasolini del Miles gloriosus di Plauto (un esperimento fallito, stroncato da una recensione di Flaiano). Fra le opere non drammatiche ricordo le traduzioni/ricreazioni del Marziale per un mese di Mario Dell’Arco, i Carmina priapea tradotti da Valentino De Carlo nel 1977, e le più recenti versioni delle favole di Fedro ad opera di Marco Marzi e quelle di Maddalena Capalbi di alcuni canti della Divina commedia.

Oramai possiamo dire di esserci lasciati alle spalle il tradizionale e discusso concetto che vorrebbe la traduzione legata a un criterio di “fedeltà”; sappiamo che tradurre è sempre mutare, che la traduzione è metamorfosi, scomposizione e ricomposizione sotto un nuovo cielo; e il testo della traduzione ha una sua piena dignità, così come “l’originale”. Vorrei chiederle in che modo lei ha dovuto reinventare, tagliare e ricucire il suo dialetto per arrivare dall’ascolto dell’inglese di Shakespeare alla nuova pagina, e che tipo di pronuncia interiore immagina per li sonetti (perché sempre, leggendo e scrivendo, noi abbiamo una “pronuncia mentale”).

Fermo restando che lo status del romanesco – parlata dalla storia complessa, in continua evoluzione che nell’uso sfuma continuamente nell’italiano mescolando alto e basso – è di controversa definizione, sul piano linguistico ho dovuto fare delle scelte di fondo che rendessero compatto e al tempo stesso credibile il dialetto che volevo impiegare. Ho quindi deciso di spezzare il continuum fra italiano e dialetto in cui si esprime il romano nella vita di ogni giorno. Al tempo stesso ho scartato la possibilità di entrare appieno nel cosiddetto “romanesco di terza fase”, come viene chiamato da alcuni il dialetto attuale segnato da fenomeni come la lex Porena (il dileguo della /l/ e l’allungamento della vocale seguente nelle parole derivate da ILLE, per cui oggi si dice “s’aa so’ mmagnata quii regazzi” “gn’aa fo mmica” e per cui una frase come “se vedemo a Roma” = “ci vediamo a Roma” è diversa da “se vedemo aa Roma” = “ci vediamo la Roma”), e ho evitato l’impiego di forme gergali del lessico giovanile. Mi sono orientato invece verso un dialetto venato di anni, quello che puoi sentir parlare dagli anziani di quartieri come Primavalle. Ma non si tratta di un’operazione di tipo antiquario: il vocabolario e le espressioni che ho impiegato sono tutt’ora vive, anche se magari non diffusissime. Di una cosa mi sono accorto subito mentre stavo traducendo: la scelta del romanesco implicava necessariamente uno sguardo dal basso che trasforma la voce dell’io dei sonetti, rendendola più profonda e al tempo stesso più schietta, non impostata. Ma l’accostamento di alto e basso produce scatti di ironia, a volte di rabbia, e la voce in un attimo diventa un ringhio, alcune volte un ruggito, altre volte un soffio.

I poli inaggirabili della poesia romanesca negli ultimi due secoli saranno naturalmente Belli, Mario Dell’Arco, Mauro Marè e pochi altri. Ci sono altri “fari” o altre esperienze, recenti o meno, che l’hanno guidata? C’è una vitalità attuale del romanesco poetico? 

Nella tradizione romanesca c’è tutto un mondo sommerso che andrebbe portato in superficie. Certo, Belli è un gigante, un Dante per importanza fondativa, un Joyce per inventiva linguistica, e a lui si ricollegano Dell’Arco e Marè nel secondo Novecento neodialettale, ma non trascurerei la rivalutazione recente di Trilussa (grazie anche allo splendido Meridiano Mondadori curato da Felici e Costa), soprattutto il Trilussa degli ultimi suoi libri, Libro muto e Acqua e Vino. La poesia romanesca vive una contraddizione di fondo. Dopo l’unità d’Italia successive ondate di verseggiatori hanno diffuso in città la moda del sonetto in dialetto, seguendo l’esempio belliano e quasi sempre annacquandolo. Poeti da un tanto al chilo che, oltre a pubblicare in proprio, riempivano le pagine delle molte riviste di poesia romanesca che sorsero in quegli anni, alcune, come Rugantino, molto importanti. Un fenomeno impressionante per dimensioni, quasi sempre deludente per qualità, che contribuì a creare lo stigma della poesia romanesca come poesia dozzinale. In quel mare c’erano alcune isole di gran valore (Pascarella, Zanazzo, Santini, il giudaico-romanesco Crescenzo del Monte, ovviamente lo stesso Trilussa), e in quel mare decise di navigare controcorrente Mario Dell’Arco nel secondo dopoguerra, attuando un ritorno a Belli che sfociò nella dimensione neodialettale e nello sperimentalismo di Marè. Ma c’è stato dell’altro. Poemi narrativi come Er diavolo a Torrimpietra di Armando Fefè (pubblicato postumo nel 1971), o un capolavoro assoluto come Li romani in Russia di Elia Marcelli, del 1988. E sul versante lirico, fra i più recenti e sulla scia della connessione Dell’Arco-Marè, ci sono Massimo Bardella, Rosangela Zoppi, Enrico Meloni (notevole il suo poema Er davenì), Maddalena Capalbi. E soprattutto Pier Mattia Tommasino, che ne La befana e er battiscopa e Senzavajolo ha indicato il cammino del romanesco di terza fase. Vedremo chi vorrà seguirlo. E a cercarle si scoprono altre chicche: la breve raccolta A smemorasse da morì che una scrittrice di prima fila come Maria Jatosti pubblicò nel 1996, o Er Ciuanghezzù (ner paese der Gnente), traduzione in prosa di Paolo Morelli del trattato taoista Chuang Tzu (o Zhuang Zi). Si tratta di autori e testi spesso notevoli, ma che si muovono all’interno di una dimensione tutto sommato (e purtroppo) di nicchia. Tolto il Trilussa più vulgato e qualcosa di Belli, il lettore medio ignora quasi tutto della tradizione poetica romanesca.
Su un altro piano, c’è invece un’effervescenza di testi dialettali “dal basso e da fuori”, magari segnati da una coscienza linguistica attenuata e una certa discontinuità nei risultati, di autori che ignorano l’esistenza o non sono a contatto con la tradizione poetica di cui stiamo parlando, ma che comunque raggiungono di sicuro un pubblico ampio e giovanile. È un panorama che va dal gruppo di giovani conosciuto come i “Poeti der Trullo”, alla produzione legata alla musica, con gruppi come Banda Jorona, Ardecore, Il muro del canto, ed esperienze a cavallo fra il cantautorato e la scrittura per la pagina, come è il caso del recentissimo L’amore è un accollo di Giulia Ananìa.

Lei ha insegnato per più di vent’anni in Spagna e ha tradotto 99 sonetti di Belli in spagnolo. Come cambia l’approccio traduttivo dal romanesco allo spagnolo, e come invece dall’inglese shakespeariano al romanesco? Che tipo di strategie di adattamento bisogna mettere in campo?

Diciamo che nel lavorare fra inglese, romanesco e spagnolo le difficoltà di tipo “tecnico” sono di due ordini: da una parte c’è la differente struttura sillabica e morfologica delle varie lingue che si adatta in maniera differente agli schemi versali; dall’altra c’è la questione della natura diglossica del romanesco che non ha corrispondenze con due lingue “piene” come l’inglese e lo spagnolo.
Per quanto riguarda il primo punto, quello della metrica, le mia scelta è stata quella di mantenere sempre il ritmo dell’endecasillabo, che possiede una struttura pressoché identica in italiano e spagnolo, e di usarlo anche per la resa del pentametro giambico shakespeariano. Ma – here’s the rub, direbbe il Bardo – il vocabolario inglese è costituito in larga parte da parole monosillabiche, quindi un pentametro giambico inglese può contenere fino a dieci parole (undici in caso di “feminine rhyme”), cosa praticamente impossibile in un endecasillabo spagnolo o italiano (romanesco) in cui sono molto meno frequenti i monosillabi. La difficoltà sta quindi nel “comprimere” il contenuto del pentametro di Shakespeare in italiano o romanesco, senza perdere troppa materia semantica. Per questo traduttori italiani come Ungaretti o Sanesi hanno preferito usare versi di lunghezza variabile che sconfinano a volte nella prosa ritmica, eccedendo alla bisogna anche la misura dei quattordici versi del sonetto. Va detto comunque che la flessibilità del dialetto, il maggior numero di parole tronche (per esempio gli infiniti dei verbi) ha reso leggermente più agevole il tradurre in romanesco. Anche la decisione di non adottare per il sonetto uno schema rimico fisso, ma di muovermi liberamente fra rime consonanti e assonanze – approdando a ciò che io chiamo “sonetto liquido” – mi ha permesso di non allontanarmi troppo dal contenuto dell’originale. Da lì deriva la scelta di usare molto rime sdrucciole in romanesco, un espediente che permette di “guadagnare spazio” all’interno del verso. Così due versi del sonetto 23, “Or some fierce thing replete with too much rage, / Whose strength’s abundance weakens his own heart”, diventano “o ccome l’animale ppiù furastico / che er troppo rabbià ssuo je spompa er core”. Anche per questo ho intrapreso a volte la strada un po’ funambolica del sonetto interamente a rime sdrucciole, come nel caso del numero 91.
Ma non è stato neanche facile “riversare” Belli in spagnolo, in una lingua dove oltretutto la sinalefe è meno frequente per via dei plurali in -s. Si pensi a un endecasillabo come “sù uscelli, bbestie in mezzo e pessci in fonno” (dal sonetto La creazzione der monno), che tradotto letteralmente dovrebbe essere: “arriba aves, bestias en medio, peces en el fondo”. Non c’è modo di comprimere il testo in sole undici sillabe, e bisogna trovare soluzioni come questa: “de arriba a abajo: aves, bestias, peces”.
Diverso è il problema dei registri stilistici nel passaggio da o al romanesco. Ovviamente l’inglese e lo spagnolo hanno varianti diatopiche e diastratiche, ma non conoscono fenomeni comparabili a quelli dei dialetti italiani. Nel passato ci sono stati traduttori di Belli che hanno preferito colorire regionalmente il testo d’arrivo. Penso al Belli scozzese di Robert Garioch o al Belli newyorchese di Harold Norse, o al Belli di Agustín García Calvo, riversato in uno castigliano pieno di “vulgarismos”. Per la mia traduzione in spagnolo ho usato uno spagnolo medio, colloquiale, che scende di registro quando occorre, senza però indulgere in varianti morfologiche o fonetiche.
Diverso, ovviamente, è il caso de Li sonetti de Shakespeare. Lì la sfida è consistita nel tradurre in romanesco, come ho già detto, attingendo al parlato e alla pagina.

Trovo di estremo interesse un certo aspetto di gioco formale provocato, all’interno di questo suo lavoro: non un riflesso, piuttosto (direi) un effetto di rimbalzo, con elementi quasi manieristici: “ch’è ora che ttu ffaccia ’n’antra faccia” (3), “Si ffai l’impicci solo co tte stesso / te ’mpicchi co le mano tua, vedrai:” (4); il tour de force di parole sdrucciole in fine di verso nel sonetto 91 (e lo abbiamo visto), oppure le martellanti anafore e rime su “cosa” e “coso” nel 135. Si innesca una dinamica molto divertente, come una sorta di diplopia o di esercizio al quadro svedese, per cui il lettore passa dall’una all’altra delle pagine affrontate con una vertigine, una leggera ebbrezza. Oltre alla fatica innegabile, al lavorio paziente che è la spina dorsale del mestiere, vedo anche una jouissance nel cercare questa “ricreazione” traducendo.

Giusto parlare di manierismo. C’è comunque l’intento di riprendere giochi formali propri della poesia tardo rinascimentale e barocca europea, che ritroviamo nello stesso Shakespeare o in John Donne, in Góngora, Lope de Vega o Quevedo. E per gli endecasillabi sdruccioli ricordo esperimenti già in Ariosto (l’intera Lena è composta in rime proparossitone) ed episodi curiosi della storia letteraria come la moda degli sdruccioli in Juan de Arguijo e nei poeti sivigliani della fine del Cinquecento. O, su un altro piano, c’è la mimesi della poesia allitterativa inglese, la cui eco è presente nei Sonnets del Bardo, a cui mi ispiro per esempio nella chiusa del sonetto 33: “Eppure n’n me disprezza: puro er zole /se ’nzozza si lla zella inzugna er celo”. Un altro degli espedienti per ricreare questi effetti è l’uso delle rime a bisticcio, come nel sonetto 80: Co ’na ’nticchia d’ajuto tuo galleggio / mentre quello sull’onne va a ppasseggio; / io, si mme schianto, so’ un relitto scrauso / mentre quello è un vascello de gran preggio. / Ma er peggio è cche ss’io affonno e llui veleggia / st’amore cià la corpa der naufraggio”. Su questa linea si inserisce la scelta delle rime in -oso e -osa dei sonetti 135 e 136. Ma a ben vedere gli stessi giochi formali si ritrovano in Belli e poi in Dell’Arco e Marè. Certo, c’è il piacere della sfida alle difficoltà del testo, un fattore ludico evidente. E nel gioco vi è anche una forma -– spero percepita dal lettore – di distanziamento ironico. Per questo una delle due epigrafi dell’introduzione recita “Ma, William, perché dici queste cose arcane?”.

C’è nei Sonnets un aspetto enigmatico, misterioso, che è parte non trascurabile del loro fascino, e in traduzione si trasforma illuminando altre facce del prisma del testo. Scopriamo uno Shakespeare “popolare”. La traduzione in questo caso non solo restituisce ma rivela qualcosa: un qualche carattere oscuro che era rimasto nascosto sotto l’arazzo della raffinata elaborazione poetica nel testo dei Sonnets, o magari una nuova voce pronta a vestirsi di nuovi panni e a scendere in strada. «Se poi, nel gioco dell’immagine e del riflesso – lei scrive nell’introduzione – quella città somigli più a Roma o a Londra, sarà il lettore a deciderlo». Insomma, chi è Will in questa nuova vita? Chi è il Fair Youth? Chi la Dark Lady?

Il romanesco accentua inevitabilmente qualcosa che è già nel testo dei Sonnets: la distanza sociale esistente fra Will e il Fair Youth, e la carica sessuale – spesso esplicita – che vibra fra i vertici del triangolo costituiti dai due uomini e dalla Dark Lady. Si tratta in ogni caso di rapporti di dominio che si intrecciano con quelli amorosi. Da un lato c’è la relazione fra il padrone (il giovane disinteressato al matrimonio dei primi diciassette sonetti che poi diventa il sessualmente ambiguo Fair Youth della seconda sezione) e il poeta/segretario/servitore suo subalterno. Qui il servitore romanesco, proprio grazie alla forza del dialetto (la “lingua della verità”), può invertire la gerarchia sociale e far affiorare, sotto la superficie dell’adulazione, sotto l’assimilazione e la riproduzione del linguaggio egemone (quello della tradizione petrarchista), il proprio sordo rimprovero verso il padrone, proprio perché chi è in basso sa cos’è la vita e può chiamare le cose col loro nome: “For thee against myself I’ll vow debate, / For I must ne’er love him whom thou dost hate”, “m’accuserò dda me perché nnun posso / voleje bbene a cchi tte sta sur cazzo” (sonetto 89).
Sull’altro lato del triangolo, il poeta (ormai anziano) è in balia dell’odi et amo che lo lega alla voluttuosa e sempre incline al tradimento Dark Lady. C’è un climax erotico e violento sempre più esplicito col passare dei sonetti. È vero, c’è oscurità. L’oscurità delle notti insonni, l’oscurità dell’abisso senza fondo della lussuria, l’oscurità della pelle di lei. E in questa trasposizione spazio-temporale fra Londra e Roma della situazione finzionale dei Sonnets io immagino la voce del poeta/servitore/amante che bisbiglia o urla in un notturno romano che è quello della tradizione delle Notti romane di Verri, di Stendhal, di Giorgio Vigolo, di Rafael Alberti, di Guillermo Carnero, un panorama fatto di strade e corpi, preghiere e bestemmie, passione e rabbia. “La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni”, scriveva Carlo Levi nell’incipit de L’orologio.

Torno a leggere l’introduzione: «il contrasto fra l’alto e il basso smaschera nel dialetto la violenza latente fra padrone e servitore, fra amante e amata, mentre sotto l’espressione seria o benevola del volto affiora di tanto in tanto feroce l’ironia». Questa nota mi porta a pensare che accanto alle lodevoli e giustamente celebri visioni della traduzione come accoglienza e ascolto dell’alterità esiste un fondo inscalfibile di violenza nella pratica del tradurre. Ed è un po’ il rovescio dell’amore, quell’amore che nutre il “desiderio di tradurre”. Ne parla Tiphaine Samoyault nel suo Traduction et violence. Il riflesso (anzi la risposta) del nuovo testo è comunque un ri-ferire, quindi anche, fatalmente, uno scontro: c’è qualcosa che va bruciato, che si perde, e qualcosa di deviato: non tutto è piana “ricomposizione”. 

È vero, e io andrei oltre. Per me la traduzione avviene sempre in un contesto personale di consapevolezza delle dinamiche di costruzione del senso, di perdita e di trasformazione, che avvengono fra scrittura e lettura. Diceva Wolfgang Iser che l’autore scrive il testo e il lettore, riempiendo di significato i vuoti di quel testo, costruisce l’opera. E il traduttore – che è in primo luogo un lettore – trova, abbandonato in strada o custodito in un’urna, un corpo che vorrebbe afferrare, idratare, far rivivere. Ma l’unica maniera di farlo – di restituirlo in qualche modo alla vita – è metabolizzarlo, assimilarne la carica energetica, e dunque divorarlo. E divorare – leggere, tradurre – è di per sé un atto violento, un atto di cannibalismo rituale. Tradurre è trasformare per rendere di nuovo funzionale, per rendere vivo e fruibile un autore e un testo. Le fibre, il patrimonio genetico, le molecole si ricompongono così in un nuovo corpo somigliante ma non identico al primo, in grado di parlare e di essere compreso. È ciò che fa ogni lettore, ogni traduttore, ogni generazione: riempire i vuoti, ri-creare, passare il testimone alla generazione seguente. Per questo ogni epoca legge e traduce ex novo i propri testi. È la legge del canone: chi cessa di essere letto, tradotto, divorato, esce dal canone e muore per sempre.

Nel dispiegarsi della voce intensa che signoreggia questi “sonetti liquidi” si notano lampi nascosti, intarsi e rimandi ad altre scritture: Belli (con cui il dialogo è naturalmente fitto e complesso), Pasolini… “Altre voci” di cui questa voce si circonda. Sono omaggi, sfide, barre d’appoggio, luci di segnalazione, ammicchi al lettore? 

Sono i germogli che spuntano dalla radici della mia coscienza, dalla mia storia di lettore, i materiali compositi con cui io mi costruisco come traduttore. È l’intertestualità che in Shakespeare risponde all’imitatio della prassi retorica del suo tempo (e i Sonnets ostentano od occultano in continuazione citazioni di Ovidio, di Petrarca, della Bibbia) e che nella postmodernità diventa gusto per il pastiche. Se i lettori riconosceranno o meno quelle “voci altre”, dipenderà ovviamente dalla loro storia, dalle esperienze che hanno di altri testi, in primis di quelli della tradizione romanesca.

Lei pratica una sua scrittura poetica in proprio? Se sì, come pensa abbia influenzato (se crede abbia influenzato) il lavoro traduttivo su Shakespeare?

Come molti, anche io provo a scrivere poesie, in romanesco e in italiano. Credo che sia inevitabile che la mia scrittura influisca sulle mie traduzioni, ma in questi tre anni di lavoro sul testo di Shakespeare ho avuto l’impressione che sia stato piuttosto il mio tradurre i Sonnets ad aver influito sui versi che scrivo nei ritagli di tempo. Versi che comunque sono – almeno per ora – un affare privato non necessariamente destinato alla pubblicazione.

Le chiedo se esista oggi una artificialità del dialetto – che intorno agli anni Ottanta si pensava svigorito e prossimo a morire – e quale potrà esserne, a suo avviso, il domani. È un mondo, quello dialettale, solo regressivo o solo giovanile? Non possiamo immaginare di lanciarlo nel futuro, magari recuperando parole desuete, incoraggiando i ragazzi a farne uno strumento, anche sperimentale, di nuova poesia?

Non sono un linguista e posso solo parlare delle mie impressioni, della mia esperienza personale. Sono stato venticinque anni all’estero. Quando ho lasciato Roma, alla fine degli anni Ottanta, in generale nei media i dialetti erano un po’ la polvere da nascondere sotto il tappeto di uno standard linguistico un po’ falso, un po’ “di plastica”. Al mio ritorno ho trovato una situazione diversa. Per quanto riguarda il tanto bistrattato romanesco, come ho già detto, vedo un suo uso più diffuso, senza troppi complessi, in un po’ tutti gli ambiti e le situazioni che si vivono in città, oltre al suo rifiorire nella musica. Sono segnali importanti che provengono dal di fuori della scrittura prettamente poetica. Un Luca Barbarossa che scrive Passame er sale, un De Gregori che traduce in romanesco L’infinito di Leopardi… sarebbe stato possibile negli anni ’70? C’è una vitalità eccezionale nel romanesco, una capacità di invenzione continua che porta a creare neologismi, recuperare forme del passato, far affiorare espressioni magari limitate a circoli famigliari, che hanno viaggiato a lungo nel mondo sotterraneo delle periferie. E poi un giorno le senti in un bar o in un programma di una radio locale. E vengono riprese. E si diffondono. È un patrimonio espressivo ora (ri)scoperto dalle serie televisive come Suburra, che viene offerto alla platea nazionale da programmi come Propaganda Live, da film come Lo chiamavanoJeeg Robot’ o Non essere cattivo, dalle graphic novel di Zerocalcare, che fertilizza un’infinità di romanzi polizieschi ambientati a Roma (sulla scia del lontano precedente gaddiano del Pasticciaccio), o romanzi come Roma di Vittorio Giacopini o Lo stradone di Francesco Pecoraro. Resta da scoprire, per il grande pubblico, la tradizione poetica. E qui torniamo all’inizio di questa nostra chiacchierata. Belli, Trilussa, Dell’Arco, Marè sono laboratori di lingua e di poesia, palestre in cui imparare ed esercitarsi. C’è un testimone da raccogliere. Nel frattempo, vediamo che effetto sortiscono Li sonetti de Shakespeare.

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L'autore

Fabio Pedone
Fabio Pedone (1976) vive a Roma. Ha tradotto (fra gli altri) James Joyce, Damon Galgut, Jaimy Gordon. Con Enrico Terrinoni ha curato, per Mondadori, il completamento della prima traduzione integrale commentata in italiano del Finnegans Wake di James Joyce (2 volumi, 2017 e 2019). Suoi interventi e saggi sono apparsi su riviste come «European Joyce Studies», «Strumenti critici», «Testo a fronte». Ha condotto una nuova versione dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (Mondadori, 2020)Con Stella Sacchini dirige BookMarchs - L'altra voce, festival marchigiano dedicato alla traduzione editoriale. È attivo nelle scuole e nelle università con lezioni, seminari e laboratori dedicati ai problemi della traduzione. Ha vinto il Premio Benno Geiger per la Traduzione Poetica (2019) e il Premio Nazionale per la Traduzione (2020).

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