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A proposito del raki. Conversazione con Fabio Rocchi

La struttura dei racconti e, in particolare, la costruzione dei finali, oltre alla scelta dei temi, fanno pensare che tu avessi un’idea piuttosto precisa del tuo pubblico ideale. A che tipo di lettore hai pensato mentre scrivevi?

Ho cercato di raccontare delle storie che mi interessava portare sulla pagina, storie che ritraessero cioè all’interno di una coralità la fase di passaggio da un’Albania diciamo del passato prossimo a quella di un presente in molti aspetti contemporaneo. Non ho avuto in mente una tipologia di lettore ben definita, anche se penso che alla fine il pubblico ideale per questo libro possa essere identificato nella vasta comunità di albanesi residenti da anni in Italia. Penso soprattutto a loro perché, da confronti e da occasioni di scambio, mi sono reso conto che spesso è rimasta in quelle persone una immagine ancora anni Novanta del proprio Paese, mentre credo che l’Albania oggi sia molto altro e che quel molto, e quell’altro, siano incarnati proprio dalle giovani generazioni, quelle dei nati tra la fine del XX secolo e gli inizi del nuovo millennio per capirci. Mi fa invece piacere che tu noti la tecnica dei finali, che comunque vedo scissa da un orizzonte di attesa e che invece collocherei al contrario sul versante delle soluzioni offerte dal genere. Il racconto è una progressione di eventi molto più immediata rispetto al romanzo. Non si tratta soltanto di una forma per forza di cose più breve, in cui vengono eliminate alcune potenzialità e alcune deviazioni che nel romanzo hanno maggiore modo di essere sviluppate. È proprio un universo narrativo che corre parallelo e che si regge sulle regole stabilite da un principio di condensazione dei dettagli. C’è una tensione che si accumula, anche attraverso dei passaggi che rimangono impliciti, e che deve trovare nel finale il suo compimento, anche attraverso delle rivelazioni e dei chiarimenti figurali del senso che – se ben gestiti – invitano a riflettere proprio mentre soddisfano il bisogno di comprensione del lettore.

La tentazione di cercare l’autore all’interno della narrazione o, come in questo caso, nelle narrazioni, è sempre forte, anche se spesso fuorviante. Eppure, in questo caso alcune domande sorgono spontanee. Qual è stato il tuo primo approccio alla cultura albanese? È possibile ritrovare parte di te nel libro e negli incontri-scontri tra italiani e albanesi?

Sono arrivato a Tirana per la prima volta nel marzo del 2014 per motivi di lavoro e alla fine, per tutta una serie di ragioni e di circostanze, sono rimasto a vivere qui. I primi contatti con questa straordinaria cultura me li hanno mediati alcuni video su Youtube e i libri di Fatos Lubonja, principalmente Intervista sull’Albania, che ha rappresentato per me il primo testo di meditazione sulle dinamiche che si erano instaurate nella delicata fase successiva alla caduta del regime di Hoxha. Ben presto mi sono accorto che, al di là della realtà storica e contemporanea rappresentata dall’oggi dell’Albania, correva in parallelo una narrazione mainstream – spesso di natura giornalistica e dunque costruita sulla semplificazione estrema oltre che sull’esotismo – che non rendeva affatto conto delle dinamiche effettive della società con la quale avevo avuto modo di entrare in contatto. Il mio libro, a partire da presupposti esclusivamente narrativi, cerca in qualche modo anche di correggere queste storture di prospettiva, restituendo una fotografia più aggiornata. In merito invece alla questione del biografismo, non posso negare che in un libro un autore non possa far altro che rielaborare alcune esperienze vissute. Il punto, in tempi editoriali in cui l’autofiction e i racconti dilaganti dell’io ricoprono una posizione che mi sembra preponderante, è cercare però di dare a queste esperienze una organizzazione neutra, scissa in fin dei conti dal dato puramente privato proprio perché più legata invece ad un valore che possa essere considerato comune. Più una storia si allontana da un legame esclusivo con la vita di una persona e più essa assume valenze di racconto puro. Il mio ideale, anche quando leggo, sia per piacere che criticamente, è quello di togliere di mezzo il prima possibile l’autore e di avere invece accesso alle ragioni del narratore.

I racconti ruotano attorno al raki, letteralmente “grappa”. Piuttosto curioso come tu riesca a legarlo al concetto di vendetta, altro caposaldo socio-culturale. Tuttavia, nel quarto racconto la vendetta non segue i dettami del Kanun. Perché? In fondo, il personaggio non sembra saper modellare le sue convinzioni, nemmeno dopo aver incontrato una cultura diversa.

Alla fine il vero filo rosso che tiene assieme questi dieci racconti è un sentimento di vendetta che viene interpretato tra vecchi e nuovi codici di comportamento. I personaggi agiscono all’interno di queste due forze contrapposte. Ma è verissimo che, al di là del titolo, il raki, inteso come bevanda della convivialità, diventa ben presto un simbolo in grado di mettere insieme varie culture, tutte sviluppatesi nel corso dei secoli nell’alveo del Mediterraneo. Fin dai primi incontri con persone amiche del luogo, mi sono reso conto che poteva essere interpretato come offesa rifiutare, anche al mattino, uno shot di raki. Penso che in Albania il raki stia alla convivialità con le stesse funzioni del vino in Toscana. Una relazione analoga, in cui in un gesto di offerta vengono riassunte tradizioni e significati. Oltre alla coralità, interna ad una nuova antropologia di personaggio albanese, vorrei che dei miei racconti fosse colto un senso di interscambio tra i popoli che viene rappresentato proprio dal raki, inteso come veicolo trasversale di amicizia e di accoglienza. Non sento invece così presente la reminiscenza del Kanun nei racconti, probabilmente anche in quelli in cui, con le vendette di Danush e di Aferdita, vanno in scena atti di reazione omicidiari che possono farvi pensare. Se infatti vai a vedere, quelle situazioni sono molto private, individuali, per nulla legate alle logiche collettive del clan come era invece previsto per quelle società che, specie al nord dell’Albania, si regolavano secondo l’antica norma consuetudinaria. Con Arti, nel suo ritorno da Francoforte, c’è al contrario un tentativo di scatenare una faida familiare secondo i rituali di quel diritto. Ma, come hai letto perfettamente, questo tentativo viene subito abortito da un ragionamento molto pragmatico. Il ragazzo, seppur con le sue arretratezze e le sue devianze, dovute a una modalità di approccio molto particolare nei confronti della realtà, è anch’egli portatore di un cambiamento. Si allontana nel giro di pochi istanti dai doveri d’onore del bravo fratello e non risana l’offesa, ripiegandosi a suo modo in direzione di un individualismo vagamente tecnologico e nutrito di status symbol che forse dimostra quanto sia pervasiva la mitologia del tardo capitalismo.

I tuoi personaggi sono estremamente verosimili, c’è qualcuno a cui sei particolarmente legato o che fa riferimento ad esperienze personali?

Come ho cercato di chiarire, dal mio punto di vista la giusta distanza dalle esperienze personali deve fare la differenza nel momento in cui i temi e le figure di una storia vengono messi a fuoco. Come nel sogno, nelle modalità con le quali è riuscito a descriverlo Freud, penso che nel processo di costruzione di un personaggio sia determinante un meccanismo di condensazione, ovvero quella particolare fusione di vari dettagli ed elementi desunti da un incrocio di tipologie umane. C’è comunque, in effetti, un personaggio che mi ha dato soddisfazione rileggere nelle sue ossessioni e nel suo istinto conoscitivo: è Adana Kodra, protagonista del racconto Clear date dot com. In quella storia una giovane ragazza albanese, arrivata in Italia con molte belle speranze ma senza incontrare inizialmente fortuna, riesce a cogliere con lucidità uno dei risvolti della rivoluzione digitale, tanto da farne un business florido che la renderà benestante e le regalerà una soddisfacente carriera. Ho immaginato un contesto italiano attorno alla fine del primo decennio del Duemila, quando cioè esplosero definitivamente anche da noi la dimensione delle chat e i primi social. La capacità di leggere ciò che stava accadendo online a quel tempo da parte di Adana è straordinaria, è una case history di successo – come si direbbe nel linguaggio del marketing – che illumina alcuni meccanismi delle relazioni interpersonali nell’epoca del web. Mi piaceva l’idea che a cavalcare quell’onda fosse una scaltra ragazza albanese, dotata di sensibilità e di doti imprenditoriali. Anche perché di storie simili qui in Albania ne ho incontrate diverse, storie in cui alcuni giovani, partiti dal nulla, erano riusciti nel giro di pochi anni a fare fortuna onestamente, sacrificandosi ma allo stesso tempo vincendo la partita grazie alle capacità del loro ingegno, in patria come all’estero.

I tuoi racconti sono impregnati di un realismo a tratti estremamente crudo. Le voci narranti sono sempre piuttosto perplesse circa determinate dinamiche sociali, spesso ricorrono all’ironia e sottintendono una critica. Se, però, l’atteggiamento dei tuoi personaggi è chiaro, non si capisce mai se tu, invece, giudichi o assolvi, per dirla con Fellini.

Sicuramente né l’una né l’altra opzione. Continui a cercare me o un io biografico e scopertamente pensante dietro la narrazione ma, per quanto possa apparire un paradosso, per me questa funzione autoriale non esiste. Molto meglio montare, in un senso narratologico e cinematografico, le sequenze che costituiranno poi i blocchi di un plot, per offrire al lettore una storia aperta, in cui le interpretazioni siano molteplici. Quando leggo una narrazione odio avvertire il senso ideologico di una regia che mi vuole per forza dimostrare qualcosa, portandomi con sé in una certa direzione. Non lo sopporto, e non sopporterei dunque di scrivere storie concepite in questa modalità, con il sottofondo della didascalica, con le istruzioni per l’uso spiattellate in faccia al lettore perché comprenda bene: ehi, questo è il buo-no, amalo. Ehi, questo è il cat-ti-vo-ne, allontanati da ogni identificazione con lui fin quando sei in tempo. E ingenuità del genere. Mi piace creare situazioni ambigue e controverse sotto il profilo del giudizio. Quella crudezza di realismo quasi ostentata, che tu rinvieni in alcuni passaggi, è una scelta macrostilistica funzionale proprio a questo tipo di narrazione, lontana da situazioni facilmente comprensibili sotto il profilo della moralità e al contrario compromessa con il culto dell’opacità dei personaggi, che anche quando sbagliano in maniera plateale portano chiusi in sé stessi alcuni perché.

L’uso dell’ironia, molto spesso, sembra raggiungere la scelta dei nomi. Penso, ad esempio, a Fatbardha, che sembra molto lontana da, letteralmente, un “destino bianco”, o a Kujtim, in relazione al valore simbolico del ricordo all’interno della narrazione. Forse complice il fatto che venga nominato Kadare in uno dei racconti, mi chiedo se la scelta dei nomi sia casuale o meno.

Non è causale e aver colto questo aspetto è indice di una lettura molto attenta, per la quale desidero ringraziarti. In alcuni esempi il riferimento è antifrastico, quasi come se nel nome del personaggio fosse nascosto un contrappasso che prima o poi agirà beffardo. Pensa ad Aferdita, calco grecheggiante che ricorda Afrodite, la dea Venere. Se si va a scomporne il significante, in un confronto linguistico più letterale, l’unione di una preposizione con un sostantivo danno in traduzione un esito suggestivo: vicina al giorno, o se vogliamo, in maniera più libera, portata con l’alba. Dentro Aferdita sono dunque racchiusi significati estremamente positivi, che sembrano alludere ad un futuro luminoso, mentre la vicenda rovescia miseramente queste premesse. Addentrarmi nel problema onomastico è stato comunque un viaggio talvolta difficile. Come accade in Italia, ogni generazione ha un suo gruppo ricorrente di nomi, una sorta di testimonianza collettiva in grado di sintetizzare addirittura i caratteri di un determinato periodo. Per questo motivo alcune scelte sono tutt’altro che spontanee e nascono da una precisa ricerca visto che, per portarti solo due esempi, una ragazza che non ha compiuto ancora trent’anni può chiamarsi Enrieta mentre non era realistico che un anziano padre di famiglia, che aveva cioè radici e origini salde nel Novecento, venisse registrato all’anagrafe albanese del tempo con un più moderno Ardit o Andi.

Temo sia facile, con tematiche del genere (e con una nazione del genere!), esasperare, eppure in te non c’è la minima traccia di questo rischio. Offri un punto di vista onesto, abbastanza vicino da penetrare certe dinamiche, abbastanza distante da poterle descrivere. Ti ritrovi in questa definizione?

Penso che con l’immagine dell’equidistanza tu abbia colto il vero senso di questi dieci racconti, che nascono – esattamente come tu dici – a metà tra due culture, collocandosi in una prospettiva transnazionale. Mi sono trovato a dover maneggiare con cautela più immaginari, attraverso un percorso di sdoppiamento del punto di vista che non è lontano da quello al quale si sono sottoposti i primi scrittori della migrazione italofona di provenienza albanese, circa venti anni fa. Ho cercato di non creare eroi e di non immolare vittime, allontanandomi il più possibile dagli stereotipi. Stare nel mezzo, e non prendere le parti di nessuno, mi è sembrata l’unica soluzione accettabile per cercare di proporre una narrazione che si sforzasse di capire alcuni fenomeni in atto senza per forza di cose voler loro attribuire etichette e definizioni precise o, peggio ancora, scontate.

 

 

 

L'autore

Laura Proja
Laura Proja si è laureata in Letteratura spagnola presso l'Università di Perugia. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale nella Università di Roma "Sapienza".