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Da Genova al mondo. Conversazione con Fiorenzo Toso

Recentemente pubblicato da Fiorenzo Toso per le Edizioni dell’Orso, Il mondo grande. Rotte interlinguistiche e presenze comunitarie del genovese d’oltremare. Dal Mediterraneo al Mar Nero, dall’Atlantico al Pacifico condensa trent’anni di studi sulla presenza storica e attuale del genovese oltre i confini della Liguria. I saggi raccolti nel libro restituiscono un panorama estremamente vasto e complesso: abbiamo avuto il piacere di intervistare l’autore parlando di questo e di altri temi della linguistica romanza.

Il genovese è stato a lungo lingua internazionale della marineria e del commercio: navigando lungo le rotte che vanno da Gibilterra alla Crimea, ha lasciato durevoli tracce di sé nelle varietà con le quali è venuto a contatto. Ma dall’altro lato, ha anche raccolto: il genovese moderno conserva in sé stesso le tracce di questa “colonizzazione linguistica”. È individuabile nell’italiano una certa dose di forestierismi entrati nella lingua nazionale proprio tramite i porti liguri? In questo senso, ha svolto un qualche ruolo la vicinanza geografica di Genova alla Toscana?

Una lingua come il genovese, con le sue singolari vicende storiche, sia nell’esiguo territorio in cui ha avuto origine, sia in una dimensione transnazionale estremamente ampia, ha avuto nel corso dei secoli un ruolo importante come vettore di innovazioni lessicali, favorendo la circolazione di una terminologia, soprattutto settoriale, piuttosto ampia. In questo senso Genova è stata, forse più di ogni altra città italiana, centro di elaborazione, assunzione e distribuzione lessicale in un’estrema varietà di idiomi, e da questo punto di vista l’italiano non ha fatto eccezione: certamente, quindi, l’apporto genovese si misura sia attraverso gli elementi del suo lessico patrimoniale transitati in toscano, sia attraverso la mutuazione di prestiti da altre lingue. Non c’è dubbio che la vicinanza con la Toscana sia stata tra i fattori che hanno contribuito a una osmosi linguistica particolarmente rilevante, non solo per via colta e letteraria, ma anche per il tramite dei dialetti dell’area alto-tirrenica. D’altronde, pur nel loro durevole contrasto, Genova e Pisa hanno costituito in epoca medievale un asse linguistico importante, all’interno del quale il dare e l’avere lessicale offrono esempi di particolare interesse.

Secondo la teoria linguistica, in genere le aree isolate tendono ad essere maggiormente conservative rispetto al centro linguistico propulsore. Eppure, un’isola come la Sardegna sembra essere uno dei maggiori esempi di pluralità e vivacità linguistica. Per il genovese tabarchino di Carloforte e Calasetta gli stretti contatti con la madrepatria hanno rappresentato la sua stessa ragion d’essere: ma allora, il tabarchino odierno conserva caratteristiche di uno stadio più antico del genovese? Svolge in alcuni casi un ruolo di “testimone linguistico” rispetto alla madrepatria?

La storia della Tabarca tunisina prima e delle comunità sorte in Sardegna dopo la diaspora si è svolta in costante rapporto con Genova. Di conseguenza il tabarchino oggi, dal punto di vista strutturale (da un punto di vista lessicale la questione è più complessa), si configura come una variante coloniale di genovese sostanzialmente aderente alla lingua metropolitana moderna. Ci sono in Liguria (per non dire di Bonifacio in Corsica) varietà locali molto più rappresentative degli stadi anteriori del genovese. Questo, è vero, contraddice clamorosamente le norme areali del Bartoli e l’idea della colonialità come fattore di conservazione linguistica, ma occorre appunto leggere quella tabarchina come un’esperienza svoltasi senza soluzione di continuità in continuo rapporto con la madrepatria. 

Nella vita d’ogni giorno constatiamo come le mille sfumature vernacolari italiane stiano sbiadendo progressivamente, di generazione in generazione. Eppure ciascun dialetto, che in fin dei conti rappresenta ancora la lingua che ascoltiamo e apprendiamo dai nostri genitori, non smette di essere produttivo tra i ragazzi, per i quali ha assunto funzioni nuove, su tutte quella comico-parodica: noi nativi digitali abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, sullo schermo del nostro smartphone, umoristiche riscritture in dialetto di celebri scene o brani tratti dall’immaginario collettivo. Crede che proprio in questo tipo di esiti odierni si possa ravvisare l’impoverimento e lo svilimento dei dialetti italiani?

Credo più che altro che una corretta educazione linguistica e una corretta lettura della storia linguistica italiana consentirebbero di valutare meglio il rapporto che è esistito storicamente e che tuttora esiste tra le lingue d’Italia, sia in termini comunicativi che di identificazione. Non limiterei del resto l’attuale ripresa di forme di comunicazione (non solo artistica) legate all’uso delle varietà regionali e locali all’ambito della destrutturazione faceta, ad esempio, o alla loro percezione in senso diastraticamente marcato. Proprio l’uso scritto e parlato del genovese anzi – parlando di ciò che posso meglio constatare per conoscenza diretta – sembra allontanarsi sempre più da questo paradigma, recuperando, pur nell’indubbia contrazione del numero dei locutori, funzioni comunicative di un certo interesse. Al di là del misoneismo antidialettale con il quale queste pratiche vengono talvolta liquidate in certi ambienti accademici, si tratta di segnali significativi di vitalità da guardare con rispetto ed attenzione.

La Liguria è la sua terra e il genovese, oltre ad essere la sua lingua materna, è uno dei grandi protagonisti della sua attività di linguista, ma anche di traduttore e poeta. Crede che ci sia bisogno di un’operazione di protezione e promozione di questa lingua e che si possa, tramite specifiche politiche di salvaguardia, incentivare la vitalità del genovese, anche se si tratta di un fattore sostanzialmente legato all’uso parlato e quindi alla libertà dei parlanti?

Ho chiarito in diverse occasioni il mio punto di vista in proposito. Premesso che la vitalità di una lingua è appannaggio dei parlanti che ne determinano il destino in base alle loro esigenze comunicative, se si parte dal presupposto che un idioma sia anche un bene culturale – e per me lo è – trovo assurdo che un paese moderno non attui per quanto possibile delle forme di tutela, valorizzazione e promozione del proprio articolato patrimonio linguistico, come si fa per qualsiasi altro bene culturale o ambientale. L’Italia da questo punto di vista è il fanalino di coda tra le democrazie occidentali, avendo impostato la propria legislazione linguistica su discriminanti genetiche obsolete (la tutela di “lingue” in base a criteri di mera distanziazione rispetto allo standard) senza tenere conto delle complesse implicazioni sociolinguistiche e storico-linguistiche che interessano il panorama italiano. Si tratta di un grave deficit storico di una classe dirigente e di un ceto intellettuale – più che di un intero paese – che stenta ancora a fare i conti col tema cruciale del diritto alla differenza e con una storia di pluralità culturale e di policentrismo che pure sono alla radice del nostro essere nazione.

Mi ha colpito, in particolare, una riflessione che emerge spesso nel suo libro e che considero ben concentrata nelle seguenti righe: “Le tracce linguistiche sono ancor più interessanti di quelle monumentali, perché svelano i contorni di un’interrelazione profonda con le popolazioni incontrate, tale da sfociare in forme di condivisione che vanno oltre la meccanica trasposizione di modelli culturali”. Crede che presso i non specialisti (e penso ancor più ai suoi conterranei liguri) ci sia un’adeguata consapevolezza del cosmopolitismo che caratterizza la storia della lingua genovese?

L’interesse per il genovese e la sua storia è oggi più diffuso che in un passato recente, e a ciò ha contribuito anche una certa retorica mediterraneistica, che si esemplifica bene attraverso l’esperienza artistica, tra gli altri, di un Fabrizio De Andrè. Il più delle volte, però, non si va oltre l’aneddotica e il luogo comune, quello ad esempio delle parole arabe o greche presenti nella lingua, o quello della sopravvivenza di “isole” sparse qua e là nel Mediterraneo. Manca, come dicevo, una percezione della storia linguistica nazionale (e di conseguenza di quelle regionali, tra cui quella ligure nella sua forte peculiarità) adeguata all’enorme ricchezza e varietà che la caratterizza. Poco più di cent’anni fa, come ho anche illustrato nel mio libro, parlando genovese si poteva circolare tranquillamente in un “mondo grande” esteso dalla Crimea al Pacifico e c’era chi, dopo aver parlato in genovese in tutti i porti del Mediterraneo e dell’Atlantico, doveva ricorrere agli uffici di un interprete solo quando si trattava di avere a che fare con degli anglofoni. Recuperare la consapevolezza di queste dinamiche interlinguistiche, oggi totalmente assenti nella nostra prospettiva culturale, ci aiuterebbe forse ad affrontare meglio le sfide della globalizzazione e dell’incontro con gli altri, senza complessi di inferiorità e con piena disponibilità al confronto. Questo vale per il genovese ma anche, penso, per l’italiano.

 

 

L'autore

Fabiola Barbetta
Fabiola Barbetta (1996) si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Perugia, con una tesi in Filologia Romanza riguardante il più antico testimone manoscritto della tradizione lirica galego-portoghese, il Cancioneiro da Ajuda. Sta proseguendo gli studi presso l’Ateneo perugino, dove è iscritta al corso magistrale di Italianistica e Storia Europea (Filologia Moderna). Appassionata di musica, in particolare sta studiando Canto jazz.

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