I campi della memoria

di Antonello Tolve

 

«L’occhio è ciò che è stato toccato da un certo impatto con il mondo,
e lo restituisce al visibile mediante i segni tracciati dalla mano».

Maurice Merleau-Ponty

Pittore che pensa con le mani, intellettuale incline a una profonda idea del fare[1] e osservatore attento a registrare l’esistente, Ioan Sbârciu (Feldru, 1948) è tra le figure più rappresentative del panorama rumeno contemporaneo. Legato a una idea della pittura che volge le spalle alla figurazione, l’artista assume nel proprio dispositivo creativo una consapevolezza metalinguistica che, tra tensione e contemplazione, decifra e ricodifica la realtà mediante strumenti primari amalgamati a una serie di forze atte a stabilire contatti, contratti segreti tra il pensare e il fare arte. Le sue tele sono ambienti, arene che, seppure si inscrivano nell’ambito di una linea astratta, non rinunciano alla evocazione di storie o di luoghi, ma anzi si strutturano lungo un binario enunciativo dove l’espressione è inseguita e conseguita attraverso il gesto fulmineo, lo stato d’animo, la sensazione immediata, la febbre dell’immaginazione.

Dalla rivisitazione del mito (la serie dedicata al Rapirea Europei) al recupero del paesaggio transilvano (quello della propria memoria, della propria infanzia – straordinari in questo ambito i vari Pădurea de cenuşă o gli abbaglianti Transylvanian Landscape), dal prefisso autobiografico al croccante erotismo del gesto miocinetico che caratterizza molti dei suoi disegni, Sbârciu si muove con disinvoltura tra le trame di un postespressionismo astratto e quelle di una tradizione presa per la coda per essere immessa (immersa) nell’ambito dell’ampia parabola artistica postmoderna, di un ritorno ai valori pittorici che è appunto consolidamento del rapporto tra tradizione e innovazione, tra arcaico e attuale, tra passato e presente.

Consapevole che si dipinge col cervello e non con le mani (è, del resto, la lezione consegnata da Michelangelo Buonarroti ai posteri), l’artista scatena sulla tela una serie di forze determinate dalla passione della ragione, da un atteggiamento che pone sotto uno stesso cielo visivo la regola e il caso, il razionale e l’irrazionale, l’asciuttezza della meditazione e l’immediatezza della istintività. Se infatti lo spontaneo determina alcuni gesti che chiudono e definiscono l’opera (come non pensare al fulmineo atto che conclude i Don Quijote del 2013, del 2016 e del 2017), nulla d’altro canto è lasciato al caso, compresa la dimensione o la scelta delle tele (supporti specifici di differente gamma cromatica – bianchi, rosa antico, verde oliva, grigio o nero – selezionati con acume). Nel mondo proposto da Sbârciu i valori del sogno e della fantasia come quelli degli strumenti interni della pittura vivono una potente massiccità immaginaria, partecipano alla realizzazione di uno stesso ambiente operativo e ideico che mira a dare immagine alla interiorità, a rivelare strati emotivi, a aprire brecce verso poteri magnetici assopiti.

Sin dai primissimi anni Novanta del Novecento, e più precisamente da quando cade il regime di Nicolae Ceaușescu (condannato a morte il 22 dicembre 1989) e la Romania riapre il proprio sguardo intellettuale ad una nuova primavera, Sbârciu evidenzia la volontà di guardare al presente, di progettare una nuova linea di pensiero visivo, di dar vita a quella che è stata definita la Scuola di Cluj: un territorio della pittura libero dalle paludose imposizioni del realismo comunista e aperto a mezzi espressivi capaci di dialogare con la cultura internazionale.

Teatro di verifiche, di azioni e di riflessioni, la sua pittura diventa (torna ad essere), da questo preciso momento storico, un vero e proprio corpo a corpo con la tela, un duello, un habitat mediante il quale, prestando il suo corpo al mondo, il pittore trasforma il mondo stesso in pittura. Stratificazioni cromatiche, sovrapposizioni luogali, sovrimpressioni temporali convivono nello spazio artistico di Sbârciu con una energia fatta di trasparenze e gesti, con una plasticità musicale e poetica che sfarina le cose della realtà per invitare lo spettatore a vivere un sogno fatto di chiarore, di bagliore, di silenzio antelucano dove linea, spazio, luce e profondità diventano le nervature della pittura, di un dispositivo che evoca dati e date, che invita a riflettere, che apre spazio a atmosfere suggestive e allusive.

L’importanza del colore e della luce (la sostanza della pittura è la luce ha sottolineato André Derain), l’emozione vissuta a contatto diretto con la natura, l’incidenza dell’interruzione, la ricerca dello stato di grazia che mira a cristallizzare lo stato d’animo, a concepire un colpo d’occhio, a far esplodere l’orgasmo del pigmento portano l’artista a concepire via via un disegno – un modo d’agire, un bildhafte Denken – la cui qualità sintetica conferisce un felice equilibrio tra intelletto e sentimento, tra impressione naturale e organizzazione mentale.

Anatomie di istanti congelati mediante azioni e apparizioni, corpi e colpi pittorici che invitano a riflettere sugli statuti del dipingere, campi della memoria in cui si manifestano, si concatenano o si specificano i problemi dell’essere di fronte alle cose e nelle cose stesse, ventagli cromatici che portano all’origine dell’opera e della coscienza umana. Sono, queste alcune delle riflessioni seguite e inseguite da Sbârciu (mente che acquisisce, progredisce, ricorda) per concepire opere fatte di lampi o di guizzi improvvisi dove la tonalità maggiore del futuro prevale su quella minore – fatta di tristezza e di rassegnazione – rivolta al passato, alla traccia di quello che è stato e che mai più sarà.

[1]     P. Valéry, L’homme et la coquille, in Ouvres, Gallimard, Paris 1957, p. 891: «l’idea di Fare è la prima e la più umana. Spiegare non è mai che descrivere un modo di Fare: non è che rifare attraverso il pensiero».

 

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