Interventi

“Se questo fosse vero”: autobiografia ed immaginazione visiva nei versi di Gerda Stevenson

La collana “Erranze” porta in Italia da qualche anno quella che il suo direttore, Gëzim Hajdari, ama chiamare “poesia dei mondi”. Si tratta spesso di poeti translingui come nel caso dello stesso Hajdari che vi ha pubblicato nel 2015 la sua ultima raccolta, Delta del tuo fiume, nella consueta versione bilingue albanese – italiano. Ma, per i tipi di Ensemble, sono apparsi anche il filippino Gèmino Abad, il caraibico Kamau Brathwaite (Robert Frost medal 2015), entrambi tradotti per la prima volta in italiano grazie all’impegno della giovane casa editrice romana.
If this were real segna la più recente tappa del percorso di Erranze, ne è autrice Gerda Stevenson qui al suo esordio poetico in lingua inglese dopo i riconoscimenti in patria per la poesia in lingua scots Hame – comin (2013). Già e meglio nota in Inghilterra come attrice (ha un ruolo in Braveheart), drammaturga (il suo Federer vs Murray è andato in scena a New York) e musicista, per una tradizione familiare che dura (ne è traccia nei versi di Fiddler’s Delight, dedicati alla nipote violinista), Gerda Stevenson approda in Italia, grazie alla felice traduzione di Laura Maniero, come poeta.

Anche in virtù di un simile curriculum, le prime recensioni alla raccolta pubblicata da Smokestack book nel 2013 hanno avuto buon gioco ad enfatizzare una certa musicalità del dettato nonché la naturale disponibilità scenica e performativa della scrittura (la Stevenson è, tra l’altro, mirabile lettrice dei propri versi). Di quella ricezione in patria è oggi evidente il riflesso nelle primissime reazioni italiane all’edizione Ensemble.

Questi versi però, oltre alle sonorità scots e gaeliche, oltre al retroterra culturale scozzese – vi è memoria di Stevenson (Robert Louis) nella figura di Leerie, il lamplighter cantato nel Child’s garden of verses – rievocano, descrivono, producono anche immagini, e non esclusivamente legate alle lowlands.
Partiamo dai versi di Catterline in winter, poesia che prende titolo da un quadro del 1963 della conterranea Joan Eardley. Si tratta di un vero e proprio esercizio di ecfrasi. Il quadro è descritto nel dettaglio con l’aggiunta di una ipotesi narrativa : “perhaps they’re asleep – a widow / or lovers behind a blue door”. Nella descrizione minuta varrà intanto la pena di cogliere l’accenno, in un contesto cromatico scorante e monocorde (“un cielo grigio proiettile”) ad una macchia di colore – “a well of yellow laughter” – poiché questo elemento si rivelerà caratteristico della cifra poetica della Stevenson.

In Reading the tree – componimento che dà titolo alla terza e più corposa sezione del libro, quella nella quale l’autrice amplia i confini de proprio sguardo ad un panorama geopolitico più vasto (la Bosnia, l’Irak, la Siria) – un rimando meno esplicito è allo scatto di un fotografo bosniaco, un’immagine certamente stravagante rispetto al contesto scozzese: Tuzla, la Bosnia-Erzegovina, le guerre balcaniche. A partire dalla foto scattata nel 1995 da Darko Bandic, che ritrae un corpo di donna sospeso ad un albero per impiccagione (il nome della donna compare nella dedica: Ferida Osmanovic), come per un’associazione immediata dettata dalla memoria visiva, la poeta spicca (e noi con lei) un salto all’indietro.

 

La risalita iconografica è qui sostenuta dal dialogo intertestuale: “the strange fruit he is about to frame” si legge infatti negli utimi versi (mio il corsivo), e il pensiero va alla canzone resa celebre da Billie Holiday. Anche quella canzone deriva da un’immagine fotografica di un’impiccagione, a sfondo razzista (la foto del linciaggio scattata da Lawrence Beitler indusse Abel Meeropol a comporne il testo).

Marco Fazzini che firma la nota introduttiva a If this were real ha parlato di “poesia in stato di grazia” per i versi raccolti in questo libro. Ma in cosa consisterebbe questa grazia, dunque, se non in una supposta e sorgiva musicalità del dettato? Per tentare una prima risposta diremo che nella scrittura di Stevenson la drammaticità, la gravità del vissuto – privato (dolorosi lutti familiari offrono l’occasione per alcuni componimenti) o pubblico (la tragedia storica delle guerre del secolo appena trascorso e del presente) – non è mai disgiunta dalla levità del vivente, di ciò che risplende e colora i nostri giorni. Esemplare il caso di Farfalle: la poesia dedicata a Goran Simić – testimone dell’assedio di Serajevo, “il poeta devastato dalla guerra, / cadaveri appesi a ogni suo verso” – associa alle vittime di guerra la policromia (“giallo, indaco, vermiglio”) di lievissime farfalle:

                              corpi nudi
ammucchiati in una fossa […]
boschi di betulle lì vicino, macchie fulgide
in mezzo ai rami, che potrebbero,
pensai, essere farfalle.

Molti altri esempi potrei portare di luoghi dove torna l’epifania del colore su uno sfondo monocromo, grigio o di un bianco lattiginoso. Per esempio in Blackout a Linton dove un camion ribaltato nella neve disperde il suo carico di arance: “gowd frae Seville in the snaw!” (“oro da Siviglia nella neve!”); in Catwalk, dove si narra di bambine precipiti in un crepaccio montano, sul ciglio del quale fioriscono nontiscordardimé dello stesso colore dei loro occhi; in The red cardigan dove alla tonalità luttuosa del componimento, in ricordo della madre, si sovrappone il rosso di un maglione lavorato ai ferri (si noti che un “red cardigan” colora nella citata Farfalle la descrizione di un’altra madre, impiccatasi dopo essere stata testimone del massacro di Srebrenica); e infine, ma l’elenco potrebbe continuare, in How to tell him, uno dei componimenti memorabili della raccolta, costruito con maestria a partire da un minimo espediente narrativo: la protagonista ha appena ricevuto telefonicamente la notizia della morte della suocera, e dovrà comunicarla a suo marito, seduto lì vicino; fino a quel momento la madre sarà ancora in vita per il figlio ignaro, continuerà a spedire uova fresche dal suo podere in campagna, “a scolare aringhe salate da un secchio di plastica, / i loro ventri squamati un arcobaleno nel suo palmo – / fin quando glielo dirò” (mio il corsivo).

Prendendo a prestito un’immagine dell’autrice, potremmo dire perciò che in queste pagine la poesia si muove like a robin on a litterbin, come un pettirosso che aleggi sulla spazzatura (“A robin flits onto a litter bin”, Last sunday). Ciò che conta è però comprendere che quel tocco di colore non è mero décor. La poesia, sembra volerci ricordare l’autrice, non è accessoria o intrusa in mezzo agli orrori del reale, poiché la sua levità è parte essa stessa del reale, quella parte che ce lo rende sopportabile e ci grazia. Ciò che questi versi indicano, attraverso l’uso mirato del colore e della luce in contesti descrittivi e metaforici grigi o luttuosi, è la coesistenza nel mondo di lieve e grave, di tragedia e idillio, di orrore e sorriso. La poesia di Gerda Stevenson esorta pertanto ciascuno di noi a inseguire quelle farfalle, anche attraverso una selva di corpi senza vita, e proprio coi versi che chiudono il libro invita il lettore a godersi, con lei, l’ultimo chiarore del giorno.

Non è un caso, infatti, che la raccolta – forse troppo frettolosamente giudicata un’autobiografia in versi (nonostante l’avvertenza implicita nel titolo: Se questo fosse vero) – si chiuda su un’ultima epifania luminosa, su un estremo momento di grazia “Ancora un nastro di luce sulla vetta in alto, / il mio intento, farmi spruzzare da quei raggi / […] / raggiungo il crinale, / ritta nel chiarore / dell’ultima scintilla dell’anno”. La raccolta infatti, ben lungi dall’abdicare a una tentazione confessional, manifesta un’architettura macrotestale consapevolmente gestita e l’ultimo componimento chiude il cerchio col primo, Tempesta alla roccia di Carlin’s Loup, dove nella medesima postura eretta il personaggio femminile, descritto in attesa di un bus antelucano, sperimentava condizioni meteorologiche ben diverse (“Sono in piedi, come una pietra, / cielo, vento e pioggia imprimono / il peso della loro stagione / sulla mia pelle”).

Chiudendo il libro perciò il lettore (la lettrice!) porterà con sé l’immagine di questa donna verticale – non si dice forse hombre verticàl? – capace di mettersi in gioco nell’arte, nell’impegno civile, nella vita privata e degli affetti, ben oltre i confini regionali dell’autobiografia.

How to tell him e Beyond Fairliehope

intervista in formato pdf

02/12/2018

L'autore

Ugo Fracassa
Ugo Fracassa
Ugo Fracassa insegna Teoria e Critica della letteratura a Roma Tre, dove è ricercatore nel Dipartimento di Studi Umanistici. Ha pubblicato studi in volume su Montale (Mezzo secolo di Bufera, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2007, a sua cura), Rosselli e Zanzotto e, nel 2016, ha dato alle stampe una monografia: per Emilio Villa / 5 referti tardivi (Roma, Lithos). Si occupa della produzione letteraria translingue e della migrazione (in particolare, per la poesia: studi su Emanuel Carnevali, Gëzim Hajdari, Barbara Serdakowski), anche in ottica postcoloniale. Al tema ha dedicato una monografia nel 2012  (Patria e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, Perrone, Roma), il sito princesa20.it ed un saggio di recente pubblicazione: "Nuove frontiere della letteratura italiana della migrazione" (in Scritture migranti, 11, 2017). Il suo studio più recente riguarda la riproposizione in epoca contemporanea, tra narrazione romanzesca e cinematografica, del topos degli amori di Venere e Marte ("Che genere di topos? Intorno a certi amori recenti di Marte e Venere", Studi culturali, 3, 2018).