Confessioni letterarie

Da Chabod a Bruxelles (Carlo Pulsoni dialoga con Paolo Padoin)

Paolo Padoin (Firenze 1947) ha compiuto tutti i suoi studi a Firenze, fino alla laurea in Giurisprudenza, conseguita nel 1969. Nel 1972 ha iniziato la carriera di funzionario di prefettura ad Arezzo e successivamente ha svolto le funzioni di capo di gabinetto e viceprefetto vicario nella Prefettura di Firenze. Nominato prefetto nel 1993 e destinato al Ministero dell’Interno, è stato poi prefetto a Pavia, Pisa, Campobasso, Padova, Torino e Firenze. Vincitore di concorso internazionale per funzionario presso l’U.E ha prestato servizio dal 1980 al 1984 presso la Commissione dell’Unione europea a Bruxelles. È autore di numerose pubblicazioni nel campo del diritto comunitario e amministrativo. Nel 2007 ha ideato un sito internet dedicato alla tutela della legalità (www.rinnovareleistituzioni.it), che gestisce e aggiorna personalmente. È uno dei soci fondatori e redattore del quotidiano on line www.firenzepost.it che si occupa di politica, economia, cronaca, cultura, spettacoli.

So che è un appassionato lettore di Chabod e mi permetto di farle alcune domande proprio a partire da quanto ha scritto lo storico. Le riflessioni di Chabod sulla storia dell’idea di Europa risalgono agli anni Cinquanta e l’omonimo libro è di poco successivo. Siamo insomma in una fase in cui i politici cercano di costruire un sentire comune europeo, dopo i disastri del II conflitto mondiale, a partire da accordi economici. Ritiene che Chabod anticipi o rifletta questa nuova percezione politica?

Chabod quando parla del concetto di Europa si riferisce non all’Europa fisica, ma all’Europa politica, culturale e morale, all’Europa che (sono parole sue) noi abbiamo sentita distinta dalle altre parti del globo per certe determinate caratteristiche del modo di pensare e di agire, dei sistemi filosofici e politici, delle tradizioni, in una parola di tutto ciò che intendiamo quando parliamo di “civiltà”. Egli afferma che «se delle basi di fatto della civiltà europea si può parlare sin dal mondo antico e ancor più dal trionfo del cristianesimo e della civiltà cristiana e cioè del medioevo, di una precisa e chiara coscienza europea non si può parlare se non nell’età moderna. Coscienza europea significa infatti differenziazione dell’Europa, come entità politica e morale, da altre entità, cioè, da altri continenti o gruppi di nazioni». Questo pensiero riflette solo in parte il sentimento dei Padri dell’Europa, che puntarono alla creazione di uno spazio politico ed economico comune per favorire il progresso sociale ed economico dei Paesi membri e per evitare il ripetersi di conflitti fra gli Stati, ma anticipa alcune future politiche europee, che si svilupperanno negli anni seguenti.

Il libro si propone di affrontare l’idea di “Come e quando i nostri avi hanno acquistato coscienza di essere europei”. Sono ancora attuali queste considerazioni?

Chabod compie un’analisi puntuale sulle possibili origini del nostro essere europei, a partire dalla civiltà greca. Si sofferma infine particolarmente sul concetto settecentesco dell’unità della civiltà europea: quest’unità si presentava allora articolata, ricca di molteplici fermenti e di una varietà di toni che permettevano appunto di esaltare nello stesso tempo l’unità europea e le singole civiltà nazionali, in un’epoca in cui la “nazione” costituiva appunto il nuovo ideale del pensiero europeo. E cita il pensiero di François Guizot, storico e politico francese del XIX secolo, secondo il quale sono due i fattori che determinano il progresso della civiltà: lo sviluppo della condizione sociale e lo sviluppo della condizione intellettuale, insomma il perfezionamento della società e quello dell’umanità. Perché la civiltà sia piena, occorre che questi due fatti si verifichino simultaneamente e interagiscano l’uno con l’altro. L’U.E. per anni è stata accusata, a ragione, di essere l’Europa dei banchieri e dei mercanti. Con i progressivi allargamenti fino a comprendere 28 stati, con i trattati di Maastricht e Lisbona, alle prime politiche fondamentali ne sono state aggiunte altre, quali ad esempio la politica culturale. E in questo consiste la più evidente attualità del pensiero di Chabod.

Quanto è ancora vivo lo spirito dei padri fondatori sulla base della sua esperienza a Bruxelles?

Ormai dello spirito dei padri fondatori è rimasto solo il ricordo, ed è forse naturale che sia così visto che sono passati quasi sessant’anni dalla costituzione dell’allora Comunità economica europea e che gli Stati membri sono passati dai 6 fondatori ai 28 attuali. Ma soprattutto è cambiata la politica, l’economia, sono mutati i rapporti fra gli Stati e fra le varie aree del mondo. Adesso Cina e India sono diventati interlocutori fondamentali degli Stati Uniti e dell’Europa. Quindi, se è vero che sono rimasti integri i principi morali fondamentali dell’Unione (che peraltro sono i principi fondamentali di qualsiasi collettività internazionale che voglia unire i suoi sforzi per il bene comune, non a caso coincidenti in larga misura con quelli contenuti nella dichiarazione dei diritti dell’uomo), si constata però oggettivamente un progressivo allontanamento dal pensiero d’ispirazione cristiana che informava la visione di De Gasperi, Adenauer, Schuman. Un pensiero rimosso in nome di una laicità certamente più consona alla civiltà moderna, multietnica e pluriculturale, ma che talvolta dà l’impressione di trasformarsi essa stessa, paradossalmente e direi anche pericolosamente, in un dogma di fede imposto da un’autorità sovranazionale. Ovviamente l’Europa allargata ha dovuto progettare nuove politiche comuni per rispondere alle esigenze dei suoi sempre più numerosi e differenziati cittadini: politiche sociali, protezione civile, cultura, informatica, lavoro, disoccupazione giovanile, scambio di esperienze di studenti e docenti (Erasmus, Socrates ecc.), reti di energia sono solo alcuni esempi della nuove iniziative che l’UE ha messo e metterà in campo. Per non parlare di una sfida necessaria e quanto mai attuale: la realizzazione di una politica comune dell’immigrazione e dell’accoglienza. Finora l’Unione europea ha stanziato fondi per sostenere l’azione dei vari Stati, senza però indicare un disegno comune. Ogni stato procede con criteri propri, attuando una sua politica dell’immigrazione e dell’accoglienza. Il boom di sbarchi a Lampedusa, verificatosi dopo la troppo decantata primavera araba, e le tragedie accadute nel Mediterraneo hanno posto anche i paesi del nord Europa e la stessa UE di fronte alle loro responsabilità. Finora gli sbarchi in Italia sono stati considerati un problema nazionale: se la sbrighi il governo italiano. Ora finalmente si è compreso che si tratta di un problema europeo e sembra che anche gli altri paesi si muovano. Se son rose fioriranno, ma l’esperienza pregressa non fa sperare in sviluppi molto positivi, almeno a breve e medio termine. L’elefantiaca e costosissima macchina burocratica europea difficilmente riesce in tempi brevi a soddisfare esigenze d’interventi efficaci e immediati.

A proposito della burocrazia europea, ci racconta qualcosa della sua esperienza a Bruxelles.

Il periodo trascorso a Bruxelles (1980-84) mi ha consentito di fare un’esperienza professionale e umana eccezionale, non soltanto perché le modalità particolari di lavoro in una lingua diversa dall’italiano, con contatti a livello internazionale, mi hanno mostrato prospettive fino ad allora sconosciute, ma soprattutto perché il confronto e la collaborazione con colleghi di altri Paesi, con mentalità e prassi anche burocratiche diverse, mi ha obbligato ad operare in una dimensione superiore, rispetto alla quale però, ad essere sincero fino in fondo, la tanto bistrattata burocrazia italiana non sfigurava poi troppo. Il lavoro degli eurocrati presenta alcuni aspetti positivi, ma anche molti negativi. Un piccolo esempio: nel 1980 gli atti ufficiali dovevano essere immediatamente tradotti nelle lingue dei paesi membri; poi, per semplificare, si è cambiato rotta. Adesso si pubblica tutto in inglese e poi, a rilento, si provvede alle traduzioni, con disagio dei funzionari degli Stati membri che non padroneggiano perfettamente, specie per quanto riguarda i tecnicismi giuridici o settoriali (per es. nel campo della chimica industriale o dell’agricoltura) l’idioma di Albione. C’è voluta addirittura una sentenza della Corte di Giustizia per ribadire che la traduzione va fatta anche in italiano? Ci sono poi molte altre complicazioni: i dicasteri della Commissione sono pletorici e le accresciute competenze dell’Unione sono spesso suddivise fra diversi settori, con l’allungamento di tempi, procedure e difficoltà conseguenti. Pensate al caso di un povero funzionario comunitario (povero non certo per lo stipendio, che è altissimo) che inizia a predisporre un progetto di direttiva. Deve limarlo con i colleghi delle altre direzioni, avere il contributo degli esperti nazionali, delle associazioni competenti. Poi, dopo tutta una sequela di passaggi, correzioni, integrazioni, succede che il parlamento magari non concorda e la direttiva non viene adottata. Anni di lavoro buttati e frustrazioni a iosa.

Il primo comma dell’articolo III-280 del Trattato costituzionale europeo recita: “L’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle diversità nazionali e regionali, evidenziando il patrimonio culturale comune”. A cosa allude il testo quando si riferisce a un patrimonio culturale comune?

Il trattato di Roma non conteneva un paragrafo specifico dedicato alla cultura; quest’ultima è stata inserita per la prima volta fra le priorità politiche europee con l’adozione del trattato di Maastricht e successivamente di quello di Lisbona. L’articolo 151 del Trattato di Maastricht, divenuto l’articolo 167 del Trattato di Lisbona, pone le basi legali per realizzare le azioni promosse dalla Comunità in ambito culturale. Sono iniziative volte a incoraggiare, promuovere e se necessario integrare le politiche avviate in quest’ambito dagli Stati membri: l’UE contribuisce al pieno sviluppo delle culture dei singoli Stati nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio comune. Le politiche UE connesse alla cultura sono numerose: istruzione (compreso l’apprendimento delle lingue), ricerca scientifica, sostegno alle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni, politica sociale e sviluppo regionale. Purtroppo i finanziamenti destinati all’attuazione di queste politiche si disperdono in mille rivoli. L’attuale programma Cultura dell’UE (2007-2013) ha un bilancio complessivo di 400 milioni di euro da investire in attività culturali (settore audiovisivo escluso). Gli obiettivi sono: sensibilizzare e promuovere la conservazione dei beni culturali che rivestono un’importanza non solo per una regione o un paese, ma per tutta l’Europa; sostenere gli operatori del settore culturale che desiderano soggiornare e lavorare in altri paesi europei; facilitare la libera circolazione delle opere e dei prodotti culturali e artistici nell’UE; stimolare il dialogo tra culture diverse. Il futuro programma “Europa creativa” (2014-2020) dovrebbe avere un bilancio di oltre 500 milioni di euro e varare un sistema di garanzie dei prestiti con 210 milioni di euro per incoraggiare le banche a concedere finanziamenti alle piccole imprese attive nel settore culturale.

In ultima analisi l’iniziativa più conosciuta e apprezzata, almeno a livello di istituzioni locali, è stata finora quella denominata “Capitali europee della cultura”. Ogni anno 2 città sono nominate capitali europee della cultura. Le città prescelte hanno l’opportunità di celebrare la loro identità europea, migliorare la cooperazione con gli enti culturali nazionali e stranieri e, più in generale, risvegliare la loro vita culturale. Si tratta indubbiamente di un progetto utile, che serve a rinsaldare i legami tra i popoli di questa grande casa comune in cui ormai tutti noi europei abitiamo; ma va anche detto che tutte queste iniziative “a macchia di leopardo” rischiano di restare progetti velleitari o manifestazioni poco più che folkloristiche se non si accelera l’unione politica dell’Europa, la Confederazione degli Stati membri. Inutile girarci intorno, il vero problema è tutto lì.

 

 

 

 

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