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Ipermodernità: Tiziano Toracca dialoga con Raffaele Donnarumma

Raffaele Donnarumma insegna Letteratura italiana contemporanea all’università di Pisa. È autore tra l’altro di Gadda modernista (ETS, 2006) e Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo (Palumbo, 2008).

Martedì quattro novembre ho intervistato Raffaele Donnarumma in merito al suo ultimo libro, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, edito dal Mulino nel 2014. Si tratta di un libro importante. Lo dimostrano, da un lato, gli accesi dibattiti che ha suscitato nella critica militante italiana e i numerosi interventi che lo hanno discusso [1], anche recentemente (l’autore è stato peraltro recentemente intervistato anche su Radio 3, nel corso di Fahrenheit [2]) ; dall’altro lato, la sua ambizione di tracciare un quadro «sintomatico» della narrativa contemporanea proponendo una categoria critica con cui interpretare il presente in senso contrastivo o nuovo rispetto al postmoderno. Ipermodernità, realismo e postmoderno sono i temi principali con cui si misura Donnarumma. Salvo l’introduzione e la conclusione, Ipermodernità raccoglie e rielabora una serie di interventi pubblicati tra il 2003 e il 2011: una riflessione più che decennale dunque, rivolta soprattutto a discutere le modalità di rappresentazione della realtà e il ruolo della letteratura dalla metà degli anni Sessanta in avanti.

Un punto fondamentale del tuo libro, anche per capire da quando comincia il presente, è questo: la modernità non ha conosciuto un dopo. Scrivi infatti nel capitolo III: «ogni discussione sullo stato della cultura del secondo Novecento ruota intorno a questa tema, e al peso che si intende attribuire alla mutazione che, in Italia, coincide con il boom economico. Essa è (per chiarire da subito e anticipare la mia interpretazione) non una frattura, ma una nuova fase» (p. 100). La questione dell’uscita o meno dalla modernità, se cioè gli anni Sessanta abbiano costituito una frattura o abbiano soltanto aperto una nuova fase, mi sembra la discussione principale su cui si sono battuti in passato, da posizione molto diverse appunto, Romano Luperini e Remo Ceserani.

Certo. È una questione su cui si è discusso anche negli ultimi anni. Lo stesso Ceserani ci è tornato sopra, proponendo di sbarazzarsi del nome di postmoderno, per sostituirgli quello di modernità liquida, tratto da Bauman. Al tempo stesso però, ritiene che non si possa tornare indietro alla modernità. Anzitutto l’oggetto del mio discorso non è la modernità o la postmodernità in generale ma quello che succede specificamente nel campo letterario. Dico questo (e non è una dichiarazione di modestia) perché credo che i diversi campi del sapere viaggino a velocità diverse ed è del tutto illegittimo passare da quello che succede in un campo del sapere alla storia generale, in una specie di storicismo in cui tutti sono allineati e cantano la stessa canzone. Questo massimalismo storicista è, per me, assolutamente illegittimo; ed è precisamente quello che è accaduto col postmodernismo. Il postmodernismo nasce anzitutto in architettura (anche se era già stato Toynbee a usare il termine, ma senza successo); di lì, si espande a categoria generale di una condizione storica generale, ma in questo espandersi c’è un abuso. Il congedo dalla modernità è stato in realtà un wishfull thinking, o una pia illusione: dalla modernità non siamo mai usciti.

E ora? Cosa caratterizza questa fase della modernità?

Quello che ci si ripresenta ora è una specie di modernità unilaterale, impazzita, cioè eccessiva e ansiogena. Le ossessioni della modernità (come quella del nuovo) ci si ripresentano come inevitabili e routinarie, e insieme sono venuti meno i correttivi che la modernità aveva pensato: non c’è più nessun orizzonte rivoluzionario, non abbiamo utopie, l’altro è insieme un fantasma terribile e qualcosa pronto a dissolversi nel niente.

Cosa è avvenuto, allora, specificatamente, nel campo letterario?

Anzitutto, c’è un’evidente uscita dalle parole d’ordine del postmoderno; anche se alcuni hanno opposto molta resistenza a questo mutamento. Soprattutto alla fine degli anni Zero, quando si è discusso di nuovi realismi e di fine del postmoderno, il contrasto di idee è stato molto accesso, e c’è stato chi ha respinto i nuovi realismi come un fenomeno di mercato, rozzo e attardato, proprio per affezione alla doxa postmoderna. Mi è sempre sembrata una risposta ideologica: non vedo proprio come Saviano e Calvino, o Roth e Pynchon, o Carrère e Perec possano essere letti sotto la stessa categoria storiografica e interpretativa. Quello che in primo luogo mi interessa sottolineare è un mutamento di poetiche letterarie e di prassi di scrittura, e poi un mutamento più generale dell’immaginario e delle posizioni intellettuali. Quello che è cambiato è l’atteggiamento rispetto a problemi che sono problemi di più lungo corso e, senza dubbio, erano posti già dalla cultura postmoderna. Credo che Ceserani abbia equivocato su questo: ha pensato che io volessi parlare di una frattura epocale, mentre al contrario stavo sostenendo una visione più continuista della storia (la modernità non si è conclusa) e più discontinua quanto ai singoli saperi (la letteratura e le arti di oggi non sono quelle di quarant’anni fa).

L’ipermoderno, scrivi, rappresenta il congedo dal postmoderno (da un’epoca culturale corrispondente alla postmodernità), e dunque designa un atteggiamento culturale nuovo. Il postmoderno, tuttavia, non ha coinciso con il postmodernismo: quali altri atteggiamenti o correnti allora hanno convissuto insieme in quel periodo?

Io distinguo tra un postmodernismo in senso proprio, quello statunitense, e un postmoderno come clima culturale che si sviluppa in larghissima parte del mondo, dall’Europa al Giappone. Faccio questa distinzione perché le due cose funzionano in maniera diversa: il postmoderno italiano ad esempio ha caratteri tenui e deboli rispetto allo statunitense. Il postmodernismo statunitense, in particolare, è dichiaratamente antimodernista e antiavanguardista; quello italiano non svolge mai una vera e propria polemica frontale contro il modernismo e casomai ha il problema di uscire dall’avanguardia piuttosto che quello di combatterla frontalmente. Come dicevi, la cultura postmoderna è la dominante di questi anni; però non è la strada esclusiva. Alla sua nascita ci sono almeno altre cose: c’è in primo luogo l’ondata di avanguardie in Italia e in altri paesi d’Europa, e infatti il postmoderno nasce in concomitanza con la neoavanguardia, da una costola della neoavanguardia…

Ti riferisci alla distinzione tra l’ala destra e l’ala sinistra della neoavanguardia?

Sì, certo. L’ala sinistra, quella di Sanguineti e Balestrini o Pagliarani, è più legata a un’idea modernista di letteratura. Il postmoderno nasce invece dall’ala destra, dall’avanguardia proposta da critici come Barilli e Angelo Guglielmi, e da scrittori come Manganelli o Arbasino. È da lì che nasce propriamente il postmoderno italiano; e il suo primo momento sta nell’uscire dall’avanguardia in quanto logica estremizzata della modernità. Ma oltre a nascere dal di dentro dell’avanguardia, il postmoderno in Italia è anche un effetto dell’avanguardia sull’esterno: il caso più evidente è forse Calvino, ma si potrebbero fare i nomi di molti altri scrittori che cambiano anche per suo effetto, Montale in testa. Oltre alla avanguardia e oltre al postmoderno, l’altro attante sulla scena a metà anni Sessanta è una nuova ondata di modernismo. Lo si vede bene soprattutto in poesia: la migliore poesia italiana della metà degli anni Sessanta fino insomma a tutti gli Settanta è una poesia modernista. Mi riferisco a poeti come Sereni, come Luzi dopo Nel Magma, come Zanzotto dalle IX Ecloghe in poi, come certo Caproni; oppure penso al Bertolucci di Viaggio in Inverno, Raboni e Giudici; persino a Pasolini da Poesia in forma di rosa. Questi sono autori che spesso si rifanno esplicitamente e letteralmente agli eroi del Modernism, come Eliot e Pound, oltre che a Montale fra Ossi e Bufera. E poi, c’è non un quarto attante: una vasta zona che non è propriamente né modernista né d’avanguardia né postmoderna, in cui stanno scrittori che in certo modo continuano la tradizione del romanzo sostanzialmente realistica con qualche aggiustamento e con qualche punta.

Bassani?

Bassani e Cassola, per citare autori spesso oggetto di polemica in quegli anni; ma anche Moravia e, per salire più in alto, Elsa Morante. La qualità di questi scrittori è molto diversa; e in ogni caso, compongono un panorama piuttosto ampio e che non può essere visto né certo come avanguardia, ma neppure come postmoderno o modernismo. Qui le novità, quando ci sono, sono di natura reattiva: pensa a Moravia dalla Noia in poi. Questi scrittori, insomma, possono rispondere alle provocazioni dell’avanguardia o alle sperimentazioni del modernismo o alle combinatorie del postmoderno, ma di fatto continuano un percorso che viene da prima, va oltre e continua ancora oggi.

Nel capitolo I, dedicato appunto al Postmoderno italiano, scrivi: «perché il postmoderno italiano acquisti la sua fisionomia completa, occorre attendere il principio degli anni Settanta. Da allora, infatti, si pone esplicitamente un problema che nella prima fase era presupposto solo implicitamente, o addirittura in negativo: il rapporto fra cultura alta e cultura di massa» (p. 42). Nel capitolo I, dedicato appunto al Postmoderno italiano, scrivi: «perché il postmoderno italiano acquisti la sua fisionomia completa, occorre attendere il principio degli anni Settanta. Da allora, infatti, si pone esplicitamente un problema che nella prima fase era presupposto solo implicitamente, o addirittura in negativo: il rapporto fra cultura alta e cultura di massa» (p. 42).

La prima vera svolta è quella segnata dal boom economico, ovvero da quello che Pasolini chiama mutazione antropologica o genocidio culturale e che per Calvino è la rivoluzione delle menti. Questo mutamento radicale del panorama antropico italiano impone una ridefinizione della cultura e dei ruoli intellettuali. Le risposte possono essere molto diverse, persino opposte: i nomi stessi di Pasolini e di Calvino lo dimostrano.

La rivoluzione delle menti, in Calvino, tocca anche la questione dell’esplosione della biblioteca e la necessità di costituirsi una biblioteca ideale?

Sì c’è anche questo problema, ma prima ancora c’è un problema molto più generale che riguarda il posto che la letteratura può occupare in una società e in una cultura di massa realizzate. La televisione italiana inizia a trasmettere nel 1954; e la maggioranza degli intellettuali o si rifiuta di guardarla davvero, o la subisce come un segno di imbarbarimento e, soprattutto, di esautorazione. In ogni caso, si rendono conto che di fronte a questo stato di cose la letteratura va ripensata. La risposta che dà il postmoderno, soprattutto all’inizio, è sostanzialmente questa: quanto più la letteratura si interna nei propri meccanismi e diventa se stessa, tanto più può dire qualche cosa. È un meccanismo di autolegittimazione e di autoinvestimento che scatta precisamente nel momento in cui l’investimento esterno vacilla o scompare. Ma la scommessa, io credo, viene persa. Forse il caso più interessante è proprio quello di Calvino, che si è posto questo problema nella maniera più lucida. Se Calvino è anche lo scrittore che si è messo nei vicoli ciechi più stretti e alla fine bui è perché, come dimostra tutta la sua produzione dalle Cosmicomiche in poi, per lui il problema di mettere in relazione il mondo scritto con il mondo non scritto è un problema aperto, in fondo senza soluzioni. È questo Calvino aporetico che mi interessa, più che l’immagine consolante del maestro di razionalismo ad uso delle coscienze turbate della Repubblica. Pasolini invece si mette su tutta un’altra strada, una strada che non è assolutamente postmoderna, anche se si confronta costantemente sia con i temi della cultura postmoderna sia con le figure della letteratura postmoderna, come per esempio succede in Petrolio o in Trasumanar e organizzar. Credo allora che quello che accade sia questo: anzitutto, emerge la necessità di ridefinire il ruolo e la funzione della letteratura in un campo ostile, cioè nel campo della società di massa e del declino degli intellettuali legislatori (perché è vero che quella è l’ultima generazione di intellettuali legislatori, ma è precisamente la generazione che si misura con la crisi). Nasce così lo scrittore che, senza credere più davvero a una qualche missione educativa di ordine propriamente politico, si legittima mettendoci costantemente sotto gli occhi la sua perizia di scrittore. In fondo, il grande apparato citazionale dispiegato dai postmoderni è anche questo: una retorica di autoinvestimento e di autopromozione di fronte al timore della sordità dei barbari. Dopo questa generazione, negli anni Ottanta, non si pone più il problema della legittimazione della letteratura perché viene legittimata dal mercato; e neppure si pone più il problema dell’intellettuale legislatore. Forse è Tondelli che l’ha detto con più esplicitezza: Tondelli voleva essere un narratore di storie e non assolutamente un critico, un ideologo o uno legato a qualche retroterra politico o partitico.

Per Calvino, in particolare, la rottura decisiva che costringe a ripensare la funzione dell’intellettuale, è quella tra letteratura e politica. Tuttavia, tu insisti anche sul Calvino ammiratore di Manganelli, in particolare di Hilarotragoedia, sullo scrittore che cerca di evadere dagli schemi del realismo e che prepara in qualche modo l’ideologia del racconto per il racconto (cfr. cap. I, pp. 31-37).

Sono due, infatti, le cose da cui Calvino prende le distanze: la politica e i modi della letteratura realistica. Anche per questo, trovo sia equivoco e fuorviante parlare di ‘impegno postmoderno’. Anzitutto, la categoria di impegno non regge più. L’impegno in senso proprio prevede un preciso mandato da parte delle masse per il tramite di un partito, e questo legame è abbandonato da tutti, persino da quelli che negli anni del postmoderno sono i più vicini all’azione politica. E poi, c’è un pregiudizio diffuso nella cultura e nella critica italiana per cui si è tanto abbacinati dalla metaletteratura e dall’autoinvestimento, quanto si sente il bisogno di giustificare la letteratura su un piano di impegno civile, o almeno genericamente civile ed educativo. In questo modo, si disconosce che alcuni – seppure pochi – scrittori rifiutano esplicitamente ed orgogliosamente l’impegno (Manganelli è quello che lo fa con più ferocia e con più intelligenza); e che tutti gli altri si trovano in cattivissime acque. Non è che Calvino o Eco o Tabucchi vogliano completamente rescindere il legame tra letteratura, società e mondo; però hanno enormi difficoltà e sopratutto non riescono in nessun modo a parlare direttamente della storia presente. Tutt’al più possono mettere insieme tutto un armamentario di figure in cui la storia presente è adombrata da allusioni e allegorie, ma non è oggetto di conoscenza diretta e tanto meno di intervento. Tutto il dilagare di narrazioni complottarde e di congiure di quegli anni parla proprio di questo: del fatto che per la letteratura la realtà è diventata indecifrabile e, quando si proponga una qualche soluzione al mistero, è la consolazione abbacchiata di chi è stato a guardare, e ci è arrivato troppo tardi.

Le categorie, on dit, congelano piuttosto che descrivere il presente e più in generale fenomeni complessi. Cosa ne pensi?

Effettivamente alcuni hanno una avversione molto radicale per le categorie della storiografia letteraria. In primo luogo è un’opposizione che mi fa un po’ sorridere, visto che non la trovo immune da un certo opportunismo: quegli stessi che combattono contro alcune categorie ne assumono senza batter ciglio altre che sono persino più oltranzistiche e massimaliste. Chi non vuole parlare di ipermoderno, modernismo o postmoderno non ha nessuno scrupolo a parlare di romanticismo, di barocco o di umanesimo. Oppure, peggio ancora, di romanzo: che è una categoria ancora più fagica delle precedenti perché le altre hanno almeno limiti cronologici e si fondano su una logica insieme inclusiva ed esclusiva; invece romanzo diventa il nome di qualunque narrazione abbastanza lunga, prodotta sotto qualunque cielo e in qualunque landa della terra, in una lieta bancarotta di qualunque distinzione. Invece, la forza di una categoria sta nel tracciare dei confini oltre i quali non vale più. Quindi bisogna decidersi: o nessuna categoria generale, oppure le categorie generali servono in quanto le si può circoscrivere. Naturalmente è una bella fatica, ma è la fatica che ho deciso di fare. In secondo luogo c’è una questione di postura: per molta critica fa chic rifiutare le categorie generali visto che le puzzano terribilmente di manuale. Questo rifiuto pone in una posizione, come dire, di chi ‘la sa più lunga’, di chi non cade nelle semplificazioni.

Il punto è proprio questo: la semplificazione.

La semplificazione da manualistica scolastica è un genere al quale certa accademia guarda con disdegno, sufficienza o benevolenza paternalistica. Ora, e prima di tutto, i manuali sono una cosa molto difficile, sacrosanta e necessaria. Inoltre, una categoria funziona in un modo specifico, cioè quando vede insieme l’unità e la molteplicità. Certo, se queste categorie fossero l’intruppamento di tutti sotto la stessa bandiera sarebbero completamente illegittime e inservibili; ma se al contrario sono categorie che disegnano un panorama di figure diverse, allora sono categorie utili e anzi indispensabili. Ci sono poi due problemi ulteriori e tra loro legati: il generale discredito che la storiografia letteraria ha subito in clima postmoderno; e la stanchezza che ha provocato la stessa categoria di postmoderno, che ha finito per prendere dentro troppe cose. È una stanchezza che si sente soprattutto nei suoi paladini: penso per esempio a Ceserani, che è stato fra quelli che hanno scritto di più e meglio per farci capire cosa fosse il postmoderno.

Scrivi: «compito dello storico letterario è individuare un campo di problemi comuni, per lasciare che le singolarità rispondano a modo loro». L’orientamento mantiene una dimensione insieme interrogativa e persuasiva, è così?

La categoria generale è la domanda che viene posta dall’interprete. L’interprete si sforza di capire di che cosa si stia dibattendo e qual sia il nodo della discussione. Una volta capito questo, il suo compito è mostrare quale siano le risposte, con le loro divaricazioni e i loro contrasti. Se non ci fosse questo terreno comune, non potremmo parlare di null’altro se non di monadi irrelate – e non credo sarebbe così utile. I singoli sono oggetto della nostra pietas perché non sono soli. E come diceva il buon Aristotele, si conosce per somiglianza e per differenza.

C’è una tua frase (l’ho recuperata dalla discussione su Nazione Indiana di qualche anno fa) che mi convince sempre molto: Chi nega che il realismo sia, come ogni scrittura, una costruzione, un codice, una convenzione? Ma è un codice che ha delle pretese: anzitutto, quella di dare forma alla nostra esperienza del quotidiano. A me pare che il problema sia stato e continui a essere un continuo spostamento del discorso: dal realismo si finisce sempre per discutere di che cosa sia la realtà. E poi, a dirla tutta, si finisce sempre altrove: forse, rispetto ai tuoi ‘critici’, hai semplicemente una diversa concezione del ruolo della letteratura e della sua relazione con la vita.

Bisogna distinguere per bene i piani. In genere, parlo di realismo nel senso di tecniche di scrittura e di rappresentazione codificatesi per lo più durante l’Ottocento (anche se, naturalmente, possiamo risalire al novel del primo Settecento inglese). Quindi, parlo di una retorica; e penso che non ci sia più libertà nello scrivere un romanzo realista che un sonetto petrarchesco (semmai, c’è una libertà diversa). Ma a differenza di altre retoriche, il realismo ha la pretesa di essere trasparente: sia nel senso che è una retorica attraverso la quale bisogna guardare, e che cerca di assottigliare e rendere poco percepibili i suoi artifici; sia nel senso che il mondo possibile che costruisce è sempre misurato sul metro dell’esperienza quotidiana. Sulla Realtà con la R maiuscola, ciascuno è libero di credere quello che vuole: non è di questo che discuto. Trovo che spostare il discorso dalle tecniche della rappresentazione e dalla loro retorica persuasiva alla Realtà e alla metafisica della Realtà non aiuti per nulla; e sarebbe insensato ignorare che il realismo, per come si è costituito storicamente e per l’eredità che ha lasciato, ha sempre a che fare con la bruta materialità o con la prosa del mondo. Per questo, non posso fare mie nemmeno le ipotesi di realismo allargato (ne ha scritto di recente Alberto Casadei in Letteratura e controvalori): sarebbero poco utili ai fini del mio discorso. E infine, quando parlo di realismo non intendo nemmeno le pratiche della mimesis letteraria, che, per come le intendono Platone e Aristotele, sono un terreno più vasto del realismo e alla fine categorialmente distinto da esso. Il realismo introduce in letteratura il problema dell’empirico, dell’accidentale, del transeunte, cioè tutta una serie di cose che la Poetica sottraeva alla poesia e delegava alla storiografia (e il risultato era, all’opposto di quanto pensiamo noi, che la poesia è più vera della storia). Invece il problema del realismo è precisamente quello del qui e ora concreto e determinato. Il dibattito sui nuovi realismi è stato concomitante con l’Auerbach Renaissance; ma mi spiace ammetterlo: il richiamo a quel libro straordinario che è Mimesis e che infatti, nel titolo originale, non menziona nessun Realismus, rischia di fare più confusione che chiarezza.

Quando parli di nuovi realismi (e quello che descrivi e che parte dagli anni Novanta, è un panorama internazionale e non certo provinciale, cfr., pp. 61-62), sostieni che c’è una fiducia nuova nel racconto come strumento di analisi della società, del mondo interiore, del mondo materiale; soprattutto, specifichi: «le loro storie vanno prese per buone, cioè per vere, anche se sappiamo bene che si tratta di finzioni». In questa nuova letteratura (e sono davvero molti gli scrittori che indichi), avviene una vera e propria riconciliazione tra la volontà di parlare del mondo e la consapevolezza autoriflessiva della letteratura; una conciliazione che ricorda il senso più profondo della poetica modernista (che infatti tieni presente).

La brutale semplificazione che viene fatta dagli oppositori del realismo, e per cui il realismo sarebbe la fiducia ingenua o arrogante di dire le cose come stanno, mi stupisce tutte le volte che ci sbatto il naso. Il realismo è sempre stato perfettamente consapevole della propria capacità illusionistica. La cosa interessante, piuttosto, è vedere quali sono gli scrittori che hanno rivendicato oggi una qualità realistica della loro scrittura. Ci sono due casi opposti ma entrambi significativi. Il primo caso è quello di Saviano. Saviano rivendica una parola diretta contro l’eccesso di mediazioni letterarie postmoderne. Qui, il realismo viene promosso da uno che sta fuori dal campo letterario (è quello che Bourdieu definirebbe un nuovo entrante). Saviano viene dal giornalismo e non è neanche un intellettuale di formazione umanistica tradizionale. Cortellessa ha dimostrato che fra i suoi primi tentativi c’è stata una scrittura molto letteraria; ma ci ha fatto anche capire che Saviano diventa se stesso quando rinuncia a quelle idee. La novità, insomma, la porta dall’esterno del campo letterario. Il secondo caso, ma molto più sottile e a tratti ambiguo, è quello di Walter Siti. Con Il realismo è l’impossibile (e non: “il realismo è impossibile”) rivendica l’illusionismo e il carattere gnostico del realismo (suo, anzitutto). Tutto al contrario di Saviano, Siti ha scritto questo saggio quando era ormai uno degli scrittori italiani più affermati e riconosciuti ai piani alti della cultura; inoltre, è forse l’unico romanziere italiano che abbia una formazione teorica e critica tanto forte e irrefutabile (non a caso uno il suo primo libro si intitolava Il realismo dell’avanguardia). Quindi, può fare professione di fede realistica o chi viene da fuori (per una sorta di verginità) oppure, al contrario, chi è talmente scaltrito e scafato da potersene infischiare dei pregiudizi contro il realismo, e anzi da poterli giocare a proprio vantaggio dandosi un po’ l’aria del Bastiàn Contrario. Per il resto, gli altri scrittori italiani provano spesso un vistoso fastidio a sentirsi dare dei realisti, appunto perché temono di passare per dei rozzi passatisti, o dei cronachisti incapaci di rispondere all’appello del facce sognà.

Il tuo libro fa un tracciato in cui si nota la progressiva affermazione della categoria di ipermoderno. Essa arriva cioè attraverso nuove forme di realismo e in una pluralità di modi. In particolare tu discuti di una ‘svolta narrativa’ e di seguito, di una ‘specificità italiana’. Che cosa intendi?

Chiarisco innanzitutto due problemi. Da una parte, il realismo è diventato una delle questioni centrali, tra l’altro anche nella discussione critica letteraria: basti pensare ad esempio a un libro importante come quello di Federico Bertoni (Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi 2007). Dall’altra parte, c’è la questione della continuità del modernismo, che anche se in fasi molto diverse ha attraversato tutto il Novecento per arrivare sino a noi. Sono due correnti distinte, persino opposte per larghi tratti, ma quello che si realizza nella letteratura ipermoderna è la loro tendenziale confluenza.

A questo punto allora, puoi chiarire che tipo di realismo è quello ipermoderno? C’è una contraddizione decisiva al suo fondo, che scaturisce, mi pare, dal «tono che il realismo assume passando attraverso il postmoderno». «La contraddizione ipermoderna», scrivi discutendo il reportage sulla guerra in Afghanistan di Langewiesche, Predatori (2010), «sta appunto nel divario tra un mondo che la tecnica ha reso così opaco e incontrollabile da revocare la nostra responsabilità di individui e il dovere di scegliere e decidere comunque» (p. 218)

Anzitutto è un realismo consapevole di essere, come scrive Siti all’inizio di Troppi paradisi, «un soufflé pronto ad afflosciarsi in una poltiglia di finzione». Il realismo ipermoderno combatte contro la derealizzazione che avverte come una minaccia costante. Fa l’opposto di quello che faceva il postmoderno: quest’ultimo incrementava il senso di derealizzazione e di vertigine ermeneutica; l’ipermoderno cerca di frenare questa vertigine e di strappare al proliferare delle storie qualche cosa di credibile. Per questo molte scritture ipermoderne si confrontano direttamente con la difficoltà di interpretare le immagini e le notizie, e cercano in qualche modo di dare prove ulteriori alla loro affidabilità. Per esempio, ci sono molti reportages, come quelli di Littel, o di Vollmann, o dello stesso Saviano, in cui il problema è sempre, anche in maniera molto esibita, quello di rendere credibile ciò che invece è sospetto di non esserlo. Quello che identifica il realismo ipermoderno è proprio questo sforzo caparbio di guadagnarsi un’udienza.

C’è anche un altro elemento che caratterizza la letteratura ipermoderna?

Sì, è una specie di superstizione della realtà. Prendi il caso più difficile, quello, ancora una volta, di Siti, o in genere dell’autofiction, la scrittura che più di tutte sembra giocare a inquinare la distinzione fra vero e falso. Invece, questo inquinamento può essere prodotto proprio per una specie di ossessione e di feticismo per la cosa reale in quanto tale: se non ci fosse l’esibizione delle cose che si sanno essere vere, non ci sarebbe neppure, a contrasto, l’invenzione romanzesca. Questo attaccamento all’empirico e a ciò che è riconosciuto come reale è estraneo ai romanzieri ottocenteschi, per i quali inventare è un diritto sottoposto alle regole del plausibile, ma inalienabile e indiscusso. Per gli scrittori di autofiction, invece, la fiction prende la veste della menzogna, proprio perché cozza con il regime di sincerità che sarebbe chiesto all’autobiografia.

Questa paura di una completa e diffusa derealizzazione, questo fantasma quotidiano d’irrealtà, però, sembra essere una specificità italiana: una caratteristica ‘mediatica’ che ricade sul modo stesso in cui si recupera la tradizione del realismo. Tu stesso scrivi al principio del cap. IV (p. 165): «Se infatti ciò a cui si assiste all’estero è una straordinaria rinascita del romanzo, nella conciliazione di eredità ottocentesca e modernismo, ciò che identifica il panorama nazionale è la rilevanza di libri che propriamente non possiamo definire romanzi. Non che si sia smesso di scrivere questi ultimi: ma sembra proprio che in Italia si possa giungere a nuove forme di realismo per altre vie».

Credo che sia così, in effetti. Non si ha questa impressione a leggere la grande narrativa che si è affermata in tutto il mondo a partire dalla metà degli anni Novanta: Roth, Munro, Coetzee, Cunningham, Yehoshua, Littell…

Bolaño…autore di cui parli diffusamente come autore di transizione, insieme a Siti e Wallace (pp. 109-117)…

Il caso di Bolaño è più sottile; ma direi che neppure Bolaño sente il bisogno di esibire una realtà riconosciuta e dichiarata come tale dai media. Quando inizia a scrivere, ha già spiccato il salto dalla cronaca: pensa alla Santa Teresa di 2666 e a Ciudad Juárez. Questi scrittori, infatti, si muovono con la libertà d’invenzione che il romanzo conosce dal Settecento. Invece nella letteratura italiana si percepisce molto di più la necessità agonistica di strappare la realtà all’irrealtà dominante.
Certo, non mancano fenomeni analoghi in altri paesi: penso alla diffusione di quella che si chiama biofiction, narrazioni di vite cioè insieme vere e romanzate; o al caso, in Francia, di Carrère. Tuttavia, è soprattutto in Italia che c’è questa angoscia. Del resto siamo reduci dal ventennio berlusconiano, cioè dal ventennio delle favole al potere; che per altro non è affatto sicuro sia finito.

Uno dei paragrafi più belli e convincenti del tuo libro, a mio parere, è infatti il paragrafo intitolato La verità del falso (pp. 176-180). Gli scrittori italiani di cui ti occupi e che citi (soprattutto Saviano, Franchini, Siti, Moresco, Frasca, ma anche Albinati, Affinati, Nove, Trevi, Covacich, Sortino, Arminio e molti altri) cercano di fondare una verità narrativa ma lo fanno in maniere differenti. Ci sono delle costanti?

Le costanti sono anzitutto la rivendicazione e la messa in luce della voce narrativa. Questa riabilitazione del soggetto è una netta inversione di tendenza rispetto al postmoderno.

In che modo?

Siamo passati dal «come scriverei bene se non ci fossi», la frase che Calvino attribuisce a Silas Flannery in Se una notte d’inverno un viaggiatore, all’«io so» di Saviano; ma al di là di Saviano, tutta questa narrativa istituzionalizza la presenza necessaria di un soggetto mediatore. Anche Siti, dopo aver abbandonato l’autofiction, ha comunque sentito la necessità di mettere in scena se stesso come mediatore narrativo. Pensa a Resistere non serve a nulla: Walter compare come colui che scrive per i propri lettori la storia del protagonista Tommaso. È quello che ha fatto tante volte Philip Roth, mettendo in scena un proprio alter ego, Zuckermann, o se stesso come narratore. La narrazione non è un atto spontaneo: è un atto posto en abyme, e non per il gusto metalettario di costruire scatole cinesi che distanziano il racconto sino a sperderlo nelle nebbie dell’ironia. Al contrario, l’enfasi cade sul fatto che non esiste racconto senza un soggetto determinato che lo articola, e sul fatto che qualcuno deve assumersi la responsabilità della parola a carte scoperte. Questo è un elemento comune a tutti questi scrittori.

E quali sono in linea di principio le maggiori differenze?

In primo luogo, c’è un rapporto molto diverso con l’invenzione: c’è chi rivendica il diritto all’immaginazione romanzesca; chi esercita quel diritto, ma come se fosse il puntiglio irridente della menzogna (è il caso di certa autofiction, come dicevamo prima); e chi, invece, si mette proprio fuori della fiction e del romanzo. E poi bisogna distinguere tra due istanze che sono quasi sempre compresenti, ma che in linea di principio sono diverse: quella documentaria da un lato, e quella testimoniale dall’altro. Per di più, non tutti usano i documenti allo stesso modo: alcuni, come Franchini o Janeczek, lo fanno in maniera molto esplicita; altri, come Saviano, non sono così puntuali nella dichiarazione delle fonti, e puntano più su un effetto-documento (sebbene il testo sia costruito in modo che il documento venga preso sul serio). Il documento rientra in una retorica della realtà empirica, data, e che si presenta però sotto forma di scrittura pubblica (lo ha spiegato bene Maurizio Ferraris); la testimonianza ispira invece una retorica che si emancipa dall’empirico e pretende alla verità (e questa volta il mio riferimento è Giorgio Agamben).

Ti riferisci a Moresco?

A lui come a tanti altri. E per fare un esempio controintuitivo, ancora una volta a Siti. Del resto Siti lo ha dichiarato esplicitamente: tutto le menzogne, i trucchi e le alterazioni cui sottopone la realtà gli servono per dire cose che altrimenti non potrebbe dire. La falsificazione e l’inganno sono un alibi per far passare una verità di grado ulteriore. Per cinico e nichilista che possa apparire, Siti ha un bisogno persino disarmante e infantile di dire cose vere. In alcuni scrittori le carte sono molto più scoperte. Moresco, con tutto il suo orgoglio dell’invenzione visionaria e la sua mitopoiesi, è uno scrittore che potentemente vuole dire la verità, staccandosi del tutto da un piano documentario (difatti non è per nulla uno scrittore realistico). Invece, uno scrittore come Saviano cerca di conciliare le due cose: un piano di attendibilità documentaria e un piano di verità testimoniale. I gradi sono molto diversi, dunque, ma ci muoviamo dentro problemi che sono comuni.

Molti dei libri italiani che citi, tuttavia, sfuggono a una categorizzazione precisa. In particolare, tu dici, non sono dei romanzi, si fa fatica a definirli in questi termini, sfuggono a quella tradizione. Perché?

Difatti: spesso questi libri si mettono fuori dalla tradizione del romanzo o la forzano. Non che non si facciano più romanzi, ovviamente: anzi, anche in Italia negli ultimi anni ha preso piede una generazione di romanzieri senz’altro bravi, da Lagioia a Covacich (comunque molto tentato da autofiction e autobiografia). C’è però tutta una serie di scritture che cercano di uscire dal romanzo: chi dice che Gomorra è un romanzo, ne fraintende completamente la natura; chi definisce romanzo Lettere a nessuno di Moresco finisce per nascondere l’originalità di quel libro; né finora ha mai scritto romanzi (neppure con il Libro della gioia perpetua) uno dei prosatori di oggi che mi piacciono di più come Trevi.

E che cosa sono? Dei gesti?

Sono scritture che cercano di uscire dall’obbligo alla finzionalizzazione. Se c’è una cosa che ha sempre identificato il romanzo è questo: il diritto di simulare, di inventare. Queste scritture invece voglio dire la verità: il che non vuol dire né che siano meno mediate e consapevoli dei propri artifici, né che siano timide o impotenti perché incapaci di volare con la fantasia (appunto Trevi ha scritto con ironia e intelligenza su questo tema). Direi che hanno con la finzione un rapporto o direttamente polemico o comunque contrastivo e agonistico.

Mi viene in mente a questo proposito, e perciò torno indietro nel tuo libro, il confronto che fai in apertura tra Pasolini e Saviano. Che cosa li tiene insieme e che cosa invece li allontana?

Li tiene insieme un pathos della verità e un pathos della letteratura come gesto che interviene sulla realtà e la cambia. In effetti quello che identifica il realismo ipermoderno è proprio questo: che è un realismo più ‘in arrivo’ che ‘in partenza’, cioè più intento a mirare alla realtà come al proprio obiettivo, al proprio bersaglio, piuttosto che a qualche cosa da prendere come punto di partenza. Lo ha detto molto bene Carla Benedetti per Saviano. Non c’è infatti nessuna retorica del rispecchiamento: la realtà non è qualcosa che si guarda, ma qualcosa dentro la quale si è. Il realismo ipermoderno è questione più di presentificazione che di rappresentazione: vuol fare partecipare più che osservare. Quello che allontana Saviano da Pasolini, invece, è innanzitutto la superstizione della realtà di cui dicevamo: in Gomorra c’è un’attenzione alle prove e ai nomi propri che Pasolini non ha. In secondo luogo, le due posizioni intellettuali sono profondamente diverse. Pasolini è pur sempre uno che parla – e nel Romanzo delle stragi è proprio questo che rivendica – in quanto intellettuale umanistico e artista. Saviano parla in quanto persona che ha visto le cose, cioè come testimone, e in quanto persona che si è documentata.

E quindi se ne deve dedurre una diversa interpretazione della letteratura?

Pasolini è ancora dentro l’idea che la letteratura sia un sapere privilegiato e di mediazione (e un sapere, sostanzialmente, dell’universale); Saviano non si muove in questo orizzonte. Anzitutto, non è un letterato di formazione, o meglio non crede in un privilegio della letteratura e della sua tradizione né cerca lì la propria legittimazione. E poi, per quanto rivendichi di essere uno scrittore anziché un giornalista, di fatto è per ora uno specialista di criminalità organizzata: e in questo specialismo c’è, rispetto a Pasolini, un mutamento di paradigma.

Se è chiaro che l’ipermoderno è una modalità per tornare a rappresentare i conflitti e se però, è ovvio, i conflitti c’erano anche prima, mi chiedo: che cosa ha impedito di rappresentarli?

Sicuramente il postmoderno intendeva avere e in parte ha avuto un grande valore di emancipazione. Soprattutto se uno guarda ai primi anni della cultura postmoderna, quella della metà degli anni Sessanta, si vede che c’è proprio una volontà di acquisire al pensiero tutta una serie di oggetti che erano sostanzialmente tabuizzati dalle retoriche dell’impegno, oramai scadute, e da quelle di un realismo che si andava consumando. Il paradosso è che, in questo modo, il postmoderno continuava il progetto della modernità. È anche stato un momento, come dicevo prima, di autolegittimazione della letteratura e questo ha agito potentissimamente, ma, dopo non molto, ha rinchiuso la letteratura in un recinto. Se la letteratura si legittima solo di fronte a se stessa, se parla di sé e si nutre di sé, allora la si può mettere tranquillamente in un angolo dove non produrrà nessun pericolo e nessun danno. A me, invece, piace la letteratura che non sta al suo posto, e che mi toglie dal mio. Una cosa a cui tengo molto e sulla quale non c’è accordo (Luperini ad esempio la vede diversamente da me) è il fatto che il postmoderno nasca in concomitanza con una fase storica di contestazioni, lotte, proteste, conflitti, ma nasca sul suo rovescio.

Perché è tanto importante per te sottolineare che i primi libri postmoderni nascono alla metà degli Sessanta e non dopo?

In primo luogo, perché è un’interpretazione più aderente a come sono andate le cose. Il campo letterario procede su binari in parte suoi e quindi l’equazione postmoderno uguale riflusso, cioè postmoderno uguale fase successiva…

Gli anni Ottanta?

Precisamente, dal 1977 in poi. Questa equazione non è comprovata dai fatti perché le prime figure della letteratura e dell’arte postmoderna nascono al contrario alla metà degli anni Sessanta e nascono in una posizione di, come dire, rovescio o distanza da quella fase di lotta politica e sociale. Del resto, quando poi arriva il Sessantotto, che reazioni produce? L’assoluta maggioranza degli scrittori italiani, con pochissime eccezioni, lo vivono come un trauma e come qualche cosa da cui difendersi. Il Sessantotto li sovrasta e rimprovera la letteratura perché la giudica inutile: del resto uno degli slogan della contestazione è proprio quello del suicidio dell’intellettuale.

Che cosa è cambiato rispetto al passato nel rapporto tra letteratura e critica letteraria e in che modo può essere utile la critica letteraria di fronte a una letteratura ipermoderna?

In primo luogo la letteratura ipermoderna pone esplicitamente il tema del ruolo che la letteratura ha nell’agire sociale e nei conflitti. E se lo pone la letteratura, anche la critica deve farci i conti, e aggiungo, dopo tanto esoterismo scientista e tanti deliqui metaletterari, in modo salutare. In secondo luogo, l’ipermoderno tende ad avere un rapporto non pacifico con uno dei dogmi della teoria letteraria del Novecento, cioè quello dell’autonomia dell’arte. La letteratura di oggi, al contrario, è spesso eteronoma o perché si presenta come un gesto di intervento civile e morale, o perché, siccome addita con tanta insistenza il mondo di fuori, dichiara la propria insufficienza di fronte alla realtà. Se la critica parte di qui, deve riconoscere anzitutto che la letteratura non è un sapere che va promosso o difeso nel suo specialismo. Il ritornello dello specifico letterario, che andava tanto di moda, è ormai inutilizzabile, anche perché è un’ovvietà. La letteratura ha una sua specificità come ce l’hanno tutti i saperi: la medicina, l’astronomia o la veterinaria. Il problema non è rivendicare questa specificità-ovvietà, ma al contrario, prendere esempio dalla letteratura di oggi, buttando giù degli steccati e sconfinando nei campi dei vicini, e che facciano pure a botte, se occorre. Alla fine, la letteratura che ha senso è un sapere di mediazione e rifiuta di essere confinata nel proprio specialismo. In questo senso, quello che deve fare un critico letterario è anzitutto leggere la letteratura nel campo degli altri saperi, anzitutto discorsivi.

Ad esempio?

Per esempio, una cosa che non si può non fare è leggere la letteratura nel conflitto o nell’interazione con l’informazione di massa e i media vecchi e nuovi: con tutto un universo di discorsi che la letteratura ipermoderna richiama costantemente e all’interno del quale, spesso, non ha alcun ruolo privilegiato. Del resto, la perdita di privilegi non è necessariamente un lutto, ma può essere un’occasione per reinventarsi un ruolo. Trovo il rimpianto per gli intellettuali-legislatori regressivo e incapace di misurarsi con quello che richiederebbero una società di massa e una democrazia (specie se insostanziale o percorsa da bisogni autoritari). Di intellettuali critici, invece, di gente che ci faccia pensare, non ce n’è mai abbastanza.

L’ambito della letteratura contemporanea è anche il campo di battaglia della critica militante perché è l’ambito in cui si esprimono i giudizi e per l’appunto si prende parte. Quale atteggiamento dovrebbe avere secondo te un critico militante?

La critica militante è assolutamente vitale e preziosa. Però, credo che possa costituire anche un grande limite: la coazione al giudizio e al prendere parte impedisce di vedere alcune cose essenziali. La critica militante, insomma, non basta: non può assolvere a tutti i compiti di interpretazione che la contemporaneità esige. Si può avere un altro sguardo, che si smarca dalla militanza e che comunque può dirci qualcosa: precisamente, può darci una mappa di concetti e non solo di fenomeni, anche perché pretendere di catalogarli tutti sarebbe folle.

Come l’autodidatta che Roquentin incontra in biblioteca, nella Nausea…

O come Bouvard e Pécuchet. La critica può appunto individuare i problemi comuni su cui la letteratura di oggi lavora e quindi esporli alla discussione. La discussione funziona quando non è soltanto una lotta per bande (come spesso accade nella critica militante), ma quando individua i temi comuni su cui val la pena di riflettere, e alla fine, inutile girarci attorno, questi temi hanno a che fare con la nostra esperienza del mondo e del presente.

[1] Nella nota al testo, è lo stesso Donnarumma a ricordare i principali dibattiti scaturiti in seguito ai suoi interventi . Pubblicati su varie riviste, sono adesso disponibili tutti on line. Il dibattito con Andrea Cortellessa, del 2008, comprensivo dei vari botta e risposta, è disponibile a questo indirizzo. Quello con Arturo Mazzarella è disponibile a questo indirizzo. Il dibattito con Remo Ceserani, infine, si trova ricostruito qua. Tra le recensioni più importanti ricordo quella di Romano Luperini; di Valentino Baldi; quella, molto critica, di Angelo Guglielmi; e quella di Daniela Brogi.

 

[2] L’intervista si può ascoltare a questo indirizzo

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L'autore

Tiziano Toracca
Dall'ottobre 2018 è Visiting Professor presso la Ghent University, Faculty of Arts and Philosophy, Department of Literary Studies, Blandijnberg 2, 9000 Gent (Belgium).