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Carlo Pulsoni intervista Dan Octavian Cepraga

Dan Octavian Cepraga (Bucarest 1967) insegna Lingua e letteratura romena presso l’Università degli Studi di Padova. Filologo romanzo e romenista, si è occupato di poesia popolare romena, indagando in particolare le fonti cristiane dei canti narrativi e rituali romeni (colinde e canti vecchi), i rapporti con le altre tradizioni europee e le analogie con le letterature dell’Occidente medievale. Ha quindi allargato i suoi interessi alla storia della lingua romena letteraria, occupandosi in particolare della formazione della lingua poetica romena dell’Ottocento. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano i volumi Graiurile Domnului. Colinda crestina traditionala, Cluj, Clusium, 1995; Le Nozze del Sole. Canti vecchi e colinde romene, Roma, Carocci, 2004 (in collaborazione con L. Renzi e R. Sperandio); Esperimenti italiani. Studi sull’italianismo romeno ottocentesco, Verona, Fiorini, in corso di stampa.

Quest’anno la Romania sarà il paese ospite insieme alla Spagna della Fiera del libro di Torino. Qual è il quadro della letteratura rumena oggi in Italia?

È un quadro in grande movimento, direi, a testimonianza di un momento di particolare fermento per quanto riguarda le traduzioni italiane di letteratura romena. Se non ho fatto male i conti, negli ultimi due anni sono stati pubblicati in Italia una ventina di titoli romeni e, fatto ancora più notevole, si tratta per la maggior parte di opere recenti, per lo più di autori giovani, o comunque che si sono affermati sulla scena romena dopo la caduta del regime. Appartengono a questa categoria, ad esempio, nomi come quelli di Filip Florian, Florina Ilis, Doina Rusti, Dan Lungu, Florin Lazarescu, Lucian Dan Teodorovici, Adrian Chivu, e altri ancora, tutti presenti con uno, a volte due volumi in traduzione italiana. Quello che un potenziale lettore italiano ha di fronte è, quindi, uno spaccato significativo, quasi in presa diretta, di alcune delle prove più recenti della giovane prosa romena. Questa situazione è stata determinata anche dalle politiche di promozione e sostegno finanziario delle traduzioni portate avanti dall’Istituto Culturale Romeno, che hanno cominciato, anche in Italia, a dare i loro frutti.
Bisogna anche dire che, per ora, i protagonisti di questa ondata di interesse per la letteratura romena sono stati per lo più piccoli o piccolissimi editori, capaci, come spesso accade, di fare scelte più coraggiose e lungimiranti rispetto alle grandi case editrici, che di fronte alle novità si muovono di solito con più lentezza e, a volte, con miope circospezione. Penso, ad esempio, ad un editore come Aìsara di Cagliari (che attualmente ha ben 6 titoli romeni nel suo catalogo), ai pugliesi Manni e Controluce, a Nikita di Firenze, a Nottetempo di Roma, e ancora a Bonanno, ISBN, Hacca, Barbès, e ad altre piccole case editrici, che hanno puntato, coraggiosamente, in quest’ultimo periodo sulla letteratura romena. Il rovescio della medaglia è, ovviamente, la scarsa visibilità dei piccoli editori, che come è noto, soprattutto in Italia, hanno enormi difficoltà ad accedere alla promozione e alla distribuzione libraria, godono di norma di scarse segnalazioni sulla stampa periodica, hanno una presenza estremamente precaria ed effimera sugli scaffali delle librerie e non raggiungono quasi mai la grande distribuzione.
Per questa ragione, credo che sia particolarmente importante che anche case editrici di dimensioni maggiori o con una posizione più consolidata sulla scena nazionale comincino ad interessarsi agli autori romeni. Lo ha fatto, ad esempio, Fazi, che ha pubblicato Filip Florian, a mio avviso uno degli scrittori romeni più interessanti, fra quelli delle nuove leve. E un editore intelligente e con molto “fiuto” come Keller, dopo la “scoperta” del premio Nobel Herta Müller, scrittrice di lingua tedesca originaria della Romania, sta proponendo altri nomi interessanti, come Paul Goma, uno dei principali rappresentanti della dissidenza romena, o più recentemente Varujan Vosganian, scrittore e famoso uomo politico romeno di origine armena. Fazi e Keller si affiancano, in questo modo, all’attività di un altro editore di sicuro spessore, come Voland, che già da anni sta pubblicando, per le cure di Bruno Mazzoni, uno dei migliori romenisti italiani, i romanzi e i racconti di Mircea Cartarescu, tra le figure più importanti della letteratura romena attuale.
Il quadro, infatti, non sarebbe completo, se non ricordassi anche l’opera dello sparuto ma tenace gruppo di studiosi e specialisti di lingua e letteratura romena che, sia con la loro attività universitaria sia con molte iniziative editoriali, stanno cercando, già da molto tempo, di tenere vivo e di disseminare l’interesse per la cultura romena in Italia.

L’intellettuale rumena Simona Popescu ha scritto che la sua conoscenza della cultura dei paesi allora “fratelli” dell’est è potuta avvenire solo dopo la caduta del Muro di Berlino: “Prima del ’90 l’est nemmeno mi interessava. Cosa doveva interessarmi? I loro scrittori ufficiali? Gli unici tradotti… No, non mi interessavano, allo stesso modo in cui non mi interessavano per le stesse ragioni nemmeno i nostri, ufficiali, ‘conosciuti’. La letteratura di esportazione dell’Est è stata una, se non ufficiale, tollerata”. Come valuti la situazione odierna degli scrittori rumeni?

La posizione così recisa di Simona Popescu (che tra parentesi è anche una brillante scrittrice e il suo bellissimo romanzo Exuvii meriterebbe di essere tradotto in italiano) è in fondo rappresentativa dell’atteggiamento di un’intera generazione di intellettuali romeni. Giovanissimi, poco più che ventenni come la Popescu, al momento della caduta del regime nel 1989, hanno fatto in tempo a conoscere il comunismo e a vivere gli ultimi terribili anni del ceauscismo. Tuttavia, con quel regime avevano avuto a che fare soltanto marginalmente, come bambini o adolescenti, non essendo ancora entrati negli ingranaggi della vita pubblica e non avendo dovuto fare alcun compromesso con il sistema. Per gli intellettuali e gli scrittori di questa generazione, a cui per inciso appartiene la maggior parte degli autori ricordati sopra, è molto forte la tentazione di chiudere i conti con il comunismo, cioè con il mondo di prima, relegandolo in un cono d’ombra e di sostanziale disinteresse. C’è sicuramente una parte di verità nelle affermazioni di Simona Popescu: molti scrittori dell’Est, i dissidenti, gli esuli, i perseguitati, sono stati letti e conosciuti prima in Occidente che nella propria patria oltre la Cortina di ferro, dove spesso il loro nome era divenuto impronunciabile e sottoposto ad una sorta di damnatio memoriae. Tuttavia i sistemi comunisti dell’Europa dell’Est hanno attraversato una storia lunga e complessa, hanno conosciuto periodi di maggiore e di minore chiusura, e soprattutto possedevano un apparato di controllo e di censura delle attività culturali con molte opacità e zone grigie e con occasionali smagliature, che lasciavano passare, anche solo per un breve periodo, libri e idee, che difficilmente avremmo pensato che potessero circolare. Faccio un esempio: un grandissimo poeta, di respiro europeo, come il serbo, di origine romena, Vasko Popa (1922-1991), uno dei massimi autori della Jugoslavia del Dopoguerra, che con la sua poesia aveva segnato un distacco netto e inequivocabile dalla dottrina del realismo socialista, era noto in Romania fin dal 1966, nelle bellissime traduzioni fatte da un altro grande poeta come Nichita Stanescu. In Italia, un autore dell’importanza e del valore di Popa è stato praticamente ignorato fino a due anni fa, quando un mio allievo, Lorenzo Casson, ne ha tradotto e pubblicato per la prima volta tre importanti raccolte poetiche.
Questo per dire che la circolazione della letteratura e della cultura a Est e a Ovest presenta aspetti più intricati e sfuggenti di quanto possa sembrare ad un primo approccio e che spesso ci troviamo di fronte a lacune speculari nella reciproca conoscenza. Esiste piuttosto una questione più generale: l’esperienza disastrosa del comunismo novecentesco ha mutilato la storia europea, ha scavato un divario che per mezzo secolo ha tagliato in due l’Europa e ora, soprattutto in Occidente, ci troviamo a misurare non soltanto la frattura che ci ha divisi, ma anche la distanza ancora da colmare per ricollocare, a pieno titolo, in un comune orizzonte intellettuale e spirituale la grande letteratura dell’Est di questi ultimi sessant’anni. Gli scrittori romeni di oggi si trovano, per molti aspetti, al centro di questo dilemma. Da una parte vivono, anche con un certo entusiasmo, la loro ritrovata “normalità”, l’appartenenza ad un comune spazio letterario europeo, che possono ormai abitare liberi in gran parte dalle etichette di marginalità, di estraneità, di esotico, con cui venivano contrassegnati, prima della caduta del Muro, molti dei prodotti letterari provenienti da Est. Dall’altra parte, si trovano, ancora una volta, a fare i conti con il peso della storia, non solo con la recente Storia generale e collettiva, ma anche con la propria storia biografica e personale, a cavallo e in bilico tra due mondi.

Prima della caduta del regime quali erano gli autori rumeni tradotti in italiano? Quelli che continuavano a vivere in Romania potevano essere considerati come scrittori organici al regime?

Dopo l’instaurazione del regime comunista, si può dire che, almeno da un punto di vista culturale, ci sono state due Romanie, una rimasta all’interno dei confini nazionali, sottoposta ad uno dei più duri regimi totalitari dell’Est europeo, l’altra fuori, in esilio. È questa, secondo me, la giusta dimensione da assegnare all’esilio degli scrittori e intellettuali romeni dopo il 1945: un fenomeno di portata enorme, che riveste un’importanza decisiva ai fini di una giusta valutazione dello sviluppo della cultura romena nel Dopoguerra. Tuttora, tra l’altro, a più di vent’anni dalla caduta del regime, la ricomposizione di queste due Romanie non è ancora stata portata a termine, persistendo, anche se per fortuna sempre più sbiadite, zone di diffidenza e di incomprensione (si legga a proposito lo straordinario Ritorno dell’huligano di Norman Manea, tradotto magnificamente in italiano da Marco Cugno).
Era giusto e normale che, negli anni bui del comunismo, fossero principalmente gli autori dell’esilio ad essere diffusi e tradotti, in Italia come negli altri paesi occidentali, ad esempio la Francia, dove gli esuli romeni si erano rifugiati e dove si erano affermati, spesso abbandonando la propria lingua materna, come grandi scrittori o pensatori. Penso, in questo senso, al grande lavoro che hanno fatto studiosi come Lorenzo Renzi, Marco Cugno, Roberto Scagno o Mario Rigoni per diffondere anche in Italia un’immagine più vera e completa dell’altra Romania, presentando e traducendo autori come Mircea Eliade, Emil Cioran, Norman Manea e altri.
Allo stesso modo, è ora normale che si siano fatti avanti gli scrittori delle ultime generazioni, quelli che si sono formati e affermati nella Romania post-comunista e che, anche grazie alla spinta dell’Istituto culturale romeno, vengono tradotti e pubblicati in gran parte dell’Europa occidentale. In mezzo si trovano gli scrittori che hanno vissuto sotto la cappa del totalitarismo, per i quali il discorso è più complesso e delicato. Rifiuto recisamente l’idea che gli scrittori che sono rimasti a vivere e a scrivere nella Romania comunista debbano essere considerati automaticamente organici al regime. Come ho già detto, il sistema aveva un’ampia zona grigia e presentava non poche smagliature, che concedevano, a chi sapeva approfittarne, persino qualche spazio di libertà creativa. Sono esistiti certamente gli scrittori di regime, che hanno goduto di vergognosi privilegi, ricambiandoli con la subordinazione alle direttive del Partito e con la bieca adulazione del Potere. Tuttavia, molti, se non la maggior parte degli scrittori romeni sotto il comunismo hanno semplicemente resistito, hanno opposto alla ideologia del regime la propria dignità di letterati, scendendo a compromessi minimi, indispensabili per la sopravvivenza, e soprattutto continuando a produrre, in molti casi, grande letteratura. Di questa produzione si conosce molto poco non solo in Italia, ma anche altrove in Occidente e questo, a mio avviso, costituisce una grave lacuna per chi volesse ricostruire una mappa verosimile e il più possibile compiuta della letteratura europea del secondo Novecento. Se si eccettua l’opera di alcuni poeti, come ad esempio Ana Blandiana (tradotta in italiano da Bruno Mazzoni e Biancamaria Frabotta), anche in Italia ci sarebbe molto da recuperare e da far conoscere, soprattutto dei grandi prosatori e poeti che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, dopo un lungo periodo dominato dal dogma stalinista, in cui la letteratura era stata quasi completamente asservita alle esigenze della propaganda e dell’ideologia di partito, si erano conquistati, spesso da posizioni marginali e precarie, nuovi spazi per la propria creazione.

Chi e cosa suggeriresti agli editori italiani da tradurre sia tra gli scrittori della generazione vissuta sotto la dittatura, sia tra i giovani?

Come dicevo, c’è innanzi tutto molto da fare per recuperare e far conoscere i tanti scrittori di grande spessore e rilievo che sono vissuti sotto la dittatura. Penso ad un poeta raffinatissimo e cerebrale come Mircea Ivanescu, di indubitabile statura europea, o al mondo immaginario e alle preziosità fantastiche e bizantine di un narratore di grande fascino stilistico come Stefan Banulescu. Ma sono soltanto i primi due nomi che mi sono venuti in mente, sull’impulso di gusti e preferenze personali. Accanto ad essi ce ne potrebbero essere molti altri. Da poco, ad esempio, una mia allieva ha terminato di tradurre lo straordinario conte philosophique “Viata si opiniile lui Zacharias Lichter” del grande critico e storico letterario Matei Calinescu. Il libro, pubblicato in Romania nel 1969 e sfuggito miracolosamente alle maglie della censura, era stato uno dei più celebri casi editoriali della Romania comunista, un vero e proprio esempio di “dissidenza” letteraria e un modello di disobbedienza spirituale alle parole d’ordine della propaganda totalitaria. Fra gli scrittori recenti, sono invece personalmente molto affascinato dalla prosa furibonda ed espressionista, di impatto quasi céliniano, di Radu Aldulescu, che non ho ancora visto far parte della già nutrita pattuglia di traduzioni italiane della nuova prosa romena.
Credo, tuttavia, che sarebbe importante che cominciassero a circolare, accanto alle opere più recenti e contemporanee, anche alcuni dei classici della letteratura romena, sia del periodo interbellico sia della grande stagione di fine Ottocento. A parte gli addetti ai lavori, penso che per la maggior parte dei lettori e degli intellettuali italiani, anche per quelli più avveduti, la letteratura romena moderna (diciamo tra Ottocento e primo Novecento) sia una vera e propria terra incognita. Tranne poche eccezioni, mancano traduzioni ed edizioni recenti e affidabili e quelle che si trovano, a fatica, nelle biblioteche, sono fatalmente invecchiate e spesso propriamente illeggibili. Faccio un solo esempio, a mio parere clamoroso. Il lettore italiano che volesse farsi un’idea di uno dei più grandi e originali autori europei fin de siècle, il drammaturgo e prosatore romeno Ion Luca Caragiale, non avrebbe attualmente a disposizione alcuna traduzione o edizione corrente. E se anche riuscisse a scovare in qualche biblioteca la vecchia antologia del teatro romeno curata da Giuseppe Petronio, dove si trovano tradotti i due capolavori Una lettera smarrita e Una notte tempestosa, credo che ne uscirebbe molto deluso e senza un’idea chiara della reale statura e importanza di Caragiale.

Tra i giovani letterati scorgi un impegno politico o preferiscono concentrarsi dopo la vicenda del regime su una letteratura d’evasione?

In primo luogo credo che dovremmo chiarire un punto: le nostre categorie correnti di letteratura impegnata e letteratura d’evasione non possono essere applicate alla produzione letteraria dei tempi del regime. Queste categorie, in Romania, non solo non avevano senso, ma anzi si presentavano in un rapporto completamente rovesciato. L’unica letteratura politicamente impegnata che fosse pubblicamente ammessa era quella asservita alla ideologia di partito e allineata ai dettami del realismo socialista. Le sue realizzazioni erano piatte esercitazioni sui modelli del proletcultismo, turpi dal punto di vista etico e senza alcun valore letterario. Per converso, il vero gesto propriamente politico e, in fondo, l’unico praticabile per uno scrittore romeno sotto il totalitarismo, era proprio l’evasione letteraria, la gratuità lirica, la sperimentazione ludica. Dopo la fine del periodo stalinista e a partire dal momento di disgelo della metà degli anni Sessanta, saranno proprio queste categorie a rappresentare i più efficaci mezzi di resistenza etica degli scrittori romeni di fronte al regime, un modo, forse l’unico possibile, per affermare un’alterità radicale al discorso della politica e alla retorica della propaganda. Si rischia di non capire la reale portata e il senso di gran parte della letteratura scritta in Romania sotto il regime, se non si comprende il valore intimamente sovversivo di una scelta poetica che aveva come suo fondamento l’interiorità, la visione individuale, la soggettività, la sperimentazione formale. Certo, è esistita anche una letteratura di forte impegno morale e politico, ma faceva parte della cosiddetta literatura de sertar, cioè quelle opere che gli scrittori romeni tenevano nel cassetto, consapevoli del fatto che non avrebbero mai potuto pubblicarle e che, molto spesso, sono poi state scoperte e rese note soltanto dopo il 1990. A volte erano veri e propri capolavori: penso al magnifico Diario della felicità di Nicu Steinhardt (tradotto in Italia dal Mulino, per le cure di Gheorghe Carageani), oppure alla feroce satira anticomunista di Ion. D. Sirbu in Adio, Europa! .

Oggi, ovviamente, le cose sono cambiate. Tuttavia, la dicotomia tra impegno ed evasione non si è ancora completamente ricostituita e anche per i giovani scrittori romeni, mi pare, queste due categorie si trovano tuttora in un rapporto diverso rispetto alla nostra prospettiva occidentale. Mi spiego. Da una parte, lo sperimentalismo formale, il testualismo ludico, la soggettività visionaria sono ancora praticate dai giovani scrittori, e anzi godono ancora del loro antico prestigio sovversivo e, in fondo, della loro natura eminentemente etica e dissidente, di quando esprimevano l’unica vera forma di alterità rispetto alle imposizioni del Potere e della politica. D’altra parte, il realismo, la prosa di impianto naturalista e oggettivo o di forte impegno morale, viene ancora guardata con un certo sospetto, figlio dei suoi antichi compromessi con il realismo socialista e più in generale della fastidiosa contingenza con l’ossessione educativa, ed eventualmente punitiva, che permeava tutti gli aspetti della vita pubblica sotto il comunismo.
Certamente, gli scrittori delle nuove generazioni hanno aperto gli occhi sulla realtà e hanno cercato ampiamente di farla entrare all’interno delle loro opere. Tuttavia, la rappresentazione letteraria della realtà nella prosa romena contemporanea viene quasi sempre corretta da robuste dosi di soggettivismo visionario e innervata da forti torsioni metaletterarie (come, ad esempio, nel caso dei possenti affreschi post-moderni di Mircea Cartarescu), oppure declinata nei registri del comico, del grottesco, dell’anti-letterario. Sono questi anche, a mio avviso, i tratti più originali e sorprendenti della nuova prosa romena, che spesso sfuggono o restano incompresi se non vengono inquadrati nel particolare contesto storico e culturale che li ha determinati.

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