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Carlo Pulsoni intervista Gabriella De Marco

Gabriella De Marco è professore ordinario di storia dell’arte contemporanea presso l’Università degli Studi di Palermo. I suoi interessi di studiosa si sono orientati, nel tempo, principalmente sui rapporti tra arte e letteratura in Italia e in Francia tra il XIX ed il XX secolo, sulle avanguardie storiche del primo Novecento, con particolare attenzione al futurismo, sugli aspetti relativi ai materiali e alle tecniche dell’arte contemporanea. Costituisce, ancora, un ambito di suo interesse lo studio del disegno nell’arte italiana del XX secolo. Lavora, inoltre, a partire dalla metà degli anni novanta, sull’individuazione e mappatura degli archivi della cultura italiana del Novecento, occupandosi anche di informatica applicata ai beni culturali. Un altro suo nucleo d’indagine, strettamente correlato all’indagine sulle fonti, riguarda lo spoglio dei giornali a periodicità quotidiana, pubblicati in Italia nel XX secolo, intesi come materiale utile nel tracciare una storia della ricezione e della critica d’arte nell’età contemporanea, e ha pubblicato a riguardo due volumi su L’Ora di Palermo (Silvana editoriale 2007 e 2010). Nell’ambito delle sue ricerche sull’arte del Novecento si è occupata del sistema dell’arte in Italia negli anni del fascismo e di Mussolini e l’uso pubblico della storia. Di recente ha pubblicato, con Paola Pettenella, per il Mart, l’Inventario analitico del fondo Gino Severini (Egon Zandonai 2011). Tra il 1996 e il 2007 è stata redattrice di Avanguardia. Rivista di letteratura contemporanea, mentre negli anni novanta ha collaborato come critico d’arte con la pagina culturale de l’Unità. Ha svolto e svolge attività di critico militante.

Tu definisci Agave. Contributo allo studio delle fonti della storia dell’arte in Italia del Novecento l’ambiente digitale di cui sei responsabile scientifico ( http://www.unipa.it/agave/ ), come “un portale delle fonti della storia dell’arte in Italia nel XX secolo”. La cosa salta subito all’occhio visto che quando si parla di arte contemporanea ci si aspetta qualcosa di militante, veicolo di recensioni di mostre, artisti e così via. Ci sono dei motivi dietro questa tua scelta?

Non credo ci sia contraddizione: in Agave confluiscono diversi miei progetti di ricerca legati all’arte contemporanea. C’è il database tratto dallo spoglio delle annate del quotidiano palermitano L’Ora relativamente al periodo 1909 – 1931 e, quindi, strettamente collegato al progetto di individuazione e costruzione delle fonti della cultura umanistica del XX secolo, così come la sezione o “goccia” Mostre d’arte (attualmente in costruzione e con rallentamenti dovuti alla cronica mancanza di fondi) che – seppur sotto un altro punto di vista – può ritenersi uno spazio legato sia alle fonti sia alla critica d’arte e alla storia della ricezione. Un aspetto, quest’ultimo, a mio avviso, di estremo interesse sul piano del metodo e consustanziale all’indagine propriamente storico-artistica. Infine c’è Note a margine (http://www.unipa.it/agave/mostre/mda.php) una goccia destinata a mie riflessioni sul sistema dell’arte contemporanea in Italia.

Perché, quindi, uno spazio sul sistema dell’arte in Italia?

Direi… per necessità. Innanzi tutto, per mia necessità, ma non solo. In questi anni se non cupi sicuramente incerti sotto molti punti di vista, si respira un venticello di rinnovamento – termine questo molto generico, ne sono consapevole -, unito alla comprensibile esigenza di porre in discussione un sistema culturale ormai sempre più avvertito come logoro e spesso noioso. Almeno così a me pare o perlomeno così voglio sperare. Detto questo perché Note a margine all’interno di Agave? Perché mi interessava, come ancor oggi m’interessa, uscire fuori dalla logica della recensione fine a se stessa. Diversamente, ritengo urgente sul piano culturale, incoraggiare, se possibile, una riflessione più ampia e un confronto non sul singolo artista o sulla singola esposizione ma su quel complesso ingranaggio qual è il sistema dell’arte attuale. E quindi le istituzioni (università, musei, soprintendenze, biblioteche, ecc), le gallerie, gli spazi espositivi ufficiali e quelli alternativi, il mercato, l’ industria editoriale, la finanza e non ultimi gli assessorati e ciò significa la politica che è, piaccia o no, anche committenza. Agave, quindi, bene si presta a questo scopo perché come spazio istituzionale (posto all’interno del portale dell’Università di Palermo), mi costringe ad un rigore scientifico, ad evitare quell’autocompiacimento narcisistico che spesso grava sul web ma, al tempo stesso, proprio per essere un ambiente digitale mi offre l’opportunità, per le sue potenzialità, di realizzare uno spazio “corsaro” per eccellenza.

Cosa intendi nell’esercizio della critica per “spazio corsaro”?

Intendo la possibilità, in un sistema culturale qual è quello di questi anni e che percepisco come sempre più blindato e/o nella migliore delle ipotesi convenzionale, anche quando ha pretese alternative, di darsi la libertà di porsi, responsabilmente, come una voce fuori dal coro. Un’opportunità, questa, che oggi offre il web, pur con i limiti e i rischi che non sto qui a evidenziare, vera e propria autostrada digitale della comunicazione e, anche, della diffusione scientifica di alcuni materiali.

Le mostre d’arte temporanee vengono sempre più sbandierate nei media come grandi eventi al fine di attirare pubblico. A tuo avviso si tratta di una scelta giusta o si rivela controproducente?

Alludi, evidentemente, a quelle che sono comunemente definite come mostre blockbuster. Oggi, per una serie di motivi che investono diversi meccanismi della nostra società si è sommersi o se vuoi sollecitati da un profluvio di mostre sia di arte antica sia di arte contemporanea. Se ciò sia un bene o sia un male è un discorso complesso. E’ certo, e la ragione è facilmente intuibile, che in sede scientifica e di proposta culturale la quantità non coincide, nella maggior parte dei casi, con la qualità. E per qualità intendo sia la qualità dell’opera sia il ragionamento scientifico intorno al quale si costruisce una mostra. E qui “mi taccio” perché andremmo ad affrontare un aspetto intorno al quale circolano pericolosi equivoci.

Quali equivoci?

Molti equivoci gravano sul sistema dell’arte. Tra questi, mai memori degli errori del passato – e penso all’ istruzione, in particolare -, c’è la convinzione diffusa che le mostre d’arte, ormai opportunamente rivolte al grande pubblico e non solo agli addetti ai lavori, debbano sacrificare o ridimensionare, l’indagine filologica, la contestualizzazione, a favore di una maggiore semplicità dell’offerta. A mio avviso, è vero proprio il contrario. So che questa affermazione, in un paese che sempre più considera il sapere come una iattura e per lo più improduttiva, suona come un’eresia. Tuttavia, a sostegno di questa mia opinione potrei citarti molti casi di esposizioni di arte antica e di arte contemporanea dove l’attenta ricostruzione storiografica, l’accurata selezione delle opere, l’apparato documentario proposto ed esposto con intelligenza comunicativa hanno efficacemente risposto alla duplice esigenza di guidare sia il più vasto pubblico sia di fornire agli specialisti strumenti aggiornati di conoscenza.

Puoi citarmi qualche esempio?

Penso, in particolare e sulla scia del ricordo, proponendoti dei salti cronologici e geografici, alla mostra romana, presso i Mercati di Traiano, su I marmi colorati della Roma imperiale, tenutasi nel 2002. Un’esposizione avvincente, quasi da togliere il fiato, che proponeva capolavori sostenuti da un apparato scientifico innegabile. Un’occasione importante e stimolante da molti punti di vista che offriva il pretesto per un approfondimento sulle tecniche e sui materiali e per questo apprezzata, anche, da molti artisti. Ciò a dimostrazione che l’apparente dicotomia tra antico e contemporaneo che, spesso, infiamma gli animi è, se non un falso problema, un aspetto di discussione erroneamente impostato. Ancora, per tornare alla tua domanda, ricordo, in anni a noi più vicini, la mostra di Andrea Mantegna al Louvre (2008/2009) felice esempio di rigore scientifico e chiarezza espositiva e, quindi, comunicativa; così come, restando sempre a Parigi ma spostandomi sull’arte del XX secolo, l’interessante messa a punto sull’atelier di Alberto Giacometti, allestita al Centre Pompidou, tra il 2007 e il 2008. Un efficace modello, questo, di come si possa costruire, grazie alla complicità delle pagine di critica d’arte e dell’apparato documentario, una mostra brillante, chiara, al tempo stesso approfondita e mai ostica, pesante. Infine, penso a Re-cycle organizzata dal Maxxi di Roma lo scorso anno e, a mio parere, tra le più originali offerte degli ultimi anni proposte nella capitale. Una mostra necessaria, di taglio internazionale, sull’utilizzo dei materiali riciclati nell’architettura che ha avuto il pregio di sollecitare riflessioni sul tema del territorio, della città e, soprattutto, su quanto siano concretamente utili gli investimenti nella ricerca sulle tecnologie e sui materiali con le importanti ricadute, che ne derivano, sull’ambiente e sulla qualità della vita.

In una recente intervista ( Carlo Pulsoni intervista Riccardo Chiaberge ) Chiaberge ha confermato l’esistenza di un “conflitto d’interesse” tra critici/scrittori, nel mondo della letteratura. Esiste qualcosa di affine anche nel mondo dell’arte contemporanea?

Riccardo Chiaberge ha tracciato un quadro lucido riguardo al funzionamento e ai meccanismi che regolano l’operato di molta critica unitamente alla promozione di eventi culturali e quindi, anche, delle mostre. Non dimentichiamo, a questo proposito, che con l’affermarsi della concezione moderna di museo e sin dal primo delinearsi del mercato dell’arte si configura, parallelamente, il ruolo del critico come soggetto importante nel sistema dell’arte figurativa. Al tempo stesso, la stampa inizia ad assumere una funzione sempre più rilevante all’interno del mondo delle arti figurative, e, infatti, noi oggi consideriamo le riviste e i quotidiani di quel periodo come fonti imprescindibili. Certo, per tornare ai nostri giorni, anche nell’arte contemporanea c’è quello che sia tu sia Chiaberge avete definito conflitto d’interesse. Spesso, è noto, il curatore di una mostra scrive come critico sulle pagine di un quotidiano o di una rivista e ciò può portare a stabilire, con reciproco vantaggio, una sorta di patto di non belligeranza. Ma questo aspetto che probabilmente esisteva anche in passato, quando le pagine culturali dei giornali erano pensate come vere e proprie palestre di dibattito, è forse meno preoccupante di quello relativo al peso dello sponsor come fattore che condiziona la recensione su un quotidiano. Chiaberge conferma, infatti, che i giornali rincorrono gli eventi, i grandi eventi, perché portatori di business e ciò se è in parte comprensibile, alla lunga pesa sul piano dell’informazione, soprattutto se è l’unico elemento di selezione della proposta culturale. Giornalisti e critici hanno responsabilità in parti uguali. Mi stupisce da questo punto di vista la sua sorpresa rispetto alla difesa unanime del mondo dell’arte riguardo al commissariamento del Maxxi. Mi chiedo, gli chiedo, a proposito – e indipendentemente dalla vicenda del museo -, quale giornale avrebbe accolto l’intervento di una voce intellettuale autonoma se non quella di coloro che sono tra gli autorevoli decani del mondo della cultura e come tali sempre interpellati?

Qual è il ruolo dello sponsor o del critico militante nella trasformazione di un artista contemporaneo in “un classico”? Non c’è il rischio che in questa operazione ci sia molta improvvisazione o esigenze di marketing?

Se non ricordo male Edouard Manet – e chiedo venia al filologo per l’imprecisione della citazione – affermava che fare una mostra è cercare amici ed alleati per la battaglia. Ciò significa, e ti rispondo, che nell’esercizio della critica è inevitabile la possibilità – quando si opera nel contemporaneo – di prender posizione. Necessità che implica, però, la capacità di argomentare, di sostenere un confronto. Un confronto che sia anche scontro. In definitiva, ciò prevede sia da parte dell’artista sia da parte del critico un’assunzione di responsabilità unita, se mi è permessa una malignità, ad una solida preparazione culturale. Preparazione, e qui la cattiveria, che talvolta non riscontro. Viceversa, nel momento in cui non solo il mercato (che pure non va demonizzato), ma la critica e le istituzioni promuovono operazioni spesso più vicine al marketing in nome di una fraintesa internazionalità è chiaro che tutto questo viene a mancare. Se l’arte è solo un prodotto (con la complicità anche di molti artisti) da imporre sul mercato è evidente che il confronto non solo non interessa ma non deve esserci o al più deve fungere da orpello utile ad arricchire la bibliografia dell’artista prescelto. Ciò spiega, in parte, l’assenza quasi assoluta da parte dei “curatori” (figura professionale oggi alla moda) di curiosità sia nei confronti di personalità pure storicizzate ma fuori dal mercato – e che andrebbero rilette e riproposte -, sia nei confronti di quegli artisti solitari, seppur non isolati sul fronte culturale, che rimangono impietosamente esclusi. Inoltre, la mancanza di interesse, di apertura e spesso di spessore culturale si avverte anche sul piano del metodo, del taglio tematico. Ne deriva, nella migliore delle ipotesi, un tedio ormai insopportabile. Tuttavia, tengo a precisare che con queste parole non voglio affermare che l’opera di un artista di successo sia necessariamente indizio soltanto di un’operazione di mercato. Il successo, l’affermazione, la durata nel tempo sono necessariamente frutto, indizio, anche, di qualità. E qui dovremmo affrontare, magari in un altro momento, l’imprescindibile concetto di durata che è alla base della comprensione e della ricezione culturale. Come dovremmo affrontare l’aspetto relativo all’importanza del mestiere, termine questo ormai tabù presso un versante dell’ establishment e che, a parer mio, andrebbe opportunamente ricollocato sul piano epistemologico.

Come si inserisce in questo contesto il mondo accademico? Prende parte alla creazione di mostre di artisti contemporanei o preferisce che ci sia quella fase di storicizzazione, utile a costituire un canone non attuale?

Naturalmente, in questa sede è possibile un ragionamento solo di carattere generale che esula dalle realtà e dalle iniziative dei singoli docenti e delle singole università. Iniziative, è bene precisare, numerose anche sul piano della qualità. E’ necessaria, comunque, una premessa utile per meglio capire la situazione attuale. Lo studio dell’arte contemporanea che cronologicamente comprende, con uno sguardo internazionale, l’arte, l’architettura, le arti applicate e il design nel periodo incluso tra il neoclassicismo e i nostri giorni entra, formalmente, nell’accademia soltanto con una libera docenza bandita nel 1967 (pur con il precedente di Lionello Venturi di circa un decennio prima). Ciò significa che, pur avendo ormai diritto ad una pieno riconoscimento istituzionale, la disciplina è, ancora, accademicamente parlando, una disciplina giovane. Questo sul fronte istituzionale. Per quanto riguarda, invece, il versante del metodo non tanto la relativa estensione cronologica, quanto, soprattutto, l’estensione geografica- pensa oggi all’inevitabile apertura a paesi quali Cina, India, ecc., unita all’eccesso di materiali e fonti che caratterizza l’età contemporanea, crea, innegabilmente, alcune difficoltà. Si è verificato pertanto nell’università, fatte salve alcune singole individualità, una sorta se non di disinteresse nei confronti dell’esercizio della critica militante, di abdicazione. Ciò ha prodotto un vuoto, una sorta di latenza da parte dell’università come istituzione (non come singola cattedra) rispetto a quella capacità interlocutoria che un tempo aveva nei confronti di quegli altri attori importanti nel sistema dell’arte quali le soprintendenze, i musei, gli assessorati e naturalmente il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ne costituisce un esempio la rosa dei candidati curatori al padiglione italiano della Biennale di Venezia: negli ultimi anni nella cerchia dei papabili i nomi di studiosi provenienti dall’Università sono stati presenti in percentuale bassissima. E sempre meno ce ne saranno, probabilmente, se consideriamo i criteri di valutazione Anvur – a cui siamo chiamati a rispondere – e che rendono difficile e complicato il riconoscimento, per chi si occupa dei nostri giorni, della produzione militante o comunque strettamente rivolta alla contemporaneità.
Di queste assenze, di queste dimenticanze dovute a molti fattori, il mondo accademico ha tuttavia, qualche responsabilità perché ha lasciato dopo la generazione di Argan, Calvesi, Caramel, Crispolti e Barilli, quasi interamente in mano ad una critica anche inventiva e internazionale ma non strutturata sul versante storiografico, la gestione, a partire dagli anni ottanta, dell’intero sistema dell’arte in Italia. Ciò con conseguenze, a mio parere, negative che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Ha prevalso, infatti, sempre più un’idea mercificata dell’arte con ripercussioni non favorevoli sullo stesso mercato, che ha prodotto una strisciante omertà: alla stroncatura, certo pur se spiacevole, alla lettura critica, alla varietà dell’offerta culturale si è sostituita una metodologia che ha praticato l’esclusione sistematica dell’altro, il non diritto all’esistenza. Questo in alcuni casi è stato voluto in altri – e forse ciò è ancor più grave -, è stato, è, frutto di sciatteria, di dimenticanza culturale e storica.
Penso, a questo riguardo, per concludere, che nel mio museo immaginario, in quel museo immaginario che ogni storico dell’arte porta con sé, riserverò un posto ad una mostra il cui titolo sarà “smemorati culturali”: ovvero, una sorta di omaggio a quelle omissioni sia storiografiche sia bibliografiche che hanno accompagnato, sovente, e che ancor accompagnano, l’offerta artistica di questi ultimi trent’anni.

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