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Riccardo Bernardini intervista Bernardo Nante

Bernardo Nante, nato nel 1955 a Buenos Aires, dove vive, è sposato e padre di due figli. Dopo una formazione universitaria in Psicologia, Studi Orientali, Matematica ed Economia, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia. È attualmente Professore Ordinario di Filosofia della Religione presso la Facoltà di Filosofia e Letteratura e di Mitologia Generale e Comparata presso la Scuola di Studi Orientali dell’Università del Salvador di Buenos Aires. Visiting Professor in diverse università, nazionali e internazionali, e in altre istituzioni, è Professore Consulente della Cattedra UNESCO Edgar Morin. È presidente della Fundación Vocación Humana e del suo Istituto di Studi Junghiani. Autore di numerosi scritti sulle relazioni tra filosofia, antropologia e religione, e in particolare sulle fonti alchemiche dell’opera di Carl Gustav Jung, ha curato alcuni volumi dell’edizione spagnola delle Opere di Jung, pubblicate a Madrid, e dell’edizione spagnola del Libro Rosso (2010). Su quest’ultima opera ha recentemente pubblicato il suo lavoro principale, El Libro rojo de Jung. Claves para la comprensión de una obra inexplicable (2010), apparso anche in italiano, per Bollati Boringhieri, come Guida alla lettura del Libro Rosso di C.G. Jung (2011).

Caro Bernardo, la tua produzione intellettuale, che attraversa i campi della filosofia, della psicologia, della storia delle religioni e dell’antropologia, suggerisce che tu abbia avuto una formazione culturale interdiscplinare ed eclettica. Puoi riassumerci le tappe fondamentali della tua formazione e gli incontri che credi siano stati, in questo senso, più determinanti?

Ho impiegato molti anni a capire che, sin dalla mia infanzia, avevo sofferto di uno humor melancholicus, che mi faceva sognare chissà quali mondi misteriosi e lontani. Buenos Aires – città dove sono nato e cresciuto – era allora una metropoli nostalgica, da una parte segnata da una cultura per metà europea e, dall’altra, un po’ isolata da quell’ampio deserto fertile chiamato pampas. Le visite in campagna mi permettevano di prendere contatto diretto con quei grandi spazi metafisici, che aleggiavano in modo inquietante durante le mie notti cittadine. Per via dei miei nonni, in famiglia si parlava un francese antiquato, arricchito da italianismi, e nella scuola inglese un inglese quasi vittoriano. Nella mia famiglia paterna si faceva riferimento a una lontana parentela con Alfonsina Storni, mentre nella mia famiglia materna, di origine portoghese, a una altrettanto lontana parentela con Euclides da Cunha, il grande scrittore brasiliano. Sono cresciuto un po’ spaesato: ero il beniamino, tanto protetto quanto solitario, anche se l’humour verbale ravvivava gli incontri familiari. Mio padre, dedito con scarso successo agli affari, celava i suoi interessi filosofici e umanistici di gioventù, periodo in cui si era dedicato allo studio della psicologia oltre che – quasi segretamente – a quello di certe pratiche occulte, benché solo per un breve periodo. In questo modo, la lettura discreta di alcuni testi della libreria paterna mi permise di divenire un ipnotista dilettante; a quindici anni ipnotizzai per la prima volta, non senza timore, una ragazzina della mia età. Lessi e, più tardi, feci delle indagini sulla metapsichica (Richet) e sulla parapsicologia nelle opere di Rhine (molti anni dopo conobbi in profondità la strana opera di Rejdak e la psicotronica). Allora leggevo saltuariamente Verlaine e Rimbaud, tra gli altri, cercando anche goffamente di imitarli. I viaggi in Europa, soprattutto in Italia e in Francia, per via della mia educazione, furono come un déjà vu, ma anche per certi aspetti una delusione, dal momento che non vi trovai né Victor Hugo né Dante. Mi interessava molto meno la letteratura spagnola, nonostante mi sia poi innamorato di Fray Luis de León, San Juan de la Cruz e Santa Teresa. All’età di quindici anni, avendo letto l’Iliade e l’Odissea oltre a numerose opere di Shakespeare, ma solo un racconto di Jorge Luis Borges, la scuola mi mandò a fargli una intervista. Con Borges ci incontrammo poi a più riprese, incontri che mi spalancarono la porta a tutte le letterature. Lessi tutte le opere di Borges in pochi mesi e, motivato da lui, scelsi la strada della filosofia attraverso l’idealismo, in particolare quello di Berkeley e di Schopenhauer: un felice e inevitabile cammino sbagliato della modernità, che mi fece comunque scoprire un Platone iniziatico e, più tardi, le correnti medioplatoniche e pitagoriche. La pressione familiare e la situazione di contingenza mi costrinsero però a scegliere, come ambito di studi universitario, le scienze economiche; la “triste scienza”, però, mi deluse. Le scienze matematiche che lì si studiavano erano incredibilmente basilari e riuscii a interessarmi solo alla storia delle idee economiche. Una scoperta algebrica giovanile che chiamai, bizzarramente, “polipotenze” e i paradossi di Zenone di Elea mi portarono comunque a interessarmi alla matematica e a passare notti intere risolvendo integrali e derivate. Cominciai così il percorso di studi in matematica, nel quale per un certo tempo godei del mondo della pura astrazione. Fui assorbito dal problema dell’infinito, fino a quando decisi di abbandonare l’infinito cattivo matematico per dedicarmi alla metafisica. A diciannove anni, così, senza comunque rinunciare alla matematica, intrapresi il percorso di studi in filosofia. La situazione caotica dell’università pubblica mi costrinse a studiare con i gesuiti. Nella loro università potevamo leggere quasi di nascosto Marx o la Scuola di Francoforte, sebbene aleggiasse su tutti la minacciosa ombra della censura del mondo esterno. Tuttavia, mancava l’approccio metafisico. Naturalmente, i testi classici si studiavano con serietà; la Stimmung era però politica, quasi ideologica. La sinistra hegeliana e la riduzione del sapere a un approccio puramente sociologico erano per me deludenti. All’università mi interessavano soprattutto le questioni epistemologiche e politiche ed erano di moda la teologia e la filosofia della liberazione. Si insisteva, basandosi su fonti francesi e tedesche, sull’importanza di essere latinoamericano, identità alla quale, evidentemente, nessuno di noi poteva rinunciare. Ci volle del tempo perché riconoscessi una certa rilevanza anche a questi approcci, soprattutto in termini di recupero del valore dei saperi autoctoni e delle culture indigene, senza che essi celassero necessariamente una ideologia. Lo studio della cultura mapuche fu motivato ancora più dal fatto di aver trovato casualmente delle punte di frecce sulla riva del Lago Nahuel Huapi; lo studio della lingua guaranì cedette poi rapidamente il passo a quello del russo. In quel momento, un interesse spirituale per la metafisica era considerato anacronistico e, quasi, contro-rivoluzionario. Ovviamente, come la maggior parte di noi, subii il clima opprimente della repressione militare; allo stesso tempo, fui obbligato ad assistere alle lezioni universitarie occultando in buste opache i testi più sovversivi: dalla Tavola di smeraldo a Guénon. Non ho mai dubitato – e non ho dubbi neanche oggi – che conoscere è ricordare. Un testo di Giamblico sugli acusmatici mi fece scoprire il significato dell’iniziazione e presi così contatto con diverse correnti esoteriche, molte delle quali mi delusero, sebbene grazie alle stesse abbia avuto la possibilità di conoscere molti amici. Con il tempo scoprii inoltre che alcuni miei compagni di studio, benché pochi, condividevano i miei interessi spirituali, senza per ciò restare alieni rispetto alla grave situazione sociale e politica imperante. A livello accademico mi rifugiai negli studi classici e perfezionai il mio latino e greco; ricordo di avere pianto quando fui in grado di leggere tutto d’un fiato un testo platonico in greco a prima vista, cosa che ormai non sono più in grado di fare. Le scienze matematiche mi davano una solida certezza e, insieme alla mia abilità per il calcolo, fecero sì che già a vent’anni diventassi Assistente alla cattedra di Logica. Affrontai letture impossibili, per esempio i Principia Mathematica di Bertrand Russel, e approfondii le questioni metamatematiche. Studiai con passione il teorema di Gödel così come la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio. All’università, la matematica cominciò però a sembrarmi banale, giacché si occupava più dell’efficacia del calcolo che della comprensione del numero nel suo aspetto qualitativo, cosa che mi aveva invece sempre interessato. Ero convinto che gli ipercubi mi avrebbero fatto comprendere qualcosa dell’inafferrabile, giacché ormai ero arrivato a sospettare quanto solo successivamente lessi della quarta dimensione dei platonici di Cambridge. Mi interessai a Heidegger, arrivando solo più tardi a comprendere che le mie perplessità si potevano riassumere nelle parole di Pierre Trotignon: l’ermeneutica heideggeriana sembra una teosofia senza teofania. Mi sembrò molto più interessante la lettura di una delle sue fonti occulte, per esempio Jakob Boehme e, più tardi, i teosofi francesi. Un mio seminario su Heidegger fu approvato grazie all’apertura mentale del Professore Ordinario titolare della cattedra dedicata al filosofo, che non interpretò come una boutade il fatto che la mia monografia consistesse in un lungo poema sulla Parola, scritta in sirventesi. Non smisi mai di interessarmi ai ragionamenti filosofico-antropologici contemporanei, come in Scheler, Cassirer e altri, ma anche all’esistenzialismo o allo spiritualismo francese, affrontando però sempre tali testi con un interesse che si esauriva lentamente, giacché queste letture non riuscivano a nutrire la mia immaginazione. In quel periodo, appena si cominciavano a leggere gli autori postmoderni, soprattutto Foucault e Deleuze, fui deluso anche da loro, perché sentivo che l’allontanamento dalla centralità della ragione e dal soggetto moderno non permetteva l’apertura al mistero. Completai quindi queste letture con studi etnologici e psicologici, nei quali vi trovai orizzonti più ristretti ma, allo stesso tempo, contributi più autentici. Nei successivi studi universitari di psicologia rimasi fedele soltanto all’idea di psicopatologia che, per quanto riduttiva, mi permetteva comunque di ripensare il mondo simbolico a partire dal sintomo. Così, passai dalla schizofrenia e l’epilessia allo studio dello sciamanismo. La mia prima tesi si occupò del pitagorismo antico; mi rinchiusi per due anni nella biblioteca di libri antichi che Rodolfo Mondolfo aveva donato all’Istituto Italiano di Cultura e provai a ricostruire lo strano rapporto tra mistica e filosofia nell’antica scuola di Crotone. Padre Ismael Quiles, filosofo, teologo e orientalista, mi aprì le porte del mondo orientale; mi dedicai esclusivamente allo studio delle religioni e a entrare in contatto con l’idea di dialogo interreligioso. Entrai come giovane ricercatore all’Istituto Latinoamericano di Ricerche Comparate Oriente-Occidente. Dopo avere svolto ricerche su Sant’Agostino e Sciacca, studiai Teilhard de Chardin e Aurobindo. A questo gesuita e ad altri studiosi devo il primo approccio al mondo dello yoga, la lettura iniziatica di Patanjali e l’interesse per la Scuola di Kyoto. Poi lessi Shankara e Gaudapada e studiai anche un po’ di sanscrito. Conobbi e divenni amico intellettuale di Francisco García Bazán, con cui più tardi portai avanti alcune ricerche, essendo lui che – con la sua enorme erudizione – mi permise di approfondire le fonti gnostiche e, soprattutto, l’interessante interrelazione tardoantica tra cristianesimo ecclesiale, ebraismo, gnosticismo e neoplatonismo, senza tralasciare i testi medioplatonici e le fonti teurgiche. Conseguii poi il Dottorato di Ricerca con una tesi su “Un approccio filosofico all’opera di Jung”, base di una psicologia “cosmologica” aperta a una metafisica e articolata in una ascesi, che è alle fondamenta di tutto il mio studio filosofico. Parallelamente, un crescente interesse per il problema della conoscenza e per l’articolazione di una epistemologia transdisciplinare mi mise in contatto con l’opera e la persona di Edgar Morin, al punto di divenire Professore Consulente della Cattedra UNESCO dedicata al pensiero complesso. Senza mettere in dubbio il valore della sua opera, penso che sia ancora in corso di sviluppo una specie di epistemologia simbolica capace di articolare saperi moderni e tradizionali. A trent’anni divenni Professore Ordinario di Storia della Filosofia Antica e, più tardi, di Mitologia Generale e Comparata presso la Scuola di Studi Orientali dell’Università del Salvador di Buenos Aires. Più tardi, fui nominato Professore Ordinario di Antropologia Filosofica e, ancora dopo, di Filosofia della Religione presso la Facoltà di Filosofia della stessa università. Organizzai e coordinai anche un Master in Teoria e Storia delle Religioni, un progetto pionieristico in Argentina. In questo momento – al di là del mio ruolo di visiting professor in diverse università -, per via del mio compito presso la Fundación Vocación Humana, ho mantenuto unicamente il ruolo di Professore Ordinario nella Commissione dei Dottorati di Ricerca della Facoltà di Filosofia dell’Università del Salvador, dove esamino e seguo tesi e progetti di ricerca. In tutte le mie ricerche, ho sempre cercato non solo di nutrirmi dei grandi approcci filosofici e scientifici per studiare l’uomo o la religione, ma anche di andare direttamente alle fonti. Ho studiato con impegno, e poco successo, l’accadico per comprendere Gilgamesh e mi sono addentrato nella lingua egizia: tutte conoscenze oggi ormai sepolte nella mia fragile memoria! Con Héctor Ciocchini affrontammo una ampia ricerca sulle statue animate e, così, approfondii lo studio del Rinascimento attraverso la Scuola di Warburg. Lessi, tra l’altro, l’opera di Frances Yates e lavorai su alcune delle sue fonti, come Bruno, Agripa o Lomazzo. Al di là delle fonti antiche, coloro che segnarono il mio percorso culturale furono gli autori che gettarono anche le fondamenta di Eranos: Jung, Eliade, Zimmer, Scholem, Corbin, per citarne alcuni, nonché tradizionalisti come Guénon, Evola, Burckhardt e altri. Lessi anche con grande profitto l’opera di Raimon Panikkar e di Elémire Zolla; di quest’ultimo mi interessai soprattutto ai contributi per la comprensione dell’esperienza metafisica e dell’immaginazione creatrice, così come la sua capacità di relazionare con grande erudizione e perspicacia su testi e autori delle più svariate provenienze. Senza dubbio, però, l’incontro più importante nella mia vita spirituale avvenne a ventidue anni, quando ebbi la fortuna di incontrare un “uomo occulto”, Benito, allora di settantasei anni, che per quasi quattordici anni fu il mio Maestro spirituale. Benito mi introdusse, per così dire, alla ricerca di senso delle mie esperienze giovanili, incoraggiando la prosecuzione dei miei studi e, soprattutto, fornendomi delle chiavi teorico-pratiche per accedere al “mondo immaginale”. Con lui intravidi il profondo significato del verbum magistri: “Habentibus symbolum facilis est transitus” .

Dal tuo racconto, emerge, come immaginavo, uno strettissimo legame tra il tuo percorso biografico e il tuo itinerario intellettuale. Posso chiederti di approfondire, da questo punto di vista, quale peso abbia avuto nella tua carriera accademica la tua particolare e personale sensibilità per la dimensione religiosa, a cui hai appena fatto riferimento?

La mia infanzia fu tanto felice quanto nostalgica; ero attorniato d’affetto, ma, allo stesso tempo, isolato nel mio mondo interiore e invaso dal mistero. Nella tenuta di campagna della famiglia e nella casa in montagna di mio nonno a Bariloche (che dista 1700 km da Buenos Aires), rivivevo “in vigilia”, come una anticipazione nella vita diurna, il mistero dell’universo. Senza dubbio, questa dimensione religiosa fu presente sin dai primi anni della mia vita. Fui educato come cattolico e ricordo l’emozione provata il giorno della Prima Comunione, a sette anni. A quindici anni, invece, l’assenza di mistero nella Chiesa finì per frustrarmi e provai senza successo a diventare agnostico. La teodicea, le prove sull’esistenza di Dio e le loro confutazioni destarono il mio interesse, ma, allo stesso tempo, impoverirono la mia fede; debilitarono però soprattutto la mia fiducia nella ragione. Ammiravo Kant, ma accettavo anche quanto sostiene con humour metafisico Macedonio Fernández, maestro di Borges: “Dare gomitate a Kant è la prima cosa da fare in metafisica”. Studiai russo per addentrarmi nella teosofia sophianica, avvertendo che il mondo ortodosso e la sua enfasi iconica riuscivano a mantenere più vitale il rapporto con il simbolo e il mistero. Mi avvicinai insomma allo studio della filosofia per via di un interesse religioso, nel senso di relegere: un sapere osservante che, attraverso la cura dell’anima (epimeléia), apre alla profondità dell’uomo, del mondo e della trascendenza. Potei avvertire che l’esperienza mistica o la realizzazione metafisica erano alla base di tutte le religioni, nonostante nella loro dimensione essoterica ciò non sia sempre evidente. Così, la comprensione della diversità di fenomeni religiosi trovano una prima unità nel soggetto totalmente aperto al mistero del sacro. Ecco l’atteggiamento che guida qualsiasi approccio alle religioni e, fin dove mi è possibile, ogni sapere: anima naturaliter religiosa.

Mi piacerebbe chiederti, a questo punto, alla luce di quanto ci hai raccontato della tua formazione e, anche, di questa ultima idea anima naturaliter religiosa, che Jung fece sua mutuandola dalla formula insuperabile, anima naturaliter christiana, di Tertulliano, quando, e in quale modo, Jung sia entrato nel tuo percorso intellettuale: quando ne hai incontrato le opere e che cosa queste hanno significato per te?

Cominciai a leggere Jung in modo sistematico, per conto mio, attorno ai vent’anni, dal momento che questo autore non aveva – e non ha ancora – un posto significativo negli studi universitari del mio paese, né nelle Facoltà di Psicologia né in quelle delle altre discipline umanistiche. Jung divenne per me un ponte fondamentale per dare un “appoggio psichico” alla dimensione religiosa e, allo stesso tempo, un punto di contatto tra Occidente e Oriente, tra psicologia e filosofia. Grazie a Jung fui in grado di rileggere sotto un’altra chiave i testi orientali e, inoltre, di avvicinarmi ai testi alchemici greci o latini, da Zosimo di Panopoli al Faust di Goethe. Jung, inoltre, fu (ed è ancora) un sostegno per introdurre nel mondo accademico dei temi che, in altro modo, risulterebbero ancora più ostici. Purtroppo però, almeno per come lo conosco, il mondo junghiano, con rare eccezioni, anziché continuare ad approfondire la ricerca nella direzione inaugurata da Jung, tende a ridurre la sua démarche a una questione puramente clinica o accademica.

In questo mi trovi particolarmente d’accordo. Penso, per esempio, a come la storiografia più recente abbia bene messo in luce la graduale sostituzione, nel corso dei decenni, dell’idea originaria di “psicologia complessa”, con cui Jung aveva identificato un ambizioso e pionieristico programma interdisciplinare che trovò la sua più alta espressione nel progetto di Eranos, con quella di “psicologia analitica”, che individua invece una applicazione più clinica (e, di conseguenza, più ristretta) del suo pensiero. Tu sei conosciuto, Bernardo, oltre che per numerose pubblicazioni specialistiche, per un testo che ha avuto un grande successo e una ampia diffusione, la Guida alla lettura del Libro Rosso di C.G. Jung, nel quale hai proposto una lettura dell’emblematico diario del “confronto con l’inconscio” di Jung mantenendo una ermeneutica – se così posso dire – aperta, cioè non interpretativa in senso riduttivo. Come si inserisce questo tuo ponderoso lavoro nell’ambito della tua produzione letteraria complessiva?

Se mettiamo da parte alcune opere di divulgazione, i miei studi precedenti possono dividersi in tre grandi gruppi: in primo luogo, i lavori più specialistici dedicati all’opera di Jung; in secondo luogo, lo studio di testi tradizionali, in particolare alchemici o, comunque, legati al simbolico; in terzo luogo, gli scritti più originali che cercano di dare una proposta filosofico-psicologica in qualche modo originale. Di questi ultimi ho pubblicato molto poco, forse perché ritengo che richiedano più maturazione e, insieme, una quota di coraggio che solo ora comincia a farsi spazio. La Guida, anche se in principio appartiene al primo gruppo di opere, getta le sue fondamenta nell’ultimo gruppo, giacché tratta questioni che richiedono uno sviluppo non necessariamente junghiano.

La Fondazione a cui hai dato vita e che animi tuttora con grande passione ed energia, la Fundación Vocación Humana, dà grande peso al pensiero di Jung, ma rappresenta un unicum tra le tante altre istituzioni che, più o meno esplicitamente, si ispirano al pensiero del grande psicologo svizzero. Puoi presentarci brevemente la storia e lo spirito del tuo progetto?

Il mio interesse per la filosofia come forma di vita e impegno spirituale mi portarono, già molto tempo fa, a organizzare piccoli gruppi di studio e di ricerca al di fuori dell’ambito universitario. Circa trent’anni fa cominciai a riunire persone per studiare testi, affrontare temi filosofici, psicologici e spirituali in rapporto con la vita e, anche, fare pratiche di meditazione. A questi gruppi partecipavano ex allievi, amici e, più tardi, altre persone che, grazie al passaparola, venivano a conoscenza delle nostra attività. Uno dei gruppi, ora assimilato alla Fondazione, è ancora attivo e lavora da vent’anni allo studio delle fonti del pensiero di Jung. Con il tempo capii che l’impegno era, in ultima istanza, spirituale e che era necessario creare una formazione che sistematizzasse quella esperienza, mantenendone sia la rigorosità sia la vitalità, in modo tanto sistematico quanto aperto. Per questo motivo creai, con l’aiuto di alcuni colleghi e amici, una “formazione per la vocazione umana”, basata su conoscenze teoriche e pratiche ricavate da diverse tradizioni spirituali e riprese da una serie di autori e uomini di spiritualità contemporanei. “Vocazione umana” allude alla chiamata interiore che ogni individuo riceve per sviluppare le proprie potenzialità. Non si limita quindi a una vocazione professionale, benché la includa. Ogni individuo ha una vocazione unica e irripetibile, che consiste nell’essere sempre più se stesso e, lungi dal rinchiuderlo in un atteggiamento egoista, lo impegna a sua volta con la propria profondità, con il prossimo e con il mondo. La nostra formazione non scopre di per sé tale vocazione; si limita invece ad aiutare ciascuno a prepararsi a percorrere una strada fatta di scoperte e sviluppo della sua vocazione secondo i propri valori e le proprie risorse. In altre parole, si tratta di far sì che ognuno sia un “filosofo cosmovisionale” e un individuo capace di rendere più esplicita, ricca, aperta e rigorosa la propria cosmovisione. Tale formazione ha preso avvio nel 2003. Verso la fine del 2005 abbiamo dato vita alla Fondazione, che non si limita alla suddetta formazione, ma organizza anche, sempre con lo stesso proposito, numerose attività didattiche, di ricerca, artistiche, culturali e di solidarietà.

Alla luce di quanto mi scrivi, capisco quindi che il percorso di autoconsapevolezza e di crescita personale promosso dalla Fundación Vocación Humana non sia né una psicoterapia in senso stretto né, tantomeno, una iniziazione nel senso più tradizionale del termine. Mi sembra rimandi invece all’idea, così centrale nel pensiero junghiano, di “individuazione”, intesa come “realizzazione di sé” nel senso più ampio che possiamo attribuire a questa espressione. È corretto?

Sì, è corretto. La formazione per la vocazione umana e tutte le nostre attività non hanno una finalità terapeutica e non offrono neanche una iniziazione al modo tradizionale. Anche se non si tratta di una iniziazione, in ogni caso, le conoscenze offerte invitano a una mutazione ontologica: hanno cioè – in senso ampio – una portata iniziatica che non origina da una trasmissione iniziatica determinata, quanto piuttosto dalla promozione di un cambiamento di coscienza e, conseguentemente, da come ognuno amministra e rielabora i saperi ricevuti. È opportuno sottolineare che la Fondazione è spirituale, dal momento che riconosce e promuove la dimensione spirituale dell’uomo. Sebbene accetti la dimensione trascendente dell’uomo, non propone comunque una dottrina predeterminata in rapporto alle questioni ultime, come il concetto di Dio, l’Assoluto o il destino trascendente dell’uomo e del cosmo. L’enfasi non è riposta nella verità di una determinata dottrina spirituale, ma nella verità spirituale di ogni dottrina, che risplende nella misura in cui è vissuta con il cuore. La Fundación Vocación Humana è un movimento spirituale, perché motiva ad avere una spiritualità, non perché ne proponga una in particolare. È anche importante sottolineare che la formazione, secondo la nostra Fondazione, rispetta tutte le religioni e incentiva ogni persona ad approfondire la propria religiosità intrinseca, dentro o al di fuori di una particolare confessionalità, secondo la propria coscienza.

In questi ultimi anni è venuta solidificandosi la collaborazione tra la Fundación Vocación Humana e la Fondazione Eranos. Quali affinità vi sono in comune tra le due istituzioni, la prima a Buenos Aires e la seconda ad Ascona, in Svizzera, e quali iniziative congiunte credi potranno essere sviluppate nel prossimo futuro?

Alla nostra Fondazione manca la straordinaria storia culturale e spirituale della Fondazione Eranos, però si nutre alle stesse radici, condividendo l’interesse per la risacralizzazione della vita contemporanea. Ambedue le istituzioni sono interessate a stabilire vincoli tra il sapere e la vita nonché a mettere le conoscenze accademiche al servizio di un cambiamento integrale delle persone e della società. Esiste inoltre una grande affinità con i responsabili del destino della Fondazione Eranos, persone di grande cultura e sensibilità umana. Mi riferisco in particolare al suo Presidente, il Prof. Fabio Merlini, e al suo Segretario Scientifico, il Dott. Riccardo Bernardini. Attualmente esiste un progetto comune di ricerca ed editoriale sul tema “Eranos attraverso le sue immagini”. Il proposito è di ripercorrere l’itinerario spirituale di Eranos da un punto di vista iconografico. Stiamo inoltre coltivando diversi progetti congiunti di attività di docenza e ricerca, oltre che di pubblicazioni, sia in Europa sia in Argentina.

Intervista in lingua originale

Bernardo Nante sarà in Italia Martedì 10 Settembre nell’ambito del convegno “Etica ed Estetica del denaro” (Abbazia di Spineto, Sarteano)

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L'autore

Riccardo Bernardini
Riccardo Bernardini
Riccardo Bernardini, segretario scientifico della Fondazione Eranos, è Presidente del Consiglio Direttivo dell’Istituto di Psicologia Analitica e Psicodramma (IPAP), Scuola di Specializzazione in Psicoterapia e Formazione Permanente con sede presso il Polo Formativo Universitario “Officina H Olivetti” di Ivrea, Psicologo Psicoterapeuta e Dottore di Ricerca in Psicologia della salute e della qualità della vita e in Studi religiosi.

È socio della Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (ARPA, Torino).

Già professore a contratto di Psicologia Analitica e Psicologia della formazione presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, insegna attualmente Psicologia delle relazioni interpersonali presso la Scuola di Medicina (Corso di Laurea in Infermieristica) dell’Università di Torino e Filosofia ermetica presso il Master in Culture simboliche dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.