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Flavia Baldassarri intervista Stefania Manca

Stefania Manca è ricercatrice presso l’istituto per le Tecnologie Didattiche del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dove dal 1995 si occupa di studiare l’applicazione delle tecnologie digitali per scopi di insegnamento e apprendimento. Dopo aver lavorato a lungo nel settore della formazione a distanza e dell’e-learning, i suoi attuali interessi di ricerca riguardano l’utilizzo dei Social Media nei contesti di apprendimento formale e informale, con particolare riguardo per i social network come ambienti di apprendimento e per lo sviluppo professionale. L’intervista trae spunto dalla pubblicazione del report I Social Media nell’università italiana. Diffusione degli usi personali, didattici e professionali negli Atenei italiani. Rapporto Tecnico ITD-CNR, Giugno 2014. Il report è scaricabile a questo indirizzo.

Finalmente un’indagine sull’uso dei Social Media nelle università. Perché è stata fatta e quali sono gli obiettivi?

L’idea di realizzare l’indagine è nata per soddisfare un bisogno che noi stessi avevamo da tempo, ossia capire quale grado di penetrazione avessero i Social Media nelle università italiane, sia per quanto riguarda un loro utilizzo didattico, sia per quanto attiene ad un loro impiego personale e di sviluppo professionale. Occupandomi da tempo soprattutto della diffusione e del valore educativo dei social network, avevo sempre sentito l’esigenza di avere un quadro il più completo possibile della realtà italiana, anche a fronte del fatto che esistono dei rapporti annuali su questo tema che riguardano altri paesi, soprattutto gli Stati Uniti, ma che nulla era stato finora per il nostro paese. Da diversi anni la casa editrice internazionale Pearson, specializzata nell’editoria scolastica e universitaria, in collaborazione con il Babson Survey Research Group, somministra ai docenti delle università degli Stati Uniti un questionario avente proprio l’obiettivo di fare il punto sulla diffusione dei Social Media nell’ambiente della higher education statunitense. Conoscendo quei rapporti, ci è venuta l’idea di partire dalla più recente versione del questionario e di tradurlo e adattarlo per il contesto italiano. È stato fatto, quindi, un lungo lavoro sullo strumento per renderlo compatibile con la nostra realtà culturale ed organizzativa e per integrarlo nelle parti di indagine che a nostro avviso risultavano più carenti.

Che metodologia è stata utilizzata e come è stato scelto il campione?

Come detto sopra, l’indagine si è avvalsa del questionario americano che è stato tradotto ed adattato per il contesto italiano. Una prima versione è stata testata con un piccolo campione per verificare la comprensibilità delle domande e soprattutto la bontà di quelle che si riferivano alle specificità organizzative.

La scelta del campione è stata molto più complessa e travagliata. Fin dall’inizio ci sarebbe piaciuto raggiungere tutti i ricercatori universitari, ma non esistendo un indirizzario pubblico attraverso cui accedere ai contatti email l’impresa rischiava di diventare proibitiva. Abbiamo fatto diversi tentativi presso alcuni organi istituzionali (MIUR, Cineca, ecc.) chiedendo loro che si facessero da intermediari per l’inoltro del questionario, ma nessuna richiesta è andata a buon fine. L’idea di individuare un campione che fosse rappresentativo dell’intera popolazione, ma più contenuto numericamente, ci lasciava perplessi soprattutto per il rischio di raccogliere un numero di risposte molto basso. A quel punto ci siamo rimboccati le maniche e, partendo dalle informazioni presenti sul portale del MIUR dedicato all’università, che contengono i nominativi di tutto il personale di ricerca di tutti gli atenei, così come risultante in organico alla data di settembre 2013, abbiamo lavorato al reperimento degli indirizzi di posta elettronica. L’operazione è stata estremamente onerosa e a tratti frustrante, dal momento che si sono dovuti consultare i siti web dei singoli atenei, che normalmente rendono disponibili pubblicamente gli indirizzi email istituzionali del proprio personale anche attraverso apposite rubriche. Qualora non direttamente rintracciabili in questi siti, gli indirizzi sono stati creati attraverso un algoritmo che poggiasse su quelli già noti (es. nome.cognome@dominio.it, n.cognome@dominio.it, ecc.). Siamo consapevoli, e questo rappresenta sicuramente una delle maggiori limitazioni dello studio, che non tutti gli indirizzi presenti nei siti web delle università sono corretti e non sempre quelli generati secondo l’algoritmo individuato sono correttamente arrivati a destinazione. Inoltre, con l’uso sempre più diffuso di tecniche di filtraggio, le email di invito possono essere state bloccate dai filtri anti-spam. A ciò si aggiunga che non tutti i docenti universitari consultano il loro indirizzo istituzionale di posta elettronica, preferendo quella personale.

Un’ultima annotazione di carattere metodologico riguarda la scelta deliberata di tralasciare i docenti a contratto (di cui non esiste un registro completo e aggiornato come per quello del personale in ruolo), eccezione fatta per le università telematiche, le quali spesso si avvalgono di personale esterno per la copertura degli incarichi di insegnamento. Una loro omissione avrebbe rischiato di sottostimare in maniera importante la loro presenza all’interno dell’indagine. In questo caso i loro nominativi sono stati reperiti, quando disponibili, presso i siti web dell’ateneo in questione.

Come è stata percepita questa survey dagli intervistati? E come è andata la restituzione del questionario?

Per l’inoltro dell’invito a partecipare all’indagine è stato un sistema online che spediva le email con il mio nome come mittente, anche per conferire meno anonimato possibile all’iniziativa. Questo ha comportato che ricevessi molte risposte personali, tra cui molte di apprezzamento per l’iniziativa che stavamo promuovendo, ma molte anche piuttosto negative se non di insulto vero e proprio. Devo ammettere di essere rimasta piuttosto scossa nel ricevere messaggi di colleghi, appartenenti ad un’istituzione di ricerca diversa dalla mia, che mi invitavano piuttosto rudemente a lasciar perdere o che si esprimevano in maniera molto preconcetta nei riguardi dei Social Media. Anche i commenti raccolti nelle risposte aperte al questionario hanno confermato successivamente questo orientamento: molti riconoscimenti positivi, ma anche molti commenti piuttosto rudi. A parte la componente scientifica della ricerca, questa esperienza mi ha insegnato molto anche sugli aspetti umani e culturali che compongono in maniera articolata e complessa il panorama universitario italiano. Mi ha anche consentito di avviare nuove collaborazioni con colleghi impegnati in settori disciplinari limitrofi.

Per quanto riguarda la restituzione, il tasso di risposta è stato del 10,5%, corrispondente a 6.139 risposte su 58.175 inviti spediti. Non si tratta sicuramente di un tasso alto, ma direi soddisfacente, dal momento che di indagini ne vengono promosse molte e gli universitari non hanno molto tempo da dedicare a questo genere di iniziative. L’aspetto interessante è che, nonostante il tasso così basso, il campione di chi ha partecipato ha evidenziato caratteristiche sovrapponibili a quelle della popolazione rispetto ad alcune variabili socio-demografiche e professionali, quali il genere, il ruolo ricoperto, l’area scientifico-disciplinare di afferenza, la tipologia di ateneo e l’area geografica di appartenenza. Direi, quindi, che il nostro obiettivo è stato centrato.

Quali sono i Social Media più utilizzati nelle università e qual è l’uso principale che ne viene fatto?

L’indagine chiedeva di esprimersi rispetto ad una serie di strumenti: Twitter, Facebook, LinkedIn, Google Plus, Podcast, Blog e Wiki, YouTube e Vimeo, ResearchGate e Academia.edu, SlideShare. Tuttavia, dalle risposte raccolte ci siamo resi conto come molti rispondenti abbiano frainteso Google Plus, il nome del social network della Google, con quello della più ampia famiglia dei prodotti della casa americana (motore di ricerca, Gmail, ecc.). Al di là di questo dato, ciò che emerge è che i Social Media vengono usati dai nostri universitari soprattutto per motivi di natura personale, seguiti da quelli professionali. Il terzo posto è, come già implicito nelle aspettative, occupato dall’uso in ambito didattico.

Quali sono le differenze fra uso personale, uso didattico e uso professionale dei Social Media? Quali Social Media vengono usati per questi scopi e quali sono le motivazioni?

Per quanto riguarda l’uso personale, l’89,3% ha dichiarato di usare almeno un Social Media, con una frequenza variabile tra Raramente e Almeno una volta al giorno. Questa percentuale scende al 75,7% se si considera l’uso almeno mensile. Gli strumenti più usati risultano YouTube-Vimeo e Facebook. Le ragioni principali sono “Per restare in contatto con famigliari e amici” (soprattutto Facebook), “Per tenersi aggiornati su temi di interesse personale” e “Per trascorrere del tempo in maniera piacevole” (YouTube-Vimeo).

Per quanto riguarda l’uso professionale, il 74,5% dichiara di usare almeno un Social Media, con una frequenza variabile tra Raramente e Almeno una volta al giorno. Questa percentuale scende al 58,7% se si considera l’uso almeno mensile. I Social Media più usati sono ResearchGate/Academia.edu e LinkedIn, soprattutto per restare in contatto con i colleghi, per ampliare la rete di contatti professionali e per dare visibilità ai propri risultati professionali.

Infine, sull’uso didattico il 36,0% del campione ha dichiarato di non usare alcuno strumento. Questa percentuale sale al 55,1% se si considera la frequenza almeno mensile. I Social Media più usati sono YouTube-Vimeo e i Blog-Wiki, per migliorare la qualità della didattica e per accrescere la motivazione e il coinvolgimento degli studenti, oltre che per condividere più facilmente materiali di studio.

Con un grado di maggiore dettaglio, per quanto riguarda le modalità di utilizzo, la visione di materiali già predisposti viene privilegiata in ambienti quali YouTube-Vimeo, SlideShare e ResearchGate-Academia.edu, il commento di materiali prevale su Facebook e Twitter, mentre la produzione di nuovi materiali o elaborati è affidata principalmente ai Blog-Wiki. In generale si sottolinea la proprietà di questi ambienti di fornire molteplici fonti informative e di varia natura (esperti, documenti, siti, ecc.) per la predisposizione e fruizione delle lezioni e la valenza dialogico-comunicativa nella misura in cui sono in grado di supportare discussioni e scambi che si estendono oltre la lezione stessa.

Emergono differenze nell’uso dei Social Media fra i diversi tipi di Ateneo (statale, non statale) e fra Atenei tradizionali e Atenei telematici?

Al momento attuale non abbiamo effettuato nessuna analisi statistica comparata di questo tipo a causa della bassa incidenza nel campione di risposte sia da parte degli atenei non statali che di quelli telematici. All’interno della popolazione complessiva, infatti, gli atenei non statali costituiscono il 6,7% e questa stessa proporzione è stata rispettata anche nella quota di risposte fornite dal nostro campione (6,5%). Per quanto riguarda gli atenei telematici, il personale di ricerca incide solo per l’1,8%; in questo caso questo sotto-campione ha evidenziato una sostanziale sovrarappresentazione (6,2% sul totale) dei docenti delle università telematiche rispetto alle altre, probabilmente per i motivi indicati sopra rispetto alle modalità di reclutamento e per un possibile maggiore interesse per il tema proposto.

Dall’indagine emerge che la maggior diffidenza è nei confronti dell’uso didattico dei Social Media. Quali sono i principali motivi?

Le ragioni per le quali i Social Media non vengono usati per l’insegnamento e l’apprendimento sono state oggetto di indagine approfondita nella nostra ricerca, proprio perché è importante conoscere gli ostacoli che impediscono la diffusione di questi strumenti. Le motivazioni principali sono risultate i problemi relativi all’accertamento dell’autenticità dei contributi prodotti dagli studenti, la mancanza di funzionalità specifiche per la didattica e la carenza di buone pratiche per alcuni strumenti.

Un altro motivo importante, che emerge poco nelle risposte del questionario, ma che ho raccolto soprattutto attraverso le email che mi sono state spedite, è una diffidenza oserei dire ideologica (“Non li sopporto perché vanno molto di moda oggi”). I media parlano molto dei Social Media e spesso in chiave negativa di svalutazione del contatto umano e interpersonale, se non addirittura di vero e proprio rischio di annullare le capacità comunicative “vere”. La mia impressione è che i nostri docenti universitari, presi nel loro complesso, rispecchino quello che è il sentire comune della popolazione in generale, che tende ancora a spaccarsi tra “tecnofili” e “tecnofobi”. Credo che ci sia ancora bisogno di tempo prima di arrivare ad una valutazione consapevole e avveduta della tecnologia in generale, e dei Social Media in particolare, da parte di fasce ampie di persone.

Secondo lei in contesto universitario quale potrebbe essere il corretto uso dei Social Media per la didattica, per sfatare l’idea, per esempio, che siano un incoraggiamento alla superficialità?

I Social Media ampliano a dismisura le modalità di partecipazione, le possibilità di accesso a fonti di informazione fino a poco tempo fa precluse o impensabili, la possibilità di entrare in contatto con esperti esterni. Sono convinta che tutto questo arricchirebbe di enormi potenzialità l’esperienza di apprendimento di uno studente universitario. Ma orientarsi nel vasto mondo messo a disposizione da tutte queste risorse richiede l’acquisizione di capacità critiche, metacognitive e di auto-regolazione. Promuovere l’acquisizione di queste competenze dovrebbe diventare compito imprescindibile della scuola prima e dell’università poi, man mano che il panorama si amplierà e diventerà sempre più complesso e articolato. Questa, secondo, me, è l’unica misura atta a contenere la possibile deriva di superficialità che tanto spaventa i nostri accademici. Non certo un rifiuto aprioristico o una fuga aventiniana.

Secondo lei la comunicazione faccia a faccia rimane il medium migliore per la didattica?

Questo è quanto viene sostenuto da molti dei nostri intervistati, che enfatizzano l’insuperabilità dell’efficacia della tradizionale lezione frontale o di fonti di studio quali i libri cartacei, oltre che soprattutto una spiccata preferenza per il rapporto diretto faccia-a-faccia tra docente e studenti. Al contrario, i Social Media sarebbero causa di un’eccessiva perdita di tempo e di indebolimento dei ruoli tradizionali di studente e docente, oltre che portatori di rischi per la privacy. Al di là di queste posizioni dicotomiche, a mio avviso andrebbero invece sapientemente coniugati i benefici di tutti dispositivi che abbiamo oggi a disposizione, incluso quello del rapporto diretto tra docenti e studenti. I Social Media mettono a disposizione un ventaglio di risorse e possibilità fino a poco tempo fa impensabili. Questo non vuol dire che anche il rapporto diretto e immediato tra docenti e studenti non conservi un valore umano e comunicativo importantissimo nella relazione didattica. Il punto non è scegliere tra la comunicazione faccia-a-faccia o quella mediata dai Social Media, ma saper orchestrare abilmente la collaborazione sinergica tra le varie possibilità comunicative che abbiamo oggi a disposizione. Sarà su questo fronte, a mio avviso, che potrà giocarsi il confronto, ma soprattutto l’integrazione, con gli strumenti che la tecnologia ci mette oggi a disposizione.

Come mai solo il 34,6% dichiara di aver usato la piattaforma e-learning del proprio Ateneo? Dipende dalla resistenza culturale del personale o dall’idea che gli studenti non ne facciano uso?

Credo dipenda soprattutto da una cattiva cultura dell’e-learning che abbiamo ancora in Italia, oltre che da un’idea della conoscenza e del sapere accademico che, secondo i più, hanno bisogno di modi di trasmissione più tradizionali, ossia basati sul rapporto diretto e in presenza. A ciò si aggiunga che, secondo alcuni, le università telematiche, esplose all’improvviso in Italia negli ultimi dieci anni più per volontà legislativa che per soddisfare delle reali esigenze di studio a distanza da parte di larghe fette della popolazione, hanno fatto una cattiva pubblicità alla formazione a distanza e all’e-learning in generale. Se resistenze culturali di questo tipo persistono anche in altre parti del mondo, questo sembra essere vero più in Italia che altrove, dal momento che non abbiamo avuto in passato una cultura diffusa dell’istruzione a distanza. Queste resistenze culturali, che sembrano presenti soprattutto tra il personale docente, in realtà riguardano anche la popolazione studentesca, che spesso preferisce ascoltare la lezione in aula e non dedicare tempo ad interagire magari nei forum con il docente e i propri pari per sviluppare attività di apprendimento di gruppo. D’altra parte uno studente arrivato alle soglie dell’università ha avuto tutto il tempo per essere formato secondo modelli di condivisione del sapere e della conoscenza di tipo tradizionale. Si tratta, in un certo senso, di un serpente che si morde la coda o di una catena che viene perpetuata da tutte e due le parti. A chi spetta il potere di rivedere il modello dominante? È questa la domanda a cui occorre dare risposta, anche nelle stanze e nei corridoi dell’accademia.

Secondo lei perché le piattaforma e-learning vengono usate principalmente per scopi di tipo informativo o di condivisione di contenuti, e poco per sviluppare comunità di apprendimento?

Purtroppo sul modo in cui vengono usate le piattaforme e-learning in Italia non abbiamo dati né parziali né totali. Sarebbe importante effettuare un’indagine mirata in questo senso, anche per poter confrontare i risultati con quelli di altri paesi. Nel nostro campione, solo il 34,6% ha dichiarato di usare la piattaforma e-learning di ateneo e prevalentemente per inserire il programma dei corsi o per gestire la comunicazione con gli studenti. Di questi neppure il 20% usa le funzionalità per gestire attività collaborative di gruppo. Le ragioni, a mio avviso, possono risiedere in una cultura della didattica universitaria che ha sempre fatto leva principalmente sulla lezione tradizionale, su una modalità erogativa piuttosto che collaborativa, sulla trasmissione del sapere piuttosto che sulla condivisione o co-costruzione della conoscenza. Man mano che si sale nella gerarchia del sistema formativo diventa sempre più evidente la resistenza nei confronti di modelli alternativi dell’apprendere e, di conseguenza, dell’insegnare.

Emerge che quello personale e quello professionale sono gli usi privilegiati dagli intervistati. Insomma un uso “egocentrico” dei Social Media. Che ne pensa?

Al di là delle resistente culturali richiamate nelle risposte precedenti, credo che per poter usare con consapevolezza i Social Media in ambito didattico occorra prima appropriarsene a livello personale e professionale. Studi realizzati ormai parecchi anni fa evidenziano che l’uso personale della tecnologia non si traduce automaticamente in un suo trasferimento nel contesto scolastico, ma ne costituisce la premessa indispensabile; non è mai vero il contrario. La diffusione dei Social Media nei diversi settori della nostra vita è ancora agli inizi; occorrerà tempo per capire che grado di penetrazione avranno anche nelle nostre aule scolastiche e universitarie.

Secondo lei gli Atenei dovrebbero favorire l’uso dei Social Media?

Credo che le università dovrebbero iniziare a fare seriamente i conti con un mondo esterno che esiste e con il quale è impossibile non confrontarsi. I Social Media fanno ormai parte della realtà quotidiana della maggioranza degli studenti e di noi più adulti. Come ho spiegato con la collega Maria Ranieri nel nostro libro sui social network (“I social network nell’educazione. Basi teoriche, modelli applicativi e linee guida”. Erickson, Trento, 2013), le potenzialità che questi strumenti offrono per l’apprendimento formale rappresentano paradossalmente anche le maggiori criticità. L’ibridazione tra spazi e tempi della scuola e dello studio e spazi e tempi dello svago e del gioco, del tempo libero e della socialità, pongono una serie di sfide a cui la scuola non può sottrarsi. Dal momento che l’università costituisce il naturale proseguo per molti studenti nel loro percorso formativo, questo apparente paradosso dovrà essere studiato e risolto anche nelle sedi deputate alla formazione superiore.


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L'autore

Flavia Baldassarri
Flavia Baldassarri
Una laurea in Lettere con indirizzo classico, un dottorato di ricerca in Filologia Romanza e Linguistica Generale all’Università di Perugia e un paio di Master sulla didattica della scrittura all’Università di Pisa. Un profilo da secchiona, apparentemente. In realtà ama e si occupa degli aspetti pragmatici della comunicazione. Dal 2003 insegna scrittura professionale all’Università di Perugia e scrittura creativa fuori dall’Università. Si occupa di comunicazione e di formazione sia in ambito universitario che fuori dall’accademia: pianificazione, organizzazione e gestione dei contenuti (dalla carte al web); gestione del lavoro in gruppo; psicologia della comunicazione. Per le esperienze professionali sia universitarie che extrauniversitarie ha sviluppato competenze nel settore dell’organizzazione e gestione di eventi. Ha pure scritto e condotto un programma per RAI International, che fortunatamente non è andato in onda in Italia, ma nel resto del mondo.

flavia.baldassarri@unipg.it